Totò, Eduardo De Filippo, Massimo Troisi, Pino Daniele: il regista Marco Spagnoli ha trovato un fattore comune a tutti questi artisti. “Hanno detto delle cose in maniera assolutamente rivoluzionaria, ma anche anarchica, di rottura”, ci dice. E il suo docufilm (a cui ha lavorato anche Stefano Senardi) Pino Daniele. Nero a metà punta proprio a questo: a raccontare il cantante napoletano come un rivoluzionario. Ciò che ha determinato il suo successo, però, non è stata nessuna operazione di marketing. Per Spagnoli conta crederci, “suonare 5 o 6 ore al giorno”, la disciplina. L’amore per ciò che si fa. Per questo Pino è entrato nell’immaginario, per questo è popolare (e non solo celebre). Le sirene dei social, invece, rischiano di distrarre i giovani. Ma la colpa è anche di chi sta loro accanto: “C’è una considerazione degli artisti che non è legata a determinati valori e qualità, ma spesso dipende dai like e non dalle emozioni”. Non a caso alcuni cadono dopo essere stati ai vertici, meteore che durano troppo poco. Alcune “cantonate”, poi, dipendono dalla sovraesposizione, dalla voglia di commentare tutto, “da Gaza alle scarpe nuove, passando per la partita di calcio”. Il concetto di Nero a metà, nome dell’album che dà il titolo al docufilm, vale ancora oggi. E Spagnoli ha ricordato alcuni artisti che lo incarnano. Mentre sull’intreccio tra arte e politica le cose sono più complicate.
Marco Spagnoli, all’inizio del documentario si sottolinea la vicinanza di Pino ai luoghi, a Napoli, ma andando avanti emergono soprattutto le persone.
Sì, è come una geografia umana. Pino ha mantenuto un’idea molto coerente di Napoli, parlando sempre del popolo napoletano. Senza fare paragoni sociologici cretini, però per esempio Silvio Berlusconi parlava di “gente”, mai di “popolo”. E questa credo sia una cosa molto significativa. Invece Pino ha sempre e soltanto parlato del popolo, perché in realtà lui ne faceva parte.
Secondo te qual è l'elemento del suo essere artista che è la vera chiave di questa relazione?
Quando ho fatto il documentario su Massimo Troisi, Maurizio De Giovanni ha detto una cosa che mi ha molto colpito e a cui non avevo mai pensato, e che credo sia vera anche per Pino Daniele. Noi crediamo che sia il talento a formare le vite, ma molto spesso accade il contrario, ovvero che è la vita a formare il talento. Pino ha avuto una vita complessa, viveva dalle zie perché non aveva spazio nella casa dei genitori, eppure con la sua determinazione e la sua voglia ha valorizzato la sua arte.
Nel documentario si fanno paragoni pesanti.
Gigi De Rienzo dice che aveva lo stesso talento di Stevie Wonder, per esempio, però chi nasce nel centro storico di Napoli raramente fa la carriera di artisti di quel calibro. Negli anni Sessanta o Settanta era anche peggio, dato che il contesto era decisamente più ostile rispetto a questo tipo di percorsi.
La prospettiva sulla vita di Pino parte da un album.
Sì, Nero a metà. Nel 1981, quando fa il concerto in piazza del plebiscito, lui ha poco più di 30 anni, è giovanissimo, è un ragazzo come tanti che però ce la fa, perché ce la vuole fare. Quindi, tornando alla domanda di prima, la fusione con quel contesto certamente lo ha determinato, lo ha fatto diventare Pino Daniele.
E secondo te essere nato in quei luoghi è ancora limitante?
Dipende, è una questione identitaria. Non credo che ci siano più o meno limiti se sei nato a New York, a Napoli o a Oslo. Quando tu vuoi fare quel genere di cose, dal cinema alla musica, ti dicono sempre che non ce la puoi fare. Di nuovo, non voglio forzare paragoni, ma prendiamo quello che è successo con Geolier a Sanremo: quanta gente ha detto di non capire quello che dice nelle canzoni? Immaginiamoci 50 anni fa. La novità viene sempre stroncata, e tutta la storia dei grandi artisti è simile in questo senso. Il racconto che volevamo era proprio quello di un rivoluzionario.
