Questo non è un periodo semplicissimo della mia vita. Non solo, anche ovviamente, per quel che sta succedendo nel mondo, la guerra, la pandemia, o cambiamenti climatici, la crisi economica, ma anche per quel che sta capitando nel mio giro ristretto. Succede, quando hai genitori e parenti anziani, niente di eccessivamente tragico, certo, ma neanche un periodo di quelli che ti alzi la mattina con un sorriso stampato in volto, questo nonostante il 2022 sia stato invece un anno professionalmente importante, pieno di progetti, su tutti Rock Down- Altri cento di questi giorni, e di avvenimenti. Resta che il finale è di quelli piuttosto deludenti, un po’ tirati via, certe cose che ti aspettavi e che invece non potranno accadere, parlo di routine natalizie, cose del genere, come se in qualche modo la vita si fosse sintonizzata con il pianeta e avesse deciso di prendere quella china. Oddio, sembro l’amico Red Ronnie, scusate, non volevo. Siccome, nonostante uno spirito più orientato all’area fantasiosa che a quella scientifica, sono fondamentalmente un uomo pratico, ho iniziato la mattina aggiustando la cornice di una porta che, causa operaio maldestro che l’ha montata, si stava staccando dal muro, portando giù pezzi di intonaco e mettendo a rischio anche la sicurezza di chi si trovasse a passare lì sotto, quando vivo un periodo non semplicissimo cerco, come posso, di non scaricare le tensioni dentro casa, perché in genere le mie preoccupazioni personali sono anche preoccupazioni degli altri membri della famiglia, con i differenti gradi di consapevolezza che l’età di detti membri comporta, e perché se già la vita ti presenta per menu un piatto di merda non vedo perché preparare per antipasto pasticcini alla merda di mio. Allora, volendo comunque incanalare da qualche parte quella che tecnicamente si chiama giramento di coglioni, dopo mesi in cui ho presenziato stancamente sui social, giusto condividendo articoli pubblicati e giusto qualche foto che ritenevo significativa per certificare il mio essere ancora in vita, ho ripreso a stare con una certa costanza sui social, impegni permettendo, facendo quel che sui social ho sempre fatto, e che negli ultimi tempi, diciamo pure anni, è diventato sport diffusissimo, tipo il padel, ho litigato con sconosciuti.
L’esperienza accumulata negli anni, magari un po’ arrugginita oggi, ma pur sempre esperienza decennale, qualcosa del genere che vuoi giocare a padel e non ci hai mai giocato ma sei stato un tennista provetto, qualcosa riuscirai pure a fare, mi porta a lanciare degli ami, aspettando neanche troppo pazientemente che qualcuno abbocchi. Dico neanche troppo pazientemente perché viviamo in un’era di ipervelocità, scrivi un post e neanche l’hai postato che arrivano commenti, like, e tutto quel che un post può generare. Già che io dica post sancisce il mio essere un boomer, perché sì, sto parlando di Facebook, ma io sono un uomo di parole, non di immagini e men che meno di video, faticherei a litigare con qualcuno mentre mi scorrono sotto il naso immagini come un cane che sale al ralenty su per un muro fino a prendere una bambola, una tizia attempata che racconta barzellette sconce con tanto di risate finte sotto o, di questo Dio gliene renda merito, uno degli estratti delle Pezze di Lundini che almeno mi ravvivano le giornate. Come accennavo giorni fa, niente è improvvisato, anche questo mio andare sui social per litigare segue un canone, ovviamente non scritto, quindi canonizzato solo nella mia testa, come quella finta di tirare col destro salvo poi spostare la palla sul sinistro e scattare in avanti lasciando il marcatore sul posto che ho fatto per anni, quando giocavo ala sinistra, spesso ai medesimi marcatori, che nonostante mi ripetessi immancabilmente abboccavano come fessi. Il mio quadernetto per gli appunti, quello dove segno le idee valide, i canovaccio che poi posso seguire, gli spunti da sviluppare, presenta un menu piuttosto elementare, come la finta di tirare di destro di cui parlavo prima, passaggi semplici che portano a risultati efficaci. Quindi, da copione, ecco che un post sul calcio, sul cibo, volendo anche uno nel quale ti metti a giocare con l’argomento del giorno, e nel giro di uno zot arriva la polemica, lo scontro, la litigata. Riguardo l’argomento del giorno, ho notato, la faccenda è diventata via via sempre più complicata, un po’ come il calcio contemporaneo, iperatletico più che lezioso, sorta di riproposizione in carne e ossa delle azioni dei vari PES o FIFA (non ci gioco, quindi posso aver scritto una idiozia), mica sarà un caso che ai mondiali di Qatar anche i calci di rigore ci venivano mostrati dalla prospettiva del giocatore, inteso quello che gioca a PES o FIFA, cioè inquadrando di spalle il calciatore che deve tirare, riguardo quindi l’argomento del giorno, la faccenda è diventata più complicata, perché una volta bastava prendere il trend e rovesciarlo, andando a scatenare le folle, oggi invece a trend corrisponde nel giro di poco un’ondata in senso opposto, gente che di solito tira in ballo “le anime belle”, cose così, e rovesciare un trend già rovesciato è faccenda delicata, che comporta l’avere di fronte lettori allenati, attenti, sul pezzo.
