Classe 1979, di Rocca Piemonte – “un paesino di tremila anime in provincia di Salerno” –, Carlo Crudele “pensa” e struttura Musicboom alle soglie dei suoi diciotto anni, “qualche mese prima della maggiore età”. Musicboom – non una webzine, ma una vera e propria rivista online – esordisce online il primo gennaio 1998. Una data netta, quella in cui la corsa inizia. Più fumosa la fine dell’avventura. “Siamo fra il 2006 e il 2007. Di quel periodo, forse anche perché non felicissimo, ho dei ricordi vaghi”.
Carlo, 26 anni dopo siamo qui a parlare di Musicboom perché quell’esperienza pionieristica che per quasi una decade ha generato una montagna di recensioni, dossier e live report, sembra essere stata risucchiata in una zona spazio-temporale ignota. Eppure crediamo che Musicboom non meriti l’oblio. Anzi. Prima di tutto: chi eri all’inizio del 1998?
Avevo appena finito un Liceo scientifico con il quale non c’era mai stato reciproco amore, e stavo per iniziare Scienze della comunicazione, anche se poi ho finito per laurearmi in Scienze politiche delle relazioni internazionali. Vivevo l’arrivo di internet con enorme entusiasmo, anche perché, avendo avuto la fortuna di avere un padre informatico, crescevo in una casa piena di pc e vari modem che all’epoca viaggiavano ancora a carbonella.
Oggi, invece?
Prima di essere ciò che sono ora, ossia, dal 2014, un social media strategist, ho lavorato per diverse agenzie di comunicazione. Sono stato anche autore satirico per Sky. Per anni ho lavorato a Milano, ma adesso faccio base a Rimini. E come altri che hanno fatto parte dell’esperienza Musicboom, sono comunque rimasto nel campo della comunicazione.
Torniamo allora al 1998. Alle origini di una testata che, a suo modo, ha fatto storia.
Tengo a precisare che io mi sono sempre ritenuto il meno qualificato, dal punto di vista puramente musicale, in mezzo a un gruppo di persone, scrupolosamente scelte, che vantavano competenze davvero invidiabili. Io però ascoltavo di tutto, ero un ragazzo onnivoro che credeva fosse possibile creare un contenitore che parlasse, ribadisco con competenza, di tutta o quasi la musica in circolazione. Considera che quando il web non era ancora di massa, non c’era molta gente online. Tra quella poca gente, diverse menti aperte e stimolanti – probabilmente le migliori in circolazione – che contattai, ad esempio, attraverso mIRC. Erano gli anni in cui negli States prendeva quota una rivista come Pitchfork. Non ero un fanzinaro e non ero un nerd che dava la caccia al bootleg raro. Volevo un contenitore digitale in cui fosse possibile trovare un articolo su un disco jazz ECM così come sull’ultimo degli Iron Maiden o l’esordio di una band indipendente toscana. Eravamo ancora nell’epoca in cui la musica andava acquistata. Presto saremmo stati travolti dal download più o meno selvaggio, ma a inizio 1998 la strada era ancora quella del formato fisico, per cui Musicboom doveva costituire una guida, una bussola affidabile. Il reclutamento dei collaboratori non fu problematico, il web allora era davvero una terra diversa rispetto a oggi. Noi, insieme a Rockit, fummo i primi a navigare il web con quel tipo di contenuti. Anzi, a onor del vero Rockit nacque nel 1997, anticipandoci di qualche mese. Con Giulio Pons, il loro direttore, c’era una simpatica rivalità che si stemperava ogni volta che ci incontravamo al M.E.I., il Meeting delle Etichette Indipendenti.
Passiamo in rassegna qualche collaboratore.
Oltre a te che mi stai intervistando (ride, nda), i collaboratori sono stati tanti: Paolo Bianco, all’epoca detto “The punisher” (ormai da tempo affermato fotografo punk-metal), copriva l’area punk/punk-rock. Andrea Girolami, ora in Rai – ma credo abbia lavorato anche per Tiscali e Mediaset – era un jolly, ma si occupava perlopiù di indie-rock. Area preziosa, per noi, l’indie, che allora si specchiava in un underground molto vasto. Un’area di cui si occupava anche Salvatore “Howty” Patti, che per anni è stato il mio più fedele braccio destro. Insieme, fino a tarda notte, spulciavamo tutti i comunicati stampa a supporto dei promo cd che, all’indomani, tramite posta ordinaria, avrei dovuto spedire a mezza Italia. Un lavoraccio assurdo, Salvatore viveva a Como e restavamo collegati ore per associare i dischi ai collaboratori a cui erano destinati. Tutto doveva essere recensito nei tempi stabiliti, in modo da poter poi mostrare tutta la nostra serietà e puntualità alle etichette che ci avevano inondato di materiale. Ma da noi è passato anche Aurelio Pasini, firma del Mucchio Selvaggio, che ora lavora alla Panini Comics; Luigi Faragalli, webmaster con la passione del cantautorato italiano; Claudio Fogliato, un anti-metallaro per eccellenza (se pensiamo al metallo classico tutto borchie e toppe), tuttavia appassionato di musica estrema, tanto da essere stato l’autore di un dossier decisamente all’avanguardia su Burzum che per anