Questa estate ho passato un paio di settimane con la mia famiglia in Francia. O meglio, con cinque sesti della mia famiglia, Lucia, che conoscete perché a sua volta scrive a volte qui, non era dei nostri, giustamente. Uno dirà, sticazzi, questo cosa fa, scrive un articolo per farci sapere che è andato in vacanza in Francia in formazione familiare parziale? Ovvio che no, figuriamoci se mi lascio andare a personalismi, proprio io. Non è della Francia o della mia famiglia che voglio parlarvi, anche se, questo suppongo già lo sappiate, è della Francia e della mia famiglia, che andrò a parlare per accompagnarvi, con calma, facendo giri panoramici, verso il tema che alla fine risulterà centrale e magi come in questo caso dire “alla fine” è essere coerenti e sinceri. Quindi questa estate ho passato un paio di settimane con la mia famiglia, non in formazione completa, in Francia. Un on the road, tanto per fornirvi qualche ulteriore dettaglio, che ci ha dato modo di visitarne a fondo la provincia, quella che per chi non c’è stato, o almeno per noi, dista parecchio dall’immaginario francese, troppo spesso erroneamente coincidente con Parigi.
Girando in auto ci è capitato di incontrare un numero imprecisato, decisamente un numero molto alto, a tre cifre, di paesini, borghi, villaggi, ma anche un numero moderatamente alto di città, intendo città di medie e piccole dimensioni, tra i cinquanta e duecentomila abitanti. Qui, la Francia ha una certa propensione all’accoglienza turistica, checché ne dica una certa vulgata che vuole i francesi snob e ostili nei confronti degli italiani, abbiamo avuto modo di confrontarci con una prima anomalia, attenzione che, a vostra insaputa, stiamo già entrando, seppur mimeticamente, nell’argomento centrale di questo scritto, i simboli atti a rappresentare iconicamente questo paese. Ora, fatto salvo che praticamente ogni città, o quasi, ha un corredo urbano atto a accompagnare i turisti, sotto forma di placche in bronzo poste sul ma marciapiede, sorta di molliche di pane di pollicino che indicano i percorsi più interessanti, placche che rappresentano, di città in città, il simbolo cittadino, che sia un gufo a Digione o un cavaliere a Saint-Malò, vado a memoria, è sui simboli nazionali che mi sono letteralmente incartato, perplesso. Sin da piccolo so che il simbolo della Francia è un gallo. Così si chiamano i calciatori della nazionale, i galletti francesi, ai galletti si fa riferimento nel nome e nel logo della più importante azienda legata alla sport francese, o meglio, a quella che era la più importante prima dell’arrivo world wide di Decatholon, Le coq sportif, il galletto sportivo, e a un gallo, più o meno, si è sempre fatto riferimento in certa iconografia, e sì, lo so, ho una conoscenza della Francia che sembra quella di uno cresciuto a pane e Guerrin sportivo/Gazzetta dello Sport, tant’è. In effetti di galletti, in giro, se ne vedono parecchi, rappresentati in scudi e stemmi, indicati nei magneti che si trovano nei negozi indirizzati a infinocchiare i turisti, galletti come se piovesse. Del resto, anche solo chi ha visto un qualsiasi film a cartoni di Asterix lo sa, per noi latini i francesi sono sempre stati i galli, al punto che una ridente cittadina vicino alla mia città natale, fondata dai galli senoni, che così si chiamavano non perché le loro donne avessero una propensione alla sesta carenata, scusate certe battute di bassa lega atta più che altro a sviare la vostra attenzione dal fatto che fin qui ho parlato prevalentemente di calcio, il che è un po’ come fare uno squassante rutto in pubblico per coprire il fatto che si stia scoreggiando, ma oggi gira così, la ridente cittadina dalle mie parti fondata dai galli senoni si chiama Senigallia, nome che richiama appunto alla Gallia, nome che un tempo i romani, intesi come impero romano, avevano affibiato proprio ai lidi francesi.
Galli, quindi, o galletti.