Ecco, questa cosa dell’avere di fronte gente che con buona probabilità non ha capito una fava di quel che hai scritto è da una parte avvilente, tu stai lì a scervellarti per trovare una buona sequenza di frasi che porti a una chiosa a effetto e quelli si fermano alla prima, non capendo neanche di cosa stai parlando, ma se lo scopo del post è quello di litigare, in fondo, ben venga anche un analfabeta funzionale, solo che con lui sarà una litigata vagamente asettica, tu a insultarlo con giochi di parole anche sofisticati, lui a non capire. Ci sarà, oggi non manca mai, chi ti chiederà conto del tuo litigare, tirando in ballo la guerra e i mali nel mondo, come chi si limiterà a farti la morale, ma per lo più si creeranno degli schieramenti, con gente che ti attacca anche in maniera molto violenta, e gente che ti difende d’ufficio, perché ti legge e vuole il tuo bene, fatto che ovviamente porterà i primi a accusarti di cercare il Like dei fan, come se io avessi i fan, invitandomi a uscire dalla mia comfort zone. A fine giornata avrò bloccato qualche decina di utenti, dopo averli colpiti ripetutatamente, spesso usando vieti cliché, e a parte aver sfogato un po’ di rabbia, non avrò risolto nulla di quello che mi ha spinto a fare questa sorta di Fight Club pubblico, che a differenza di quelli inventati e frequentati da Tyler Durden, non comtempla lo stare in canottiera a saltellare in un garage o nel retro di un bar prendendomi a pugni con degli sconosciuti più invasati di me. Argomento principe dei miei post Fight Club, sono un critico musicale e chi mi segue non conoscendomi di persona in genere lo fa perché ha letto qualche mio articolo e ne è rimasto incuriosito, ecco, argomento principe dei miei post Fight Club è la critica musicale, cioè quando, giocando su un campo particolarmente amico, il pubblico sugli spalti a fare il tifo per me, butto lì il fatto che io in quanto critico musicale sia preposto a esprimere i miei pareri, autorevoli, chi mi commenta invece no. Ovviamente non la metto giù così, sarebbe poco interessante, in genere tiro lì altre professioni, come il medico, l’architetto, paragonando la mia professionalità alla loro, e stabilendo che come curarsi su Google non sia cosa esattamente assennata, o lasciare costruire un palazzo seguendo le indicazioni di uno degli umarell che stanno con le braccia conserte dietro la schiena a parlare coi muratori dei cantieri, altrettanto non si dovrebbe pensare che una proprio qualsiasi opinione sulla musica sia più valida di una chiacchiera da bar, ovviamente sottintendendo che le mie, di opinioni, anzi, di pareri, le opinioni sono opinabili i pareri no, valga tanto oro quanto peso, e io, si sarà notato, peso parecchio. Scrivo qualcosa del genere, e lo faccio ogni volta che voglio metaforicamente menare le mani, e succede il finimondo. A certa gente viene il sangue agli occhi, schiuma di rabbia, prova in tutti i modi a ferirmi, partendo ovviamente dal personale e arrivando a ogni tipo di trucchetto per screditarmi, inconsapevoli che io sono lì proprio per quello, in canottiera, saltellando nel retro di quel bar chiuso agli avventori.
Intendiamoci, non che io mi inventi nulla, o che scriva qualcosa in cui non credo fermamente, anche se sto parlando di veganesimo, di Lele Adani o dell’utilizzo del Pos sono sempre estremamente sincero, figuriamoci quando parlo del mio lavoro, credo davvero che le parole di un critico musicale siano equiparabili alle competenze di un medico o di un architetto, ovviamente riconoscendo il differente ruolo all’interno della società di ogni singola professione, ma non per questo pensando che fare il critico musicale sia cosa alla portata di tutti, come per ogni lavoro intellettuale serve studio costante, approfondimento, oltre che una buona dose di talento.
