Federica Brignone, da mesi alle prese con un ginocchio ricostruito a pezzi e muscoli da rieducare, sa bene che quello dello sci ai massimi livelli non è un passatempo patinato: è un corpo che rotola a cento all’ora sul ghiaccio, è dolore trasformato in spettacolo, è gloria che nasce dal rischio. E quando le chiedono della tragedia di Matteo Franzoso, atleta della Nazionale morto dopo una caduta in allenamento in Cile, la campionessa delinea alcune possibili contromisure, ma fa anche professione di realismo: “Ci sono – le sue parole in un’intervista al Corriere – vari modi: usare regole severe per i centri di allenamento; rendere obbligatori senza eccezioni dispositivi come l’air bag; realizzare tute meno performanti; lavorare sui caschi, detto che vedo impossibile adottare quelli integrali. Questo non deve far dimenticare che il rischio zero non esiste, che lo sci è pericoloso – Schumacher s’è fatto male a 30 orari… –, che la velocità, ingrediente dello show, è ciò che ci rende degli eroi”.
In poche righe, Brignone smonta l’illusione che una tecnologia possa sigillare la fragilità umana, citando il paradosso del caso dell’ex pilota Ferrari, scampato ad anni e anni di gare al limite in Formula 1 per poi cadere a bassa velocità con gravissime conseguenze durante una sciata sulle Alpi francesi di Meribel. Lo dice mentre porta sul proprio corpo la cronaca viva di un disastro: tibia e perone fratturati, crociato anteriore spezzato, due operazioni, mesi in ospedale e riabilitazione senza tregua. La sua estate, confessa Federica, “non è stata un’estate. Niente mare, surf, divertimenti: ho vissuto al Jmedical della Juventus con il solo scopo di stare meglio”.

Il corpo come alleato e nemico. Il tempo come sabbia che scivola via. “Il secondo intervento ha segnato la svolta. Ma fino ai quattro mesi non avevo tempo nemmeno per leggere”. La montagna, le gare, la neve, tutto sospeso in attesa che il ginocchio impari di nuovo a fidarsi. Eppure la determinazione resta: “Questa è una sfida che non potevo rifiutare”, dice, ricordando che la battaglia quotidiana è fatta di ghiaccio, esercizi, dolore e piccole conquiste invisibili.
È qui che si annida il paradosso: da un lato la sua voce razionale, consapevole dei limiti, che riconosce come la “piena flessione del ginocchio non la recupererò mai”. Dall’altro, la testardaggine dell’atleta che non concepisce la resa: se quest’anno non ce la farà, per com’è fatta, probabilmente ci riproverà.

Poi c’è il futuro più prossimo, l’orizzonte che si chiama Milano-Cortina 2026. Brignone non si concede illusioni: “Le tempistiche di recupero andrebbero oltre i Giochi 2026 e la prossima stagione. C’è chi ha impiegato due anni per tornare da un infortunio analogo. Quindi io devo fregare il tempo, ragionando giorno dopo giorno”. L’ipotesi di sventolare la bandiera italiana all’apertura dei Giochi resta, per lei, una motivazione feroce: “La prospettiva di fare l’alfiere dell’Italia mi motiva ancora di più”.
L’atleta valdostana non nasconde che il prezzo da pagare è alto: “So già che non sarò preparata come nel passato. E so che la piena flessione del ginocchio non la recupererò mai, mi sono creata un guaio per la vita”. Ma allo stesso tempo rifiuta di arretrare: la sfida è continuare a correre incontro al pericolo, a sfidare la gravità e sé stessa.
