Un pianoforte, l’oboe, gli archi e un mandolino. Napule è, prima di tutto, una voce. Pino Daniele l'ha raccontata come nessun altro, portandola al mondo attraverso i mille culure. E Quanno chiove, l’Appocundrìa, 'O scarrafone. È Nero a metà, Un uomo in blues, il Mascalzone latino che trasforma il dialetto in un linguaggio universale, un poeta capace di passare dalla malinconia alla rivoluzione. A dieci anni dalla sua scomparsa, che cade oggi, due nuovi documentari raccontano la sua eredità. Dopo Il tempo resterà (2017) di Giorgio Verdelli, e prima di Pino (che vanta il sigillo ufficiale della Fondazione Pino Daniele) in uscita a marzo per i 70 anni dalla nascita, a firma di Francesco Lettieri (regista di Liberato) e Federico Vacalebre, storica firma del Mattino, arriva Pino Daniele – Nero a metà. Scritto da Marco Spagnoli e Stefano Senardi, nelle sale da oggi fino al 6 gennaio. Senardi, discografico e amico, torna a Napoli per raccogliere le testimonianze di chi ha condiviso con lui quei primi passi: James Senese, Tullio De Piscopo, Tony Esposito, Enzo Avitabile, Pietra Montecorvino e molti altri. Sono loro a raccontare il percorso che ha portato a Nero a metà (1980), l’album che ha cambiato tutto. C’è spazio per i primi concerti, la firma del primo contratto discografico dopo un viaggio rocambolesco Napoli-Roma, e soprattutto quel leggendario live in Piazza del Plebiscito del 1981. Duecentomila persone si riunirono per ascoltarlo, trasformando il salotto buono della città in un luogo di riscatto collettivo, un anno dopo il terremoto che aveva devastato l’Irpinia. Ma c’è anche l’intimità: la Quando suonata per l’amico Massimo Troisi in una stanza d’hotel, le interviste con Gianni Minà e Jocelyn, i ricordi di chi lo ha visto crescere come chitarrista e poi diventare una delle voci più amate della musica italiana. E, nel mezzo, le reinterpretazioni di giovani artisti che oggi rileggono le sue canzoni con lo stesso rispetto e la stessa passione. Pino è. Non solo un grande artista. Pino è. Una città, un popolo, una storia che non smette mai di suonare. Pino è. Pino vive. Again.
Senardi, la prima volta che ha sentito parlare di Pino Daniele?
Ero a Imperia, a casa mia, ragazzino un po’ hippie, fissato con la musica inglese. Poi, un giorno, sento Je so’ pazzo. Lo passavano in un programma di Renzo Arbore, e bam, resto folgorato. E quando è uscito Nero a metà, la storia si è scritta da sola. C'ero anch'io a San Siro nel 1980, tra le 80mila persone, quando ha aperto per Bob Marley.
E il primo incontro?
Professionale. Lavoravo con George Benson, lo accompagnavo a Roma per la promozione. Mi chiama Michele Di Lernia, collega della EMI: “Sono con Pino Daniele, vuole incontrare Benson”. Non c’è stato bisogno di dirlo due volte. Per quanto rispettassi Benson, mi interessava solo Pino. Organizziamo una cena. Spiego a Benson chi fosse: un chitarrista straordinario, un cantante che mescolava la tradizione napoletana con la musica d'oltreoceano. Si incuriosisce, accetta. A tavola, Pino, da grande appassionato di chitarra, gli chiese consigli, trucchi, come mettere le dita per certi effetti. Assetato di sapere, sempre.
E poi?
Il destino ha fatto il resto. Roberto Magrini, il mio capo di allora, lo conosce, e lo porta alla CGD, dove io ero direttore generale.
Iniziate a lavorare insieme.
Ricordo che mi suonava le canzoni di Un uomo in blues (1991) prima ancora di registrarle. Potete immaginare: avevo nel mio ufficio Pino Daniele, un mio mito, che con la chitarra mi faceva sentire i pezzi. Uno sballo. Ho vissuto da vicino anche i primi passi del suo ritorno sulle scene dopo i problemi di salute. Con Enrico Rovelli prima, poi con Mimmo D’Alessandro, iniziò a suonare con i Yellowjackets, una band jazz fusion americana, in piccoli locali. Questo perché il suo cardiologo non era nemmeno sicuro che potesse tornare a esibirsi dal vivo.