Solo che la critica musicale, pensate alla strampalata proposta del direttore d’orchestra beatrice Venezi che ha proposto, come consulente del Ministro della Cultura Sangiuliano di indire un albo dei critici, non è una professione cui si arriva facendo prefissi passaggi accademici, come invece accade, appunto, per i medici e gli architetti, e può capitare che un diplomato al Conservatorio, anche ottimo musicista, non sia affatto in grado di svolgere quel ruolo, del resto non è che la critica letteraria o d’arte sia praticata da scrittori o pittori e scultori, nel caso della critica musicale, parlo di quella applicata alla cosiddetta musica leggera, termine largo con cui si intende tutto ciò che non passi per la cosiddetta musica classica, dal jazz in qua, a sancire il ruolo di un critico musicale, cioè a certificarne la professione, sono almeno due fattori, la professione, appunto, cioè il riconoscimento da parte dell’editoria, ma qui qualcuno si inalbererà sostenendo che anche chi non lo fa per lavoro potrebbe essere un valido critico musicale, in effetti non dicendo il falso, e qui entra in ballo il secondo fattore, come quando ti provano a fottere l’identità sui social e il social stesso ti chiede una doppia prova, che so?, la mail e di confermare quali tra un numero di commenti, sono stati scritti davvero da te, o la risposta a una domanda segreta che hai impostato ai tempi della tua iscrizione, il secondo fattore è la credibilità attestata dalla comunità musicale, intendendo con questa la discografia, il mondo degli artisti, quello degli altri addetti ai lavori, e, perché no, anche del pubblico. Si viene certificati critici musicali sul campo, quindi, e per poterselo permettere servono competenze specifiche, continui aggiornamenti, e, siamo sempre lì, il famoso talento.
Ah, per la cronaca non c’è volta che non arrivi qualcuno, un po’ come quel tipo buffo che presenzia a tutti gli incontri relativi ai comics in giro per l’Italia, che non arrivi qualcuno, spesso un sedicente rockettaro il cui Cv, ahinoi, è l’equivalente dell’omeopatia, e so che nello scrivere questo sto letteralmente diventando odioso ai vostri occhi, una sorta di bulletto che si vanta non si è capito neanche bene di cosa, un medico di campagna che si crede luminare, avessi voluto risultare simpatico avrei fatto un altro mestiere e non quello che, novanta volte su cento, arriva a dirvi che le canzoni che vi fanno battere il cuore, quelle che vi emozionano o vi divertono, che ascoltate al massimo volume scandendo una per una le parole del testo, a volte tatuate anche sulla vostra pelle, nei fatti fa cagare, un Grinch piovuto dal camino per rubarvi i regali di Natale, per la cronaca, quindi, non c’è volta che non arrivi qualcuno che cita, alla cazzo, la famosa frase attribuita erroneamente a Frank Zappa, quella sullo scrivere di musica che sarebbe come ballare di architettura. Frase di per sé troppo idiota per essere stata pronunciata da Zappa, che infatti si è guardato bene dal farlo, ma che comunque non sposterebbe di un millimetro il senso del mio discorso, Zappa era un compositore e musicista, mica un critico musicale, che mai ne doveva sapere lui di critica?
L’ho presa piuttosto larga, mi rendo conto solo ora, ma siamo in giornate di festa, ancora più difficili per me proprio perché, come cantava una vita fa Zucchero, il paese è in festa e io sono giù, che diamine mai avrete avuto di più urgente da fare che star qui in buona compagnia delle mie parole per stare a farmi notare che mi sono dilungato troppo in quello che, in effetti, è il cappello di un articolo, articolo che, ovviamente, a questo punto dovrà essere conciso, mica potete santificare le feste stando tutto il tempo a leggere me, credo, l’ho presa piuttosto larga ma in fondo ho parlato esattamente di quel che volevo parlare, cioè di come negli ultimi anni i social siano diventati una fogna, assai meno divertenti di prima, e di come sia facile passare dall’essere anche stimati al risultare antipatici, forse addirittura odiosi, e anche, questo il punto centrale, di come ognuno affronta i periodi difficili della propria vita come meglio crede, io menando metaforicamente le mani su Facebook, Ryan Adams, è di lui che volevo parlare e in effetti ho parlato, traslando, incidendo il suo settimo album nel giro di pochi mesi. Lui che, prolifico come pochi nel mondo del rock, volendo anche in quello del pop, che in fondo ha finito per visitare spesso, più o meno consapevolmente, si è trovato a un certo punto a doversi fermare, tirato in mezzo in una discussa vicenda di molestie e di abusi psicologici, vicenda che non ha portato a nessun processo, va detto, e che lui ha comunque gestito in modo non impeccabile, Ryan Adams è ripartito esattamente da dove si era fermato, quindi ha cominciato col pubblicare la trilogia che era rimasta in standy by durante i giorni di bufera, Wednesdays, Big Colors e Chris, poi ha proseguito tirando fuori tre progetti non esattamente a fuochissimo, ma comunque sempre nelle sue corde, Devolver, FM (uscito inizialmente in audiocassetta) e Romeo and Juliet (doppio album, come Chris, che però raccoglie brani inediti e rarità già piuttosto noti ai suoi fan), infine, cosa di questi giorni, queste settimane, una sua rilettura ryanadamsesca del capolavoro di Bruce Sprignsteen Nebraska e di quello di Bob Dylan, Blood on the Tracks.
