Strana sensazione sfogliare le pagine di “Mediaset e il cinema italiano. Film, personaggi, avventure”. Per quasi 400 pagine (376 per l'esattezza) fai surf sulle onde della nostra Storia recente. Onde alte, irregolari, che spesso irridono il tuo goffo tentativo di mantenerti in equilibrio. Il cinema è la fetta di mare tutto attorno. Credi di conoscerla bene, e invece… invece Gianni Canova e Rocco Moccagatta, curatori del volume, sono il necessario faro. Quelle acque non sono familiari quanto pensi. Proprio Canova – rettore dell’Università Iulm di Milano, autore e critico cinematografico, “Cinemaniaco” per Sky, nonché curatore della collana dvd/bd “La cineteca di Gianni Canova” – ci ha aiutato a illuminare una porzione di storia italiana del cinema la cui comprensione, nel suo insieme, non è immediata.
Mi perdoni l’ovvietà: ma il cinema, allora, non è solo un affare romano come molti ancora credono…
Beh, da un punto di vista produttivo/industriale il nostro cinema è stato molto milanese negli ultimi ‘40 anni. Che poi la scena italiana sia ancora parecchio romano-centrica, che chi non si trasferisce a Roma venga visto con sospetto, che certe decisioni forti si prendano ancora sulle terrazze capitoline è tuttora vero, ma oggi le idee migliori sono a Napoli, per dire, non a Roma. Anche Milano, sebbene trascurata dalle solite istituzioni ministerialmente romano-centriche, produce cose interessanti.
Quarant’anni difficili da mettere in fila. Non è stata una storia lineare.
Una storia simile la si poteva raccontare solo strutturando un progetto corale, fatto di tanti contributi. Io e Moccagatta abbiamo curato il tutto, ma ci siamo avvalsi degli sforzi di molti giovani ricercatori. Visioni diverse, approcci diversi, linguaggi diversi che però, con spirito laico, convergono per raccontare una storia il più possibile oggettiva. I giudizi (soprattutto quelli ideologici) li abbiamo lasciati ad altri.
Difficile non sobbalzare, tuttavia, quando già delle prime pagine emergono alcuni paradossi. Ad esempio che lo splendido “Bianca” di Nanni Moretti (1984) fu prodotto da Be.Ma, ossia Silvio Berlusconi, molto prima che quest’ultimo – proprio per mano di Moretti – fosse dipinto come “Il caimano” (2006)!
Ma questa è la straordinaria complessità, il fascino se vogliamo, del nostro Paese. Il Caimano che produce Moretti è paradossale, ma non è l’unico caso clamoroso. Tanto cinema collocato su posizioni fortemente anti-berlusconiane veniva prodotto da Berlusconi: da Bertolucci a Tornatore, da Benigni a Salvatores. Ma anche Scola, Virzì… La lista è lunga. Eppure quando uno pensa a Penta e Medusa tende a ricordare soprattutto i Vanzina.
Una storia in tre fasi: Reteitalia (1981-89) prima, poi Penta (1990-94), quindi Medusa, che ci porta ai giorni nostri. Possiamo definirlo “il cinema di Berlusconi”, ossia un cinema che ha avuto molto a cuore anche la spendibilità televisiva delle proprie creazioni?
Non direi. Attenzione: questo è cinema “prodotto da aziende editoriali che erano, almeno in parte, di proprietà di Berlusconi”. Questo significa che ai vertici di queste aziende c’erano manager (Cesare Bernasconi o Giampaolo Letta) che possedevano una propria visione del cinema. Gente che ha provato a costruire il teen-movie all’italiana, che ha sostenuto tanti progetti di Dario Argento, che ha prodotto “The dreamers” di Bertolucci (2003) o “Baarìa” di Tornatore (2009). Non erano film immaginati per la prima serata di Canale 5. Quando Sorrentino nel 2013 ha vinto l’Oscar con “La grande bellezza” e il film, qualche giorno dopo, è stato programmato alle 21, la gente era sconcertata. Non era abituata a quella drammaturgia, a quei ritmi, a quell’apparente assenza di trama. A un cinema, appunto, che era tutto tranne che televisivo.
Il periodo Penta, che produce alcuni tra i punti più alti di questo cinema (“Mediterraneo” di Salvatores nel 1991, “Il postino” con Massimo Troisi, nel 1994), è anche il periodo in cui Berlusconi entra in politica. Vede una convergenza fra queste due traiettorie?
No, credo siano storie che seguono percorsi autonomi. Credo che la prima metà degli anni ’90 fosse un momento di eccezionale fermento. Erano anni in cui Ciprì e Maresco andavano in onda su RaiTre, contemporaneamente al Tg1, con “Cinico TV”. Erano anche anni di conflitto e il conflitto produce visioni, immaginario. Pensate a “Mediterraneo”, che vince l’Oscar costruendo un elogio della fuga da un’Italia percorsa da Tangentopoli. Un film che, a fronte del crollo di una classe dirigente, non invita alla diserzione, ma a riscoprire altri valori, diverse dimensioni del vivere. Sono percorsi, quelli da lei citati, che coabitano il medesimo tempo storico, ma non si influenzano reciprocamente.
Penta è stata la vetta definitiva?
È stato il punto più avanzato di una riorganizzazione dell’industria italiana su modelli americani. Era una factory integrata che insisteva su tutta la filiera: produzione, distribuzione ed esercizio coprivano l’intero mercato (cinema, televisione, home video).
Arriviamo a oggi. Pochi giorni fa Il Fatto Quotidiano osservava che un anno di cinema italiano vale meno di un film di Zalone, in termini di incassi.
Beh, intanto mi fa piacere che Il Fatto, in qualche modo, dopo che per anni ha avuto la puzza al naso quando scriveva di Zalone, riveda la propria posizione in merito. Non so bene a che stagione faccia riferimento, ma può aver ragione. Tuttavia non sono certo della rilevanza, oggi, di tale fotografia. In questo periodo, ad esempio, il cinema italiano sta facendo ottimi numeri: vanno bene “Il grande giorno” di Aldo, Giovanni e Giacomo, “Le otto montagne”, “Tre di troppo”. Certo, quando arriva un film di Checco è grasso che cola, ma alcuni segnali dicono chiaramente che il cinema italiano sta ritrovando salute.
Aldo, Giovanni e Giacomo, appunto. Loro non hanno solo transitato nella storia che avete raccontato, sono proprio nati durante una fase di questa storia (con Medusa, per la precisione)…
Vero, segno ulteriore della vitalità di questi anni. La cosa più importante, però, è che il trio o Zalone ribadiscono che il modello non è stato solo quello vanziniano o dei cinepanettoni. Si deve parlare di “modi di intendere la commedia”. Al plurale. In uno scenario che ha lasciato diversi margini di autonomia e libertà ai vari artisti coinvolti.