Perdere significa “non riuscire più a ritrovare”, in questo caso lo spirito di un’epoca, quella di una generazione che si racconta nel libro di Aldo Grandi, La generazione degli anni perduti. Storia di Potere operaio (Chiarelette, 2023). Una memoria che cerca di farsi storia e che, per questo, si ribella al destino che il titolo stesso prospetta. Raccogliere testimonianze e ordinare, per quanto possibile, idee così vive e feconde è un’operazione senza dubbio attuale. Specie per la mia generazione, così lontana e diversa, che potrà contribuire a smentire l’oblio che condanna anni decisivi, sottosuolo del presente. Leggere la storia significa concederle la forza propulsiva che porta al cambiamento. Ascoltare voci dissonanti rispetto al loro tempo è il primo passo per essere davvero controcorrente. Di nuovo, per le nuove generazioni, così bisognose di differenziarsi rispetto a quello che i genitori furono. Senza paura di pronunciare la parola “ideologia” condannata a priori da un atteggiamento che si vuole privo di impalcature solide, scambiate troppo spesso per pregiudizi. Possedere un preciso sistema di riferimento, infatti, non significò, per quei movimenti, appiattimento dietro a una posizione univoca. Al contrario, si assistette a una moltiplicazione dei soggetti coinvolti, ognuno con chiavi di lettura, metodi di azione e terreni di lotta diversi. Si viveva il conflitto nella sua essenza produttiva, nella misura in cui proprio nello scontro le varie parti in lotta si riconoscono nelle loro specificità. Nascondersi sotto la calda coperta della responsabilità, come molta sinistra di oggi tende a fare, professando la necessaria unità di fronte al mostro che avanza, è solo un modo per evitare un confronto serio e che inevitabilmente porterebbe a ripensare se stessi.
Non fu lineare il percorso che portò Potere operaio a definire la propria identità: secondo un orientamento che faceva capo a Mario Tronti, i membri del movimento erano convinti che fosse giunto il momento di un’iniziativa proletaria attiva. Non più, quindi, una resistenza al procedere del capitalismo. Il nucleo di Potop si dimostrò particolarmente rigido nel determinare le caratteristiche della classe protagonista dell’azione. Il soggetto di riferimento fu senza dubbio l’operaio-massa, quello delle grandi fabbriche, mancando però di coinvolgere altre fasce subalterne. Ciò fu la ragione degli attriti con Lotta continua, il movimento a cui si contrappose proprio in virtù di una diversa individuazione della forza rivoluzionaria. Come lo stesso Adriano Sofri ammette, l’idea di organizzazione di Lotta continua “era molto più spontaneista” e sensibile nei confronti di altri tipi di sottoproletariato, che non rientravano nelle rigide classificazioni marxiste. I “puri” di Potere operaio, racconta Contini Bonacossi, mantenevano un rapporto “più astratto e meno personalizzato”. Non amici, certamente, piuttosto bolscevichi rivoluzionari. In ogni caso, caratterizzati da una certa eterogeneità al loro interno: “Studenti da una parte, operai dall’altra”, Potere operaio fu, con le parole di Paolo Virno, “un grande esperimento umano in cui c’erano differenze di censo, di abitudini. La cosa meravigliosa è che queste differenze, e diffidenze, per alcuni anni sono state contenute”.
Inevitabile un maggiore elitarismo rispetto ad altri movimenti, data la necessità di maneggiare testi difficili e posizioni filosofiche articolate. Dal nucleo direttivo, la testa dell’organizzazione, partirono gli input che determinarono la deriva violenta del gruppo. Da ricordare, in questo senso, il congresso di Roma del 24,25 e 26 settembre 1971, dove la corrente milanese, guidata da Toni Negri, si trovò spaesata in seguito all’avvicinamento del loro leader all’atteggiamento insurrezionalista della parte romana del gruppo, più numerosa e guidata da Franco Piperno. Quest’ultimo, infatti, premeva indubbiamente per una mobilitazione armata, seppur subordinata alla programmazione politica. Non ci fu, almeno inizialmente, la considerazione della necessità di un’azione violenta autonoma, sganciata dalla teoria, che continuava a essere il fulcro di Potop. Azione che non doveva essere solo difensiva, ma, al contrario, propositiva: reagire all’azione del capitale significava ammettere l’avanzamento del nemico, mentre il proletariato si trovava nelle condizioni per fare la prima mossa. Da ciò risulta chiaro il motivo della vicinanza a Giangiacomo Feltrinelli, nonostante alcune differenze nella percezione del pericolo reazionario: l’editore, infatti, voleva preparare i Gap a una eventuale contromisura golpista da parte dello Stato e del capitale, che avrebbe inevitabilmente ricacciato indietro l’incedere del proletariato. La strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 non fece altro che dare fondamento ai timori di Feltrinelli.
Senza fare sconti, il libro tratteggia la parabola che portò alla deriva violenta dell’esperienza di Potere operaio e di come la “testa” del gruppo non fu in grado di arginare lo spontaneismo dell’azione armata, che portò, nel 1973, all’uccisione dei due figli di Mario Mattei, segretario della sezione Msi di Primavalle e poi, con l’onda lunga di quanto seminato in quegli anni, all’omicidio Moro. Una violenza facilmente fraintendibile, che non può essere capita se non calata all’interno di una cornice di riferimento più ampia, attraverso cui comprendere che, da una parte come dall’altra, si sparava senza troppe lacrime, consapevoli di vivere un momento di avanzamento decisivo della storia. Nel contributo conclusivo di Cecco Bellosi, la novità di questa edizione del volume, il militante ricorda come quegli anni furono tutt’altro che persi. Furono vissuti, almeno nella misura in cui la vitalità della storia la fanno anche le macchie di sangue. La generazione che visse quel periodo ha preso coscienza di quanto accaduto, dirimendosi tra le contraddizioni e le conseguenze delle loro azioni, delle loro idee. Io faccio parte di un’altra generazione, che vede lontano quel passato e che fatica a valutarne gli effetti reali sul presente. Quasi come volesse dimenticare. Il libro di Aldo Grandi è un monito, un lascito e, allo stesso tempo, un quadro che impone di guardare ciò che fu, perché l’eredità di quelle lotte non vadano perse. Un libro che alimenta la speranza, per noi che non abbiamo vissuti quegli anni, di vivere a modo nostro il tempo che ci appartiene.