Oggi è più difficile fare le rivoluzioni?
Fare le rivoluzioni è sempre difficile. Il rischio è avere delle sirene che ti distraggono, che ti portano altrove, a compromessi.
Questo a cosa è dovuto?
C'è la vanità imposta dai social, una considerazione degli artisti che non è legata a determinati valori e qualità, ma spesso dipende dai like e non dalle emozioni. Vediamo anche le carriere di gruppi o artisti che raggiungono i vertici e che poi sembrano cedere sotto il peso del successo.
Un esempio?
Io non li conosco personalmente, ne parlo come lettore, ma com’è possibile che i Maneskin si sciolgano dopo aver fatto tre album? Loro fanno bene a fare quello che vogliono, ci mancherebbe altro, però se dopo così poco tempo finisce tutto allora forse c’era qualcosa che non avevamo capito.
Che spiegazione ti dai?
La pressione e anche la vacuità delle persone che circondano gli artisti credo siano determinanti. Io ho una mia teoria su questo.
Dicci pure.
L’atteggiamento di un artista oscilla tra due estremi: quello della vanità, “il mio peccato preferito”, come si dice nel finale de L'avvocato del diavolo; dall'altro lato c'è invece Jesus Christ Superstar, la scena in cui Giuda dice a Gesù che la sua colpa è di aver creduto a ciò che dicevano di lui. Che non è vanità, è ancora peggio. Io credo che quelli che vengono attratti da questi due poli impoveriscano le loro carriere.
La fame del successo rischia di essere troppa?
Noi siamo condizionati anche da questa cosa ridicola, molto americana, che vede l'insuccesso come il contrario del successo. È vero l’opposto, cioè che l'insuccesso è parte del successo. Senza gli errori come si fa a capire quali sono le cose da migliorare?
Ritornando al documentario. È lo stesso Pino ad ammettere: “Della fama non mi interessa, io voglio suonare”. Forse è più difficile trovare questo amore?
Ci sono proprio degli atteggiamenti sbagliati. Quante volte ci sono attori e attrici improvvisati che recitano solo per andare sui red carpet? Lì diventa un'ossessione, quindi vanno a tutti i festival pur di farsi notare. Questo fa parte della vanità di cui parlavo. Ci sono tante persone che fanno quello che fanno per i motivi sbagliati, e uno dei motivi più sbagliati è fare le cose per ottenere visibilità. Pino non era assolutamente uno che cercava quello. Lui cercava la possibilità di mantenersi attraverso la musica, che mi sembra già un bel successo, ma soprattutto voleva dire delle cose in cui credeva. Il motore di tutto è la passione, quella che viene chiamata urgenza; lui aveva l'urgenza di fare quello che ha fatto.
Come si raccontano storie del genere?
C’è un tipo di narrazione dell'entertainment che viene fatta in maniera deterministica, dove tutto è previsto, dove alla fine, sì, ci sarà pure qualche ostacolo, ma poi il successo arriva sicuramente. Invece la vita di questi grandi artisti è fatta di inciampi, incertezze, dubbi. Questo secondo me è interessante: le biografie sono un esempio di quello che può succedere a chiunque, nel bene o nel male.
Nero a metà è un titolo di un album, ma anche una presa di posizione politica. O è un’esagerazione?
C’è anche quell’elemento, sì. Nel documentario si parte da un assunto storico musicale, che è l'album della consacrazione, ma questo si può leggere in due modi. Da un lato c'è la parte del blues, dall'altro c'è anche il racconto di un modo di essere degli outcast.
Capita che una battaglia politica prenda il sopravvento rispetto all’arte stessa, che gli venga appiccicata sopra come un adesivo. È molto più difficile far emergere una posizione attraverso il proprio lavoro, no?