Ma spesso ci sono anche degli orsi. Orsi bruni, prevalentemente, che gli orsi bianchi si trovano in zone più fredde, ma comunque orsi. Ne ho visti di imponenti nei giochi di luce notturni di Bourges, ne ho visti nel castello che fu dato in comodato d’uso a Leonardo da Vinci, Clos Luce, a Amboise, ne ho visti tanti in altri luoghi e altri laghi. Al punto che, a occhio distratto e anche un po’ legato a certe dinamiche americaneggianti, i vari Rocky, i muscoli del macchinista, quella roba lì, l’orso sarebbe potuto serenamente essere il vero simbolo della Francia, più del galletto, decisamente più piccolo e meno visibile (sfido io a chi, vedendo un orso e un gallo, contemporaneamente, noterebbe prima il galletto che l’orso). Certo, visto il giro che con la formazione parziale della mia famiglia abbiamo fatto, cui non vi metterò a conoscenza se non parzialmente, a mero scopo narrativo, il dubbio che il galletto sia il simbolo nazionale e l’orso il simbolo di una determinata regione, piuttosto nota per i suoi castelli, mi sarebbe potuto anche venire, ma in vacanza ho per scelta deciso di staccare da internet, fatto salvo il navigatore di Google Maps, quindi non ho fatto quello che in effetti ho appena fatto ora, cioè andare a controllare sul medesimo luogo, Google, scoprendo appunto il misfatto, fatto che, fosse accaduto prima, avrebbe impedito questo mio procedere random, scusate se vi metto così tanto a conoscenza dei meccanismi che muovono il mio stile scrittorio, o il mio stile scrittori oggi. Quindi, ok, il gallo è il simbolo della Francia, e ok, l’orso è il simbolo della Loira (sorpresa, è quella la regione famosa per i castelli cui facevo riferimento), ma resta che la cosa non è raccontata bene, e questo florilegio di altri animali che si trova in giro, i già citati gufi, i draghi, i cavalli, i cervi, onnipresenti sotto forma di teste di cervo impagliate appese alle pareti dei suddetti castelli, e in effetti molto presenti anche vivi e non impagliati in natura, visitando la riserva naturale di Boutissaint, imperdibile per chiunque capiti in zona, ne abbiamo visti a centinaia, compreso il rarissimo e famigerato cervo bianco, ma di questo avrò modo di parlare in altra occasione, questa continua presenza di animali rappresentati in terra, nelle già citate placche, rappresentati nei simboli che ornano monumenti e mura, rappresentati nei magneti, sì, i magneti, non fa che confondere le cose. Anche perché, e qui arriviamo davvero a pochi passi dal tema centrale di questo scritto, so che la cosa non mancherà di farvi inarcare sarcasticamente un sopracciglio, proseguendo nell’on the road, eccoci arrivati al punto, abbiamo avuto modo di fare i conti con un’altra razza animale molto presente in Francia, decisamente più di galli e orsi, galli che abbiamo visto sporadicamente, attraversando molti territori di campagna, orsi no, non ne abbiamo visti proprio, i gabbiani. Chiunque abbia avuto modo di visitare, più o meno approfonditamente, questo non è un reportage di viaggio, non è neanche un pezzo sulla Francia, converrete con me, anche perché nel mentre siamo arrivati a bagnarci i piedi sulla sponda dell’argomento del giorno, ve l’ho già detto, a breve sentirete i benefici di questo pediluvio, chiunque abbia avuto modo di visitare, più o meno approfonditamente, Normandia e Bretagna, o almeno le coste di queste due regioni bagnate dall’Oceano Atlantico e dalla Manica, avrà visto che la quantità di gabbiani presenti è davvero spaventosa, quasi da remake del film Uccelli di Alfred Hitchcock, film a suo modo horror nel quale il regista, appunto, usava proprio i gabbiani per rappresentare il lato crudele degli uccelli medesimi. Gabbiani ovunque. Gabbiani, eccoci, pronti a attaccare l’uomo, senza timori reverenziali, senza neanche più comprensibili e istintivi timori e basta, un uomo, vale lo stesso discorso del galletto e dell’orso, come direbbe quel tale Rowbyn che imperversa sui social sostenendo che “di base la tigre è più forte del leone”, di base l’uomo è più forte del gabbiano. Eccoci nel punto esatto da cui tutto comincia a essere più chiaro, come quello scacco di Piazza San Pietro dal quale si vede solo una delle due colonne che, parallele, corrono in tutto il perimetro pensato dal Bernini.
