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Riccardo Zanotti dei Pinguini Tattici Nucleari: “La mia paura più grande è non avere un pubblico". E su Sanremo e Fedez...

  • di Giulia Toninelli Giulia Toninelli

21 dicembre 2020

Riccardo Zanotti dei Pinguini Tattici Nucleari: “La mia paura più grande è non avere un pubblico". E su Sanremo e Fedez...
Riccardo Zanotti, voce e parole dei Pinguini Tattici Nucleari, si racconta sul finire di un 2020 che li ha visti esplodere, a Sanremo, e poi implodere, dentro a una pandemia che ha dato vita a un nuovo, inatteso, progetto musicale. Fedez? “Lo stimo, si dedica alla musica quando ormai potrebbe fare solo altro”. Il successo? “Sarei un ipocrita se dicessi che preferivo suonare nei localini con 50 persone”. Su chi puntare al Festival? "Se mi piace la canzone magari tiferò Orietta Berti". Fare il musicista? "È una professione di fede"

di Giulia Toninelli Giulia Toninelli

“Volevo farti una lamentela a nome di tutte le Giulie: per una volta che esce una bella canzone con il nostro nome, possibile che lei sia una stronza incredibile?”.  L’intervista con Riccardo Zanotti, voce e parole dei Pinguini Tattici Nucleari, comincia così, con lui che se la ride e cerca di giustificarsi: “No ma non è lei la stronza. Cioè effettivamente sì, però il vero problema è lui. Mi piace che ognuno dia la propria interpretazione alle nostre canzoni, ma io dentro questo pezzo ci leggo l’incapacità di prendere una posizione netta, finendo per cadere nella più tragica accondiscendenza".  

Riccardo è simpatico, uno di quelli con cui staresti a parlare per ore. “Ok ti sei salvato dai” gli dico, e lui ride ancora. Lo sa, le parole lo salvano sempre. Non ci si nasconde dietro, ma le usa con cura. Usa la stessa franchezza per difendere la sua Giulia - protagonista di una delle canzoni del nuovo EP dei Pinguini uscito lo scorso 4 dicembre - come per parlare del prossimo Sanremo “che finalmente si è adeguato al mercato musicale”, di Fedez “un carattere difficile ma una brava persona” e di quanto sia bello avere successo “sarei un ipocrita se dicessi che preferivo suonare nei localini con 50 persone”.

Parla per sé “perché siamo sei persone e non posso esprimermi a nome di tutti” ma dentro a Riccardo c’è l’anima di questo gruppo, rivelazione musicale dell’anno dopo il successo di Ringo Starr, a Sanremo 2020. Loro che sono di Bergamo, di Alzano Lombardo, delle zone più colpite dalla pandemia, e che dalla solitudine improvvisa di un anno terribile hanno tirato fuori un nuovo progetto musicale che porta il nome di quello che, per tutti, è stato questo 2020: Ahia!

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Riccardo, come vedi questi 26 big scelti per Sanremo 2021?

Sono molto felice, perché già da circa 3 anni il Festival sembra essersi aperto al mercato effettivo del panorama musicale: i siti di streaming, i numeri delle vendite, la crescita che questi artisti stanno avendo negli ultimi anni. E per forza di cose, dall'altra parte, si sta lasciando alle spalle tutta quella patina più istituzionale che per tanto tempo ha dominato Sanremo. 

C’è qualcuno per cui farai il tifo?

Tra i big ci sono parecchi artisti con cui sono “cresciuto” musicalmente in questi anni: i Coma_Cose, Willie Peyote, Fulminacci... Vederli all'Ariston mi fa davvero molto piacere. Però io sono un musicista e valuterò le canzoni quando le ascolterò: chi lo sa, magari tiferò Orietta Berti dopo aver sentito il suo pezzo. 

Fedez come ce lo vedi a Sanremo?

Lo ritengo una brava persona, molto intelligente, anche se ha un carattere davvero difficile. È un grande professionista ed è dedito alla sua arte, che poi questa piaccia o meno. Negli ultimi mesi è tornato a fare musica, quando ormai potrebbe benissimo dedicarsi solo ad altro, ed è una cosa che apprezzo molto. Però per quanto riguarda la sua partecipazione a Sanremo proprio non so che cosa aspettarmi. Sapevo già da qualche tempo che avrebbe partecipato ma sono comunque in difficoltà a parlarne, perché il debutto all'Ariston è qualcosa di unico, e quando ci arrivi con una popolarità come la sua è ancora più grande come esperienza. Poi sarà in coppia con Francesca Michielin, che per me è bravissima, quindi mi aspetto davvero tanto da loro. Sarà una bella sfida. 

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Voi, dalla vostra prima volta all'Ariston, come ne siete usciti?

Felici, felicissimi. Non ci aspettavamo minimamente che da lì a poco il mondo sarebbe irrimediabilmente cambiato. Per noi il 2020 doveva essere l’anno dei live, del grande pubblico, di un sacco di cose stupende. Ma così non è stato. Sanremo è l’ultimo bel ricordo che abbiamo perché la nostra dimensione è quella dei concerti, e l’Ariston è stata l’ultima volta in cui abbiamo potuto suonare davanti a un pubblico. Quindi oltre a quello che Sanremo ci ha portato in termini di numeri, di visibilità e di successo, conserviamo gelosamente il ricordo del Festival anche per questo motivo. Speriamo di poter ricordare quest'anno come una triste parentesi tra un concerto e un altro, tornando a fare live nell'autunno 2021. 

