La recensione di un film, come ogni forma di critica, non è mai un atto neutro. Visto chi scrive, e di cosa scrive, è ancora più impossibile cercare imparzialità. Non lo è soprattutto quando il film in questione non è una semplice narrazione, ma un gesto filosofico, un tentativo di decostruire la nostra percezione del reale. "Unanimal", il documentario di Sally Jacobson e Tuva Björk, è precisamente questo: un'opera che non si limita a mostrarci degli animali, ma ci interroga sulla nostra stessa animalità, sulla nostra irrefrenabile e forse fatale compulsione a definire, classificare e, in ultima istanza, dominare tutto ciò che non è umano. Il film, narrato dalla voce quasi ieratica di Isabella Rossellini, non segue un percorso lineare. È un atlante di esistenze, un archivio di sguardi, gesti e abitudini che si muovono tra l'osservazione scientifica e una sorta di onirismo post-documentario. Si potrebbe dire che il suo vero soggetto non sono tanto gli animali, quanto il concetto di "animalità" che l'uomo si ostina a proiettare su di essi, per poi potersene distanziare. In un'epoca che potremmo definire, con buona pace di chi ancora si ostina a credere nell'Illuminismo, come la fine dell'antropocentrismo, "Unanimall" è un colpo di tosse fastidioso, un fremito di coscienza che rompe il silenzio della nostra presunzione.

La prima e più radicale operazione che il film compie è la dissoluzione del confine. La dicotomia uomo/animale, il fondamento stesso dello specismo, viene ridotta a un'aberrazione epistemologica. Le inquadrature non distinguono tra l'atto di un insetto che si nutre e un bambino che gioca, tra l'espressione di un cane e lo sguardo di una persona anziana. È in questa assenza di gerarchia visiva che risiede la sua forza più sovversiva. Il film ci costringe a guardare, ma non a giudicare. Ci offre una serie di "vignette", come si usa dire, che sono in realtà finestre su mondi paralleli, apparentemente lontani, ma in realtà intimamente connessi. Il film ci suggerisce che la nostra umanità non è una condizione, ma una costruzione, un'impalcatura che crolla di fronte alla vita nuda, al puro fatto di esistere. Jacobson e Björk, attraverso una sapiente giustapposizione di filmati d'archivio e riprese originali, mostrano la perversione del nostro rapporto con il non-umano. Si passa dalla violenza cruda e disumana degli allevamenti intensivi, al grottesco spettacolo dei concorsi di bellezza per animali, dove il ridicolo non sta nell'animale, ma nel nostro bisogno di umanizzarlo per poi asservirlo a un'estetica superficiale. Il film ci dice, senza bisogno di parole, che l'animale da compagnia, l'animale da fattoria e l'animale selvatico non sono categorie ontologiche, ma mere funzioni del nostro sistema economico e culturale. La questione non è se gli animali soffrono, ma perché non riusciamo a vederli al di fuori della loro utilità. Questo è il punto in cui il film si fa più audace e si avvicina a una forma di "filosofia visiva". Non offre risposte, non fornisce facili morali. L'umorismo, sottile e spesso amaro, che pervade alcune scene, non è mai fine a se stesso, ma serve a smascherare l'assurdità del nostro antropocentrismo. La Rossellini, con il suo tono pacato, non è un narratore che spiega, ma un coro che accompagna l'osservatore in questo viaggio perturbante. Le sue parole non sono un commento, ma un'ulteriore incrinatura nella nostra certezza. "Unanimal" è un film che dovremmo guardare non solo con gli occhi, ma con la pancia, con una sensazione di disagio che ci fa capire che il mondo non è stato fatto per noi, ma che noi siamo solo una parte, transitoria e non meno assurda, di esso. È un film che ci chiede di abbandonare l'illusione del controllo e di abbracciare la nostra vulnerabilità, la nostra contingenza. È un'opera che, in modo sottile e penetrante, ci spinge a superare il mero "postumano" come concetto intellettuale e a viverlo come una condizione esistenziale. Non si tratta più di pensare l'oltre-uomo, ma di rendersi conto che l'uomo, in quanto centro dell'universo, non è mai esistito se non come un'illusione. In definitiva, "Unanimal" è un simbolo per un'ecologia del pensiero. È un film che, mettendo in discussione la nostra presunta superiorità, ci invita a rifondare le basi etiche del nostro stare al mondo. Ci ricorda che l'alterità non è qualcosa da studiare o da dominare, ma qualcosa con cui coesistere. Il film non è una difesa degli animali, ma una critica radicale dell'uomo. Ed è, per questo, una delle opere più necessarie e più coraggiose che potremmo mai sperare di vedere in un'epoca che ha perduto il senso del limite. È un film che, come un'animale selvatico, ci guarda senza capire, ma con la consapevolezza di una verità che non sapremo mai afferrare. E forse, la grandezza sta proprio in questo: nell'accettare l'incomprensione.