Per il documentario avete scelto Nero a metà. Un capolavoro.
Sì, uno spartiacque, un terremoto nella musica italiana, prodotto da Willy David. Ha preso la tradizione napoletana e l'ha portata oltreoceano con naturalezza. E tutto questo mentre Troisi rivoluzionava il cinema con Ricomincio da tre. Parliamo di due giganti, due rivoluzionari. Due uomini che non si sono mai arresi, che hanno dimostrato che essere napoletani è un orgoglio da portare a testa alta.
Pino è Napoli, Massimo è Napoli.
In questo momento sono nell’hotel Santa Lucia, dove hanno scritto Quando. Ho avuto la fortuna di pubblicare quella canzone in Sotto ’o sole. Vedere Pino e Massimo insieme è stato incredibile. Erano simpaticissimi, sempre a prendersi in giro. Pensate che Troisi aveva messo Quando come musica della sua segreteria telefonica, tanto amava Pino. E il bello è che questo amore era reciproco.
Com'è il doc?
È un viaggio sentimentale, con Napoli inevitabilmente al centro. Con musicisti che conoscevo da anni ci siamo messi a chiacchierare, dimenticando quasi le telecamere. È un racconto intimo, fatto di affetto e riconoscenza. Come quella sera del 1981, in Piazza del Plebiscito, un anno dopo il terremoto in Irpinia. Sul palco c’era Pino, sotto di lui 200mila persone. Ne aspettavano 20 o 30mila, ma arrivò un fiume umano. La città era piegata, la sua musica la fece rialzare. Fu un momento straordinario, ma anche spaventoso per lui. Raccontano che fosse terrorizzato: capì che da lì in poi nulla sarebbe stato più lo stesso.
Prima parlava del suo rapporto scherzoso con Troisi. Conferma che era tutt'altro che burbero?
Assolutamente. Pino aveva un’ironia unica, ci siamo fatti delle grandi risate.
“Accidenti a questa nebbia/Te set adre a laurà/questa Lega è una vergogna”. Il disco che dà il via alla vostra collaborazione si apre con 'O scarrafone. Oggi con la musica non si lanciano più messaggi politici.
Era il '91, la Lega picchiava forte, e distribuire quel disco nel Nord-Est non fu facile. Pino, come Troisi, anche quando non parlava di politica, la faceva. Sempre con intelligenza, mai con retorica. Oggi, però, quel coraggio non c’è più. Purtroppo. I giovani hanno bisogno di credere in qualcosa, ma mancano voci che abbiano il coraggio di dire le cose come stanno.
La discografia è in crisi?
Sta assecondando un fenomeno che non porta da nessuna parte. Si vive di milioni di visualizzazioni: spero che questo sistema scoppi presto. Quest’estate ho visto tanti programmi televisivi dove gli artisti salivano sul palco per prendere un premietto. Tutti simili, tutti uguali. Ma la cosa peggiore è che non c’erano musicisti sul palco. Questo mi preoccupa. Il fatto che non ci siano più club dove i ragazzi possano suonare è un delitto. Oggi i giovani si prendono a mazzate per strada, mentre un tempo potevano esprimersi nei locali. E dover andare solo allo stadio per i concerti? Non mi piace neanche quello.
Pino non si separava mai dalla chitarra.
Perché era, prima di tutto, un grande musicista. C’è chi si stupisce degli accostamenti con Metheny o Clapton. Ma pensate davvero che avrebbero suonato con lui se non fosse stato all’altezza? Quello non era business, ma stima.
Lui non è mai stato in gara a Sanremo. Al cast di quest’anno ha buttato un occhio?
30+4 Nuove Proposte. Troppi. Ma il problema non è solo il numero. Manca una direzione artistica, un’idea. Si propone tanto per proporre, senza una visione.
Ruggeri ha detto: “sogno un futuro in cui a vedere Tony Effe non ci va nessuno”.
Posso dire? Se ne parla troppo. Gli si dà troppa importanza. Non voglio neanche pronunciare il suo nome. L’ho visto paragonato ai grandi trasgressori del passato. Ma scherziamo?