Sono d'accordo, la differenza è sempre quella che dicevamo, cioè se ci credi o meno. Se la politica di qualsiasi colore diventa un vestito, qualcosa che puoi accendere o spegnere con un interruttore, allora perde di senso. Pino Daniele, Massimo Troisi, Totò, Eduardo De Filippo: sono persone che hanno detto delle cose in maniera assolutamente rivoluzionaria, ma anche anarchica, di rottura. Poi di loro serve raccontare anche le cose negative, non c’è per forza la celebrazione assoluta.
Né Pino Daniele né Massimo Troisi, per fare un altro nome, sembrano averla cercata quella celebrità, e hanno avuto grande sensibilità nel dare luce anche a chi avevano intorno. Sei d’accordo?
Loro erano popolari, non famosi, e questa è una grande differenza. Sono molto legato a questo concetto della celebrità popolare. Il marketing ha grande potere, tutti possono diventare celebri, ma non sempre si diventa popolari. Quelli come Pino abitano un immaginario, questo secondo me è il punto. A Sanremo vediamo cantanti di cui poi si perdono subito le tracce e viene quasi da chiedersi: ma che fanno quando finisce il festival? Pino suonava la chitarra per cinque o sei ore al giorno, è la fame che aveva che mi fa impazzire. Non voglio sembrare retorico, è una constatazione di qualcosa di molto più profondo, non sto parlando di una cosa romantica.
Chiamiamola disciplina.
Esatto, i veri artisti sono quelli che ci credono. Ultimamente vedo che molti, giovani e meno giovani, si distraggono parlando di cose che non li riguardano o diventando incoerenti rispetto a quello che hanno sempre fatto.
Con i social si moltiplicano le occasioni in cui ci si espone e a quel punto diventa più facile contraddirsi.
Io però credo che dipenda anche da chi hanno intorno. Cosa sarebbero stati i Beatles senza il loro manager? Per usare di nuovo questo termine: chi è che li disciplina? Quando si fanno delle fotografie che non dovrebbero, quando commentano tutto, da Gaza alle scarpe nuove, passando per la partita di calcio. Le occasioni sono di più, questo è vero, però se avessero qualcuno di preparato accanto le probabilità di finire in un incidente sarebbero inferiori. Pino Daniele, come si vede nel documentario, non aveva grande voglia di essere intervistato, non è uno che stava lì solo per parlare. È per quello che dice: “Lasciateci suonare”. Oggi quanti lo direbbero?
Il rischio di dire qualcosa di sconveniente è troppo alto, quindi?
Da questo punto di vista i social sono più una trappola che un'occasione. Ci possono essere mille fattori differenti che però portano al medesimo tragico risultato, cioè che, nella migliore delle ipotesi, prendi una cantonata. Questo è pericoloso soprattutto per l'artista stesso. Io sono reduce dal documentario su Franco Battiato: lui era un maestro nel non parlare, nel sottrarsi alle domande, mettendo talvolta in imbarazzo anche l’intervistatore. Capisco che non sia facile, è un problema per tutti. La pressione mediatica pazzesca a cui siamo abituati peggiora sicuramente le cose.
Vedi qualcuno che incarna il concetto di “Nero a metà”?
Quello che io rifiuto è l'idea che sia finito tutto, che dopo Pino non può esserci nulla. Una persona che mi piace molto è Zerocalcare, che ha grande coerenza e intelligenza, ha stabilito un legame con il popolo, anche lui ha creato un immaginario. Di recente ho visto A Complete Unknown: Bob Dylan è un nero a metà, uno a cui non frega niente del successo o di quelli che gli dicono gli altri. Sono persone che non hanno voglia di farsi sopraffare, ed è un atteggiamento che risulta non simpaticissimo.
Tu non ami molto la questione del “riscatto”, giusto?
No, io credo nelle storie di cambiamento. Anzi, trovo molto più nobile cambiare che riscattarsi. Molto spesso le persone, per riscattarsi, devono essere consapevoli di qualche cosa che li schiaccia e che le porta alla consapevolezza. Questo non sempre accade. Poi il riscatto porta a un altro sentimento molto diffuso, che è il rancore. Rimane quella frase di Pino: lasciateci suonare, lasciateci cantare, perché sennò rischiamo di dire una marea di cavolate.