Era già accaduto nel 2015 che il cantautore americano rileggesse interamente un album altrui, e in quel caso la sorpresa era stata davvero tanta, perché Ryan aveva inciso 1989 di Taylor Swift, innalzandola in quache modo a ruolo di artista credibile per il suo mondo, ma Nebraska è davvero un lavoro considerato intoccabile, il capolavoro personalissimo di un artista di grande successo ma anche di culto, e Dylan, diavolo, che dire di Dylan?, anche solo pensare di fare i conti con lui è una sorta di suicidio annunciato, l’unico a poter apprezzare proprio lo scorbutico e geniale premio Nobel. Nel mentre, proprio a causa delle vicende personali che lo hanno tenuto al palo, Ryan ha perso il suo contratto discografico, al punto che si autopubblica i suoi lavori, Nebraska è stato regalato sul suo sito, in download, qualche settimana fa, Blood on the Tracks lo ha seguito per Natale, e soprattutto qualsiasi cosa faccia, compreso questa operazione che comunque dimostra quanto il cantautore abbia personalità da vendere, qualsiasi cosa faccia i media la ignorano come se fosse di colpo divenuto invisibile, irrilevante, peggio, un paria. Nebraska e Blood on the Tracks nella versione di Ryan Adams sono due album meritevolissimi, il primo forse più singolare, meritevole di attenzione e di più ascolti, il secondo più didascalico, fedele alla poetica di Dylan più che all’originale, Nebraska dove il nostro reinterpreta con rispetto estremo le canzoni più intime e forse dolorose scritte dal Boss, fedele per quel che riguarda il cantato, non sempre per quel che concerne i suoni e gli arrangiamenti, a tratti appesantiti da tappeti elettronici laddove Sprigsteen era stato severamente acustico, low-fi, noto è che ai tempi lasciò fuori dalle registrazioni la E Street Band, forse una scelta dettata dalla volontà di mettere del suo in un album che altrimenti risulterebbe puro mestiere, o semplicemente figlio del suo gusto personale, l’album di Dylan affrontato giocando a togliere, certo, acustico dove deve essere acustico, elettrico dove deve essere elettrico, ma anche estendoendo a dismisura, come in una lunga jam a cielo aperto, nella concezione ryanadamsiana di rock’n’roll, Idiot Wind, come prevedibile, il picco massimo, come era anche per Dylanm del resto. Questa smania di fare i conti con dei classici, a tratti fedele a tratti personale, quasi sempre fedele, qualcosa che ci fa venire in mente il Beck che tra il 2009 e il 2010, in ottima compagnia di colleghi quali Devendra Banhart, Feist, St.Vincent, Tortoise e Thurston Moore, ma a essere onesti dovrei proprio citarli tutti, sono decine, decise di pubblicare il rifacimento di cinque album storici d’altri tempi, nello specifico Velvet Underground and Nico, dei Velvet Underground, Songs of Leonard Cohen, di Leonard Cohen, Oar di Skip Spence, Kick degli INXS e Yanni live at the Acropolosi, di Yanni, il tutto sotto il marchio Beck Record Club, il format prevedeva band con componenti variabili lì a incidere l’album dall’inizio alla fine in una unica session di un giorno. Da noi è successo con Morgan che ha riletto Non al denaro non all’amore né al cielo di Fabrizio De Andrè, ma ben sappiamo che il cantautore brianzolo ha già pronti album simili su canzoni di Endrigo, Bindi e altri pezzi grossi del nostro cantautorato, così come è successo con Max Gazzè dal vivo, recentemente ha riproposto il concerto a Pompei dei Pink Floyd, senza tener conto dei tanti che rileggono il repertorio altrui dimenticandosi di citare la fonte, vedi alla voce copia/incolla. Ryan Adams, che nel pubblicare Blood on the Tracks ha comunque lasciato intendere che altro arriverà nei prossimi giorni, usa la musica, anche quella di altri, siano Taylor Swift o Bruce Springsteen o Bob Dylan, poco cambia, per scacciare i suoi fantasmi, credo di poter dire lasciandomi andare a una facile e comoda retorica, mica uno deve sempre sudarsela, no?, ma al tempo stesso contribuisce con la sua musica, anche quella di altri, a tenere lontani i miei, il che mi sembra in questi giorni davvero una gran cosa, parola di critico musicale.