Si sta facendo abbastanza per gli artisti in questo periodo? 

Sarò sincero, io non sono critico su quello che si sta facendo per la nostra categoria. C'è stato un bel cambio di direzione negli ultimi mesi, soprattutto una presa di coscienza sul fatto che la categoria comprende davvero tantissime persone: le maestranze, gli operai, i tecnici... E questo ha fatto nascere interesse e consapevolezza anche tra chi, come possono essere mia nonna o mia zia, nella vita non si era mai posto questo problema. 

Voi dite sempre che il cambiamento non vi spaventa. Ma c'è qualcosa in cui i Pinguini Tattici Nucleari non vogliono cambiare? 

Il cambiamento fa parte del nostro modo di essere, quindi forse proprio questo mi auguro: riuscire a trasformarci sempre. La nostra indole musicale è sempre cambiata. Ai nostro primi live eravamo quasi metal, facevamo salire la gente sul palco e scendevamo noi in mezzo a loro. Anche questo oggi è cambiato, e sarei ipocrita se dicessi che preferivo suonare in quei locali, davanti a 50 persone, piuttosto che nei palazzetti in cui ci esibiamo ora. 

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Ma il temperamento è lo stesso? 

L'indole "da concerto" non è cambiata, l'adrenalina è sempre la stessa. Siamo animali da palco e la passione che ci mettiamo è forse ancora forte rispetto al passato, perché ora lo facciamo per professione. E la musica non è una professione normale, almeno per come la intendo io: è una professione di fede. 

Tu come affronti questo passaggio? Vivere della propria passione è sicuramente un privilegio, ma può anche trasformarsi in un peso... 

È verissimo, la tua passione ti può anche schiacciare, ma devo dire che io l'ho sempre vissuta, e continuo a viverla, molto bene. Non dico di crogiolarmi dentro al successo, ma ne sono sicuramente molto orgoglioso. Sono un cantante e un musicista con parecchi punti deboli e nel tempo ho imparato a conoscere me stesso, a migliorare. Il fatto che fino a pochi anni fa in tanti non avrebbero scommesso su di noi credo sia un ulteriore motivo di orgoglio, qualcosa che adesso ci fa apprezzare di più le opportunità che abbiamo. 

Quindi il tuo lavoro non ha aspetti negativi? 

Tutti i lavori ne hanno. Io, banalmente, non ho più privacy. Magari voglio solo uscire per andare in centro con la mia ragazza a comprarmi un libro, bermi una cioccolata calda e mi fermano in tantissimi per fare foto, parlare, chiedere autografi... e alla fine dell'uscita mi sembra quasi di non aver parlato con la mia ragazza. Bisogna farci l'abitudine credo, ma al momento è questo l'aspetto più strano della popolarità. 

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Dalla pandemia è nato Ahia!, un EP di sette canzoni ma anche il nome tuo primo romanzo, appena pubblicato. Da dove arriva questa parola? 

È stata scelta in modo molto attento, prima di tutto per una ragione fonetica: suona benissimo, non ha consonanti, la pronunciano tutti, anche i bambini. Un termine che iniziamo ad usare a due o tre anni e che poi usiamo per il resto della nostra vita. Ci unisce tutti, dai vecchi ai giovani, dai ricchi ai poveri, ed è una delle parole che descrive meglio questo 2020. 

C'è una canzone, di questo nuovo EP, a cui sei particolarmente legato? 

Sopra le altre direi Scrivile Scemo perché ha delle sonorità allegre, ma un sottotesto malinconico, una dualità che siamo abituati ad usare, che ci è cara. Dentro c'è proprio una filosofia che portiamo avanti da anni: nascondere della tristezza dentro ogni felicità. 

Ci sono dei pezzi, tra tutte le vostre canzoni, che hai fatto fatica a condividere con il pubblico? 

L'amore è sempre la cosa più complicata di tutte. Le canzoni che parlano di una storia, come possono essere Irene e L'uomo che inventò il fuoco, sono sicuramente quelle per cui mi faccio più scrupoli. Cambio i nomi, cambio un po' le storie, e non sono mai totalmente sincero nella trasposizione da realtà a canzone, perché bisogna avere riguardo per la verità dei fatti, e per le persone coinvolte.

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Però le hai pubblicate... 

Certo, quando decidi di condividerle con il pubblico queste paure te le lasci indietro. Altrimenti non vai più avanti. 

Ho capito che il cambiamento non ti fa paura, la condivisione non ti fa paura, il futuro non ti fa paura. Ma Riccardo, c'è qualcosa che ti fa paura? 

Io ho una gran paura di finire da solo. La solitudine mi spaventa, soprattutto adesso, perché in passato anche quando mi sono sentito solo, c'era sempre un pubblico a cui affidarmi. Invece in questi mesi di lontananza dai live mi sono reso conto che mi manca l'affetto della gente, e un cantautore è solo quando non ha un pubblico a cui rivolgersi. Metaforicamente parlando il momento di massima solitudine è quando il concerto finisce, con la gente che ti gira le spalle e se ne va. 

Uno dei personaggi del mio libro è proprio un cantautore finito, un vero fallito sorrentiniano. E dentro quella solitudine lì c'è la mia paura più grande: non avere nessuno a cui poter parlare. 

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