I gabbiani, quindi. Non so se sono i gabbiani il simbolo di Normandia e Bretagna, e onestamente nonostante io li abbia visti molto rappresentati in magneti e ninnoli per turisti dubito le cose stiano così. Gabbiani cattivi, pronti a rubarti una crepe alla Nutella, scena di vita quotidiana, a Etretat, o comunque a romperti i coglioni in ogni lago e in ogni luogo, sempre e comunque, e soprattutto sempre e ovunque. Non credo sia un caso ci siano gabbiani in buona parte delle foto scattate da me e la mia famiglia in formazione incompleta in vacanza con me e non credo sia un caso che i gabbiani siano poi finiti nei ricordi per turisti, virando in simpatica ironia quella che è invece, a tutti gli effetti una vera piaga.
Mi fermo.
Vi ho avvisato che avevamo già i piedi a mollo nell’argomento del giorno, e non mentivo. Anche la scelta del parlare dell’argomento del giorno come un qualcosa che sia inerente all’acqua e all’acqua che ci lambisce le caviglie, sommergendoci i piedi, non è casuale, chi scrive, o quantomeno chi lo fa con un minimo di velleità letterarie, tende a non buttare lì parole a caso.
Sposto il discorso su un momento specifico della mia vacanza, sempre quella, in Francia. Ho detto che i gabbiani ci hanno rotto le palle a più riprese, provando a rubarmi dalle mani una crepe alla Nutella sul lungomare di Etretat, posto incantevole, gabbiani a parte. Li odio. No, questo non l’ho detto. Forse era sottinteso. Ora è stato detto. Li odio, appunto. Li odia un po’ tutta la mia famiglia, compresa mia figlia Chiara, undici anni tra pochi giorni, che di tutta la mia famiglia è la più appassionata di animali, durante questa vacanza si è letta Il mio zoo di Gerrard Durrell, per intendersi. Ecco, anche lei odia i gabbiani, per quanto ci hanno rotto le palle in questo pezzo di vacanza on the road. Credo che da oggi mi starà sul culo anche Il falco e il gabbiano del mio amico Enrico Ruggeri, non fosse altro perché, a occhio, il gabbiano lì rappresentato è assai distante dalla realtà, feroce e aggressivo come si è dimostrato in terra francese.
Siamo a Mont Saint Michel, in quel punto della Francia dove la Normandia sta per diventare Bretagna. Conoscete tutti Mont Saint Michel, immagino, e non parlo certo della canzone di Amedeo Minghi, che in effetti parla di Mont Saint Michel, i titoli stanno lì per quello, e che confesso mi hanno fatto sentir parlare di Mont Saint Michel per la prima volta, parlo proprio del borgo arroccato su un isolotto che, con le maree diventa di volta in volta terra ferma o isola, dando al tutto un fascino ulteriore. Tecnicamente non siamo a Mont Saint Michel, siamo a circa quattro chilometri da Mont Saint Michel, in mezzo a una sorta di palude fatta di sabbia, fango e acqua che scorre feroce, guidati da un mio coetaneo francese che cammina velocissimo parlando un inglese quantomeno discutibile. Siamo una trentina di persone, forse meno, e stiamo facendo una passeggiata che durerà poi circa tre ore e mezzo, in quella che, con la marea alta, è il mare che circonda Mont Saint Michel, ma che al momento è questa cosa qui, sabbia, fango, fiumi, pozze. Ci stiamo avvicinando a Tombelaine, l’isolotto anch’esso al momento emerso del tutto che si trova, appunto, a quattro chilometri a piedi da Mont Saint Michel, a piedi se c’è la bassa marea, chiaro. Siamo scalzi, perché abbiamo attraversato più volte l’acqua, che ci arrivava alle caviglie, e per non correre rischi il tutto avviene tra le tredici e trenta e le diciassette di un giorno d’agosto con circa trentacinque gradi, così, per fornirvi alcuni dettagli non troppo inutili. La guida, che ogni tanto ci stacca per andare in avanscoperta nei tratti dove attraversiamo corsi d’acqua, per, dice, evitarci di finire nelle sabbie mobili, poi scopriremo che ha fatto un po’ di pantomima a nostro uso e consumo, ci dice che questo isolotto, incredibilmente largo più di Mont Saint Michel, benché alto esattamente la metà, un tempo era abitato. Ci racconterà anche una storia d’amore in salsa Romeo e Giulietta, inutile ai fini di questo mio pezzo, sottolineando come sarà re Luigi XIV a renderà disabitata, per motivi non nobilissimi, era di proprietà del suo ministro delle Finanze, l’uomo all’epoca più ricco di Francia, e lui, invidioso, lo farà arrestare e morire in carcere, e poi raderà al suolo tutto le costruzioni presenti nell’isola, al momento parco ornitologico protetto abitato da circa ottocento uccelli di non so quante razze diverse. Eccoci al punto. Abbiamo camminato per oltre un’ora, forse un po’ meno, faticando sotto il sole, i piedi sporchi di fango, la pelle che tira. Il tipo, la guida, ci dice che questa è un’oasi naturale protetta, che si possono sentire i versi di tanti uccelli diversi, qui padroni di casa. Ci dice che possiamo fare una pausa di una decina di minuti, prima di ripartire per un altro paio d’ore di passeggiata. Con noi, nei pressi, almeno altri tre gruppi di turisti con altrettante guide, ognuno posto in una porzione distinta di isolotto. Ci facciamo i selfie inquadrando Mont Saint Michel, lontana. Centinaia di selfie, tutti uguali, verificheremo poi, ma che al momento ci sembrano fondamentali. Poi ci mettiamo tutti all’ombra. Ci siamo noi cinque e un’altra italiana, senza la famiglia, la figlia, ci ha detto, si è sentita male e quindi è rimasta col padre in albergo e tutti noi abbiamo pensato la stessa cosa, Covid, tenendola a debita distanza, povera gabbiana, poi una famiglia olandese con nome che comincia per Von, un gruppo di amiche spagnole, dei francesi. Siamo seduti su sassoni che stanno alla base dell’isola di Tombelaine, nome che deriva dalla storia alla Romeo e Giulietta di cui sopra, dove la protagonista femminile di chiama appunto Elaine, Elena, e qui ha trovato la morte, quindi siamo seduti ai piedi di un isolotto che si chiama la Tomba di Elena, in una porzione di isolotto che con la marea resta sommerso, la marea ci ha spiegato il tipo arriva a una velocità tra i quindici e i venti chilometri orari, con onde tipo tsunami alte circa un metro e se ne ritorna indietro, circa un’ora e mezza dopo, a una velocità decisamente inferiore, circa quattro chilometri orari, fatto che, in natura, avrebbe reso presto Mont Saint Michel terra ferma, non fosse che per faccende turistiche in passato abbiano portato via non so quanti banchi di sabbia, alla faccia del pianeta e del rispetto per esso, non ditelo a Jovanotti che viene qui a fare uno dei suoi parti in un niente.
Siamo qui a bere acqua dai nostri thermos, dosando le sorsate, perché abbiamo ancora tanta strada, si fa per dire, da fare, quando l’occhio mi cade su qualcosa di marrone posto sotto un sasso incastrato sotto una roccia gigante. Mi avvicino e vedo che è un pulcino di gabbiano, qui i gabbiani sono quelli classici, bianchi con striature grige o nere, ma anche a chiazze bianche e marroni. Credo sia morto, quindi non dico nulla al resto della famiglia, per non rovinare loro l’esperienza incantevole, ma avvicinatomi scopro che è vivo e vegeto. È piccolo piccolo, e sta provando a aprire le ali. Credo, fossi Sepulveda magari lo saprei, stia facendo le prove generali di volo. Sposto il sasso, che lo copre parzialmente, chiamo i bambini che vengono entusiasti. Chiamo anche gli altri bambini della comitiva, e tutti si avvicinano, rispettosi. A vederlo così, piccolo pulcino, tenero e indifeso, il gabbiano mi si mostra sotto un’altra prospettiva. È bello, decisamente, ma anche i gabbiani adulti lo sono. Ma è anche indifeso come la natura, in effetti, ai giorni d’oggi non può che apparire. Basterebbe spostare il sasso dal quale l’ho parzialmente liberato, per ucciderlo. O quantomeno ferirlo. Invece siamo qui che lo ammiriamo, incantati. Spettacolo nello spettacolo, quasi al pari del cervo bianco che abbiamo visto a Boutissaint.
La guida ci dice che è il momento di ripartire, abbiamo altre due ore di camminata da fare, due ore che si chiuderanno con l’esperienza, folkloristica, di rimanere incastrati nelle sabbie mobili, a beneficio di smarphone, il tutto minacciati da gabbiani più grandi, che ci volano sopra come condor in attesa di nutrirsi dei nostri cadaveri o dai resti dei nostri panini.
Stiamo per giungere alla conclusione, e, senza che neanche ve ne siate accorti, vi ho parlato di musica, anzi, vi ho parlato della musica che gira di più oggi, o di quella che una certa narrazione ci vuole far credere è la musica che gira più oggi, quello strano miscuglio tra pop, trap e rap che porta in vetta alle classifiche personaggi discutibili, artisticamente, Dio mi perdoni, e umanamente, come Rhove e affini.
È quindi il momento delle conclusioni.
Riassumo, a beneficio dei più distratti e anche dei meno arguti. C’è la musica, quella che affonda le radici nella tradizione, che ha avuto a suo modo una evoluzione, superando l’incedere del tempo, vanto per chi l’ha fatta al punto da averne fatto indicazione per gli stranieri, proprio vessillo da infilare in placche incastonate sui marciapiedi, scudi e araldiche, magneti e affini.
Poi c’è la dura realtà, i gabbiani, schifati dalla narrazione ufficiale, e come non schifarli, ma onnipresenti. Loro, i Rhove di turno coi loro borselli da maranza, i capelli sfumati da maranza, gli atteggiamenti arroganti da maranza, pronti a tormentarci e molestarci, rovinarci i pasti e le passeggiate, vere rotture di coglioni. Si sentono i padroni del mondo, attaccano inconsapevoli che, Rowbyn insegna, “di base un artista non alla moda è più forte di uno che ha creato un tormentone destinato, Dio voglia, a sparire presto dalla circolazione”. Sfumature alte e borselli neanche buoni per finire lì sul marciapiede, pronti per essere calpestati.
Poi, e qui chiudo davvero, c’è il discorso generazionale, quello che fa cadere sulla testa di chiunque provi a constatare la realtà la più scontata accusa di boomerismo, che stare ancorati al proprio passato è roba da vecchi rancorosi, che i giovani hanno diritto d’asilo a prescindere dalla musica di merda che fanno, che in fondo anche Jovanotti da giovane ha fatto cagate come La mia moto o Gimme five e invece adesso… beh, no, forse questo è un discorso che è meglio non affrontare, ci siamo comunque capiti, i giovani hanno tutta la vita davanti, dovremmo essere tutti un po’ meno rigidi e forse anche un po’ più accondiscendenti nei loro confronti, lasciare loro spazio.
Ecco, torno con voi su quella roccia di Tombelaine, Mont Saint Michel visibile a quattro chilometri di distanza. Abbiamo questo pulcino di gabbiano, e ringraziatemi davvero di non aver virato il discorso su “povero gabbiano”, Dio santo, e noi che a vederlo ci inteneriamo, dimenticando per un momento che poi, quel medesimo pulcino, diventerà un gabbiano adulto, pronto a romperci i coglioni, provando a rubarci le crepe alla Nutella cantando Shakerando. Certo, i giovani son giovani, il futuro è loro, anche parte del presente è loro, ciò non toglie che se fanno musica di merda l’essere giovani non è un’attenuante, e che anche se fosse un’attenuante sempre musica di merda resterebbe (in questo il già citato Ruggeri ha perfettamente ragione, questa accozzaglia di suoni che i gabbiani di turno propongo dal vivo “cantando” sopra le canzoni prese direttamente dai Cd non è esattamente musica). Uno li vede, lì vestiti come dei maranza a parlare di Casio e caschi integrali, e gli verrebbe quasi da pensare che col tempo anche un tamarro come Rhove maturerà, capirà di aver fatto qualcosa di veramente brutto e di essere stato arrogante nel pensare di aver sfornato chissà che capolavoro, convinto che i numeri dello streaming dicano qualcosa sul valore, povero Pulcino Pio 2022, poi però pensa che questi stessi Rhove magari resteranno in circolazione ancora per qualche tempo, provando a replicare un successo effimero sfornando altre cagate del genere, un piccolo pulcino che diventa un gabbiano molesto, e il rimpianto di non aver lasciato quel sasso sopra quelle alucce deboli e fragili si fa insopportabile. Come diceva un tormentone dei tempi dei miei nonni, sopravvissuto all’incedere del tempo, giusto appena modificato per l’occasione, “era meglio ammazzarli da piccoli”, metaforizzo, ma neanche troppo, che almeno “maman” non si sia preoccupata per niente.