Sarà capitato a tutti di leggere uno di quegli articoli di costume che presentano una galleria di errori marchiani commessi nel girare film di grande successo. Articoli sempre, doverosamente, perché le prove sono necessarie in questi casi, corredate da foto, frame dei film in questione. A fianco di grandi classici come il camaeraman che è inquadrato o del microfono ambientale, quelli sorretti da una qualche asta e coperti da un rivestimento di spugna, che spunta in alto, ci sono veri e propri errori storici, di quelli che poi danno la stura a un qualche intervento di Barbero pronto a diventare virale (giorni fa ne ho visto uno in cui ci spiegava, bontà sua, che non capisce perché a Hollywood siano così attenti a ricreare i costumi dell’antichità, nei film storici, ma non prestino mai attenzione alle acconciature, spiegandoci come gli antichi portavano i capelli). Tra questi ci sono film che presentano oggetti, invenzioni non ancora presenti nel momento in cui la trama si svolge, magari fanno anche riferimento a qualche accadimento, non ancora avvenuto. Chiaro che se su Il gladiatore un soldato romano indossa un Casio col cinturino in plastica, fate citare anche a me il Casio, voglio sentirmi per un minuto normale, quello è un errore dell’attore, ma se invece in Gucci si fa riferimento allo walkman in una scena che si svolge prima che lo walkman fosse in commercio, beh, quello è proprio un errore da matita blu, nel caso specifico la matita blu di qualche nerd che si bagnerà le mutande per aver colto in fallo un qualche sceneggiatore strapagato, contento lui. Ecco, allora io partirei da una scena che, fosse in un film, provocherebbe una polluzione diurna a uno di questi nerd, sempre che i nerd leggano articoli di giorno, perché si svolge nel passato, negli anni Settanta, ma fa riferimento a qualcosa che accadrà, per nostra somma sfiga, solo decenni dopo. Di più, una scena che mette anche in campo un secondo errore, ma questo è sistematico al primo, poi ci arriviamo in sieme. Siamo in Ancona, fine degli anni Settanta. È domenica, e siamo dentro l’aula magna del Liceo Classico Rinaldini. La sala è stata agghindata con tante sedie, scomode, poste in file ordinate, un corridoio nel mezzo. Di fronte alle sedie c’è un palco, non troppo alto, più una lunga pedana. Non ho idea, non è importante, se questa sia una condizione di quell’aula magna che si presenta così anche durante il resto della settimana, a beneficio degli studenti della scuola, studenti che, siamo negli anni Settanta, fanno parte di una classe sociale di cui, questo è un vezzo dello scrivente, lo scrivente, che poi sarei io, non fa parte, anche se poi, a suo tempo, proprio il classico andrò a frequentare, vedi tu come si evolvono i tempi.
Tra le centinaia, diciamo tra le due e tre centinaia, di persone presenti in sala, vedo molte pellicce, ancora gli animali erano solo animali, e molti anziani, l’ageismo è faccenda di questi nostri giorni, anche se a ben vedere ai tempi potevano sembrarmi anziani anche chi anziano ancora non era, coi bambini succede così, tra le centinaia di persone presenti ci siamo anche io, bambino di neanche dieci anni, mia madre, capelli cortissimi e occhiali con la montatura spessa nera e la forma da occhi di gatto, oggi ricercatissimi, e mia sorella maggiore, Caterina, che studiava oboe al conservatorio Rossini di Pesaro. Qualche sedia più in là, fingessi di ricordare dove mentirei clamorosamente, alcune delle sorelle di mia madre, i cui figli, come me e mia sorella, studiano musica classica. Vecchi retaggi familiari, quelli, un bisnonno direttore d’orchestra col quale fare i conti, nonostante io sia nato addirittura dopo che anche mio nonno era morto. Uno dei miei cugini, Giovanni, detto Gio’, per altro, entrerà in scena tra poco, lui oggi ingegnere dell’Eni in qualche piattaforma nel centro Africa, all’epoca studente al Liceo Scientifico e al Conservatorio, dove studiava violino.
Il motivo della nostra presenza lì, in una domenica pomeriggio di inverno (questo dettaglio stagionale è frutto di finzione, non ho idea di che giorno fosse, ma mi è ben chiaro che non era estate e l’inverno è decisamente la stagione più consona per ambientare questo ricordo), è uno dei cosiddetti Appuntamenti degli Amici della Domenica. Cioè dei concerti di musica classica che una associazione locale, di Ancona quindi, organizzava quasi tutte le domeniche. Appuntamenti ai quali ero sostanzialmente costretto a andare, per almeno tre buoni motivi, buoni motivi agli occhi di chi mi ci portava, mia madre. Primo, la musica classica era qualcosa che avrebbe contribuito a formare la mia personalità, io un bambino piccolo borghese sputato dal terremoto del 1972 in un quartiere di alta borghesia, la nostra casa resa inagibile dal sisma sostituita momentaneamente dalla casa sfitta del prefetto di Macerata messa a disposizione del comune per noi sfollati, da qualche parte dovevo pur cominciare per crearmi una mia solida posizione sociale. Secondo, studiavo anche io uno strumento, il violoncello, presso l’Istituto Pergolesi della mia città, una sorta di conservatorio in scala minore che era la classica porta di accesso al Rossini di Pesaro, anche mia sorella aveva cominciato da lì. Terzo, ma questa è faccenda complessa che poi attiene ai fatti narrati, tra noi cugini credo ci fosse un filo di competitività, non certo dovuta a noi cugini, di qui il nostro andare a studiare tutti, buon’anima del mio bisnonno. Di fatto proprio in un pomeriggio di quei giorni, siamo, ripeto, alla fine degli anni Settanta, avrei avuto una illuminazione che mi avrebbe poi portato dritto dritto a qui, cioè davanti al computer dentro il quale sto digitando le parole che voi ora state leggendo, immagino mentre siete seduti sulla tazza del cesso, cioè a scrivere e scrivere di musica con questo mio piglio poco convenzionale, a me piace dire punk, anche laddove di punk non mi occupo praticamente mai. Ero a casa di mia zia Paolina, una delle sorelle maggiori di mia madre, gemella, quindi in qualche modo titolare del fatto che ora anche io abbia due gemelli, e che, a mia volta, sia un gemello anche io, eravamo lì per una visita tra sorelle, quando a un certo punto entra in casa Giovanni, detto Gio’, con un suo amico, Michele. Entrambi vestono strano, e detto da me la cosa dovrebbe indurvi a capire che siamo parlando di uno strano che sia strano davvero.
Siamo negli anni Settanta, è vero, ma siamo negli anni Settanta nella provincia italiana, cioè nella provincia della periferia dell’impero, per farvi capire, mia suocera, coetanea di Steven Tyler degli Aerosmith e di David Bowie, era una fan di Peppino di Capri perché le sembrava un ribelle. Gio’ e il suo amico entrano in casa, e una spilla appuntata sul cappotto mi colpisce. È una scritta gialla su una spilla fucsia, colore che all’epoca era chiamato semplicemente rosa, se fossimo in un film e qualcuno lo chiamasse fucsia arriverebbe Barbero a dire che è un errore storico, per capirsi. Sulla spilletta, che già di suo era una anomalia, la moda delle spillette sarebbe arrivata nel decennio successivo, c’era scritto Sex Pistols. La parola sex, quindi sesso, ci arrivavo anche io che ero un bambino, era ascrivibile a un campo considerato non solo segreto e rivolto agli adulti, ma anche a suo modo sporco, sono cresciuto in una famiglia piccolo borghese di chiara matrice cattolica, anche se nipote di un repubblicano mangiapreti. L’associare la parola sesso alla parola pistola, anche lì ci arrivavo anche io, era qualcosa che mi sfuggiva. Per questo ho chiesto ragione di quella spilla e di quella scritta, e mio cugino Giovanni, detto Gio’, mi ha spiegato che era qualcosa che dimostrava che lui fosse un punk, lui disse panc, senza però poi spiegarmi troppo di cosa si trattava. Dagli sguardi sconvolti di mia madre e di mia zia ho capito che era qualcosa di pericoloso, quindi, ai miei occhi di bambino, chiaramente interessante, affascinante. Tornando però a quella domenica di un pomeriggio invernale della fine degli anni Settanta, all’auditorium del Liceo Classico Rinaldini di Ancona, il motivo per cui eravamo tutti lì era la presenza in città di quello che veniva indicato da tutti, almeno da tutti quelli che conoscevo io e che si occupavano di parlare di musica classica, quindi a ben vedere una cerchia piuttosto ristretta di persone che, per un bambino di neanche dieci anni equivaleva al tutto, il motivo per cui eravamo tutti lì era la presenza in città di quello che veniva indicato da tutti come il migliore violinista al mondo, Uto Ughi.
A me, credo a ragione, il nome Uto Ughi faceva ridere, perché c’era quella doppia iniziale con la “u” che era chiaramente un vezzo familiare, credo che chiamarlo Ugo Ughi sarebbe stato troppo, ma a parte Ubaldo, che non era esattamente il nome più alla moda neanche allora, la scelta era abbastanza ristretta, e perché, oggettivamente, Uto Ughi come accostamento suona buffo, specie per uno che poi si trova a girare per l’Italia e il mondo suonando il violino, seppur da Dio. Dire che Giovanni, mio cugino, detto Gio’, la spilletta dei Sex Pistols appuntata sul cappotto, suonasse il violino per Uto Ughi è una forma di revisionismo storico che non voglio azzardare, ma credo di non cadere troppo lontano dalla verità. Nei fatti già allora, il già è un mio vezzo, ovviamente, Uto Ughi era una vera star della musica classica, una sorta di divinità. Del concerto, come di tutti i concerti cui ho assistito da bambino, non ricordo praticamente nulla, ma il fatto che di lì a pochi anni, pochissimi, diciamo a metà delle scuole medie, io abbia smesso di suonare il violoncello dal maestro Moscardi dell’Istituto Pergolesi, e il fatto che io sia un carnivoro impenitente nonostante sia cosciente che mangiare carne fa spesso male, a me e al pianeta, anche in virtù dell’essere vegetariana, la prima persona vegetariana che io abbia conosciuto, su questo metto la mano sul fuoco, la maestra Rosignoli di solfeggio, magrissima e, nei miei ricordi, di un colorito giallastro, che io riconducevo proprio all’essere vegetariana, credo indotto a ciò da certi discorsi sentiti in casa dai miei, a sua volta violinista, dovrebbe lasciarvi abbastanza elementi per dirvi che quel concerto, come gli altri, sia suonato ai miei orecchi come una immane rottura di palle, neanche il tempo di mollare il violoncello, il solfeggio, il pianoforte, che sarei passato a suonare da solo la chitarra, elettrica, Jello Biafra e i Dead Kennedys e gli Hüsker Dü a indicarmi la strada (sono un radicale hardcore, considero gente come i Green Day alla stregua di poppettari anni ‘80, questa è una indicazione che vi aiuterà a chiudere il cerchio, a breve). Comunque, ci siamo quasi, portate ancora pazienza per qualche riga, siamo all’auditorium del Liceo Classico Rinaldini di Ancona, fine anni Settanta, uno degli Appuntamenti degli Amici della Domenica, va di scena Uto Ughi. Tra le sedie scomode messe in file ordinate ci sono io, bambino, come il protagonista del brano La chiave di Caparezza, brano che per altro sarà ispirato da un mio racconto a Caparezza dedicato, in cui c’è lui adulto che incontra lui da bambino, Capa-chi?, il titolo del mio racconto, questo per dire come la musica sia comunque rimasta dentro di me anche quando ho mandato all’aria i miei studi classici. A un certo punto, fate uno sforzo di immaginazione, quel bambino si alza e guadagna la scena, a corte falcate, non sono particolarmente alto ora, figuriamoci da bambino, arriva al cospetto del maestro Ughi, che ai tempi è giovane ma già famosissimo, mentre nella sala è calato un silenzio quasi religioso, giusto animato da un po’ di apprensione, specie di mia madre. Lo guardo e gli dico, Barbero daje forte, “Uto Ughi, ok, boomer!”.
Ci siamo, l’ho portata molto per le lunghe, millenovecentosettanta parole, millenovecentosettantadue, ora, per arriva al nocciolo della questione, mettendo per altro in campo ben due errori storici, è chiaro. Il primo, confesso, è che, seppur io sia stato presente a quel concerto, fatto che ben ricordo perché se n’è parlato a lungo proprio in virtù di quell’essere già una specie di rockstar di Uto Ughi, nome che però continua a farmi ridere e continua a evocarmi il ricordo di Ugo Pagliai, perché sono in fondo un cretino che viene pagato per giocare con le parole, non è solo colpa mia, altro eroe di quei tempi, non gli ho ovviamente detto “Ok, boomer!”, e non l’ho fatto perché non avevo ragione di farlo, allora, non sapevo cosa fosse un boomer, concetto sociologico che è arrivato credo nel decennio successivo e che io ho incrociato in quello successivo ancora, quando ho conosciuto, letterariamente, non letteralmente, Douglas Coupland e il suo capolavoro Genarazione X, perché nessuno all’epoca si sarebbe sognato di dire a una persona più grande che era un vecchio, non lì e non nella cerchia dei miei conoscenti, neanche mio cugino Giovanni, detto Gio’, che esibiva la spilletta dei Sex Pistols ma rimaneva un ragazzo educato e rispettoso delle generazioni precedenti, e perché il mio senso critico non mi aveva ancora indotto a guardare al passato con un po’ meno di venerazione di quanto non facessero, subliminalmente, la generazione dei miei genitori, nati prima della Seconda Guerra Mondiale, quindi non boomer, ma comunque cresciuti in un altra epoca rispetto a quella che avrebbe portato i giovani oggi al famoso “Ok, boomer”, benedetta pedagogia. Il secondo errore, quello che però è insito nel concetto stesso di “boomerismo”, è che Uto Ughi è del 1944, quindi tecnicamente neanche lui è un boomer, esattamente come non lo sono io, che sono nato nel 1969, ma tanto mi sento dare del boomer io, oggi, tanto se lo potrebbe sentir dare lui, anzi, se lo sente dare.
Perché, veniamo al dunque, Uto Ughi è in effetti un boomer. Cioè, settantotto anni e ancora una fama da uno dei migliori violinisti classici al mondo, il maestro Ughi in queste ore ha fatto il boomer, o così ci è stato raccontato dalla stampa mainstream. Sapete perfettamente di cosa parlo, perché la faccenda è subito diventata virale, e lo è diventata non per la potenza della cosa in sé, una cazzata è una cazzata anche se a dirla è un famoso violista, quanto perché è rivolta al gruppo italiano al momento più famoso nel mondo, che, guarda te il caso, proprio nelle stesse ore in cui il maestro Uto Ughi faceva il boomer, stavano per uscire con il loro nuovo album, presentandolo in un contesto piuttosto glamour e in presenza di personaggi piuttosto glamour. Certo, in assenza del 99,9% della stampa di settore, fatta eccezione per alcuni quotidianisti, i soliti, il sottoscritto era nel ristretto novero degli invitati ma, per questioni sue, ha declinato l’invito, grazie comunque a Fabrizio Ferraguzzo per aver compiuto il gesto punk di mettermi in quella lista, immagino le facce spaurite degli addetti stampa e discografici, gesto punk cui in qualche modo ho dato una risposta punk, restando a casa, assenza del 99,9% della stampa che ha agevolato la viralizzazione di un attacco, di questo si parla, atto a screditare il reale valore dei Maneskin, è a loro che Uto Ughi ha rivolto le sue parole da boomer, di loro stavo parlando.
Cosa è successo, semplice, a margine di non so bene che iniziativa, Uto Ughi ha detto, parole così riportate, che “I Maneskin sono un insulto alla cultura e all’arte”, aggiungendo “non ce l’ho particolarmente con loro, ogni genere ha il diritto di esistere, però quando fanno musica e non quando urlano e basta”. Ora, mettendo da parte la faccenda del “ogni genere ha diritto di esistere”, perché, a memoria, non credo che stia a Uto Ughi stabilire se un genere abbia o meno diritto di esistere, ok, boomer, ma il parlare nel 2023 del rock, anche in chiave pop, lungi da me mettermi ora a disquisire di cosa facciano i Maneskin, non è di loro che sto scrivendo, ma di Uto Ughi, come di urla e rumore, Santo Dio, è davvero una cosa da boomer. Lo era, senza che però chicchessia potesse tirare fuori il boomerismo, già in quella domenica invernale di fine anni Settanta, perché il rock esisteva da almeno venti anni e passa, il punk era nato come reazione proprio alle influenze classiche nel rock, leggi alla voce prog, e in fin dei conti già nell’alveo della musica classica si era abbondantemente discusso di cosa fosse o non fosse baccano, leggi alla voce Igor Stravinskij. Traduco, il non capire qualcosa, anche se si ritiene di aver gli strumenti per farlo, strumenti che evidentemente vengono usati ad minchiam, immagino anche per questioni di formazione e anagrafiche, non dovrebbe mai indurre a esprimere giudizi tranchant, pena il sentirsi dire, legittimamente, “Ok, boomer”. Farlo nel giorno del lancio internazionale di un album, album prodotto insieme al già citato Fabrizio Ferraguzzo, anche manager della band, da Max Martin, Uto Ughi non è tenuto a sapere chi sia, ma il non saperlo dovrebbe appunto portare a un cauto silenzio, potrebbe addirittura essere visto come il tentativo, fuori tempo massimo, di accendere dei riflettori che, ahinoi e ahilui, da tempo non sono più accesi sul mondo della classica, mondo che però ha i fondi del Ministero, che mica per caso chiama come consulente il maestro Beatrice Venezi e non Morgan, non fosse che invece credo semplicemente che questa cosa gliela abbiano tirata fuori con astuzia proprio per provare a rovinare la festa i giornalisti di cui sopra, quando di motivi per attaccare i Maneskin, se uno volesse, ce ne sarebbero immagino altri, cioè le canzoni del loro album, il loro essere citazionisti, derivativi, e tutte quelle accuse che da un paio d’anni piovono loro addosso, lungi da me qui e ora dire se a ragione o meno.
In questo caso, temo, Uto Ughi si è fatto portare per il naso, abboccando a un tranello, lui che suppongo non abbia mai sentito una singola nota dei Maneskin, non vedo perché avrebbe dovuto, e credo che comunque il suo parlare così di una musica che evidentemente ignora sia segno di un cedimento intellettuale, un errore marchiano, da boomer. Glielo avessi fatto notare, profeticamente, quasi cinquant’anni fa, magari lo avrei messo in salvo da questi pericoli, ma sarebbe stato un paradosso temporale, tipo il Marty McFly che suona Johnny B Goode mentre il cugino di Chuck Berry è al telefono con colui che quella canzone ha regalato all’umanità, questa è scienza, non fantascienza, per dirla con un noto spot vintage. Ultima notazione, dire Tizio è un insulto alla cultura e all’arte, e poi aggiungere, non ce l’ho particolarmente con lui è un po’ come dare a qualcuno del figlio di troia salvo poi dire che non era niente di personale, Uto Ughi, che è un boomer e probabilmente per formazione e cultura frequenta poco il mondo degli insulti, anche questo non lo sa. Chi invece è convinto che le affermazioni del violinista che ho ascoltato in una domenica invernale alla fine degli anni Settanta all’Auditorium del Liceo Classico Rinaldini di Ancona, siano la prova provata che i Maneskin sono una merda, beh, per osmosi diventano boomer, e dire che avrebbero mille altri motivi per criticarli. Dimmi tu se dopo avermi rovinato parte dell’infanzia ‘sto benedetto Ughi doveva tormentarmi anche nell’età matura, costringendomi a scrivere in difesa dei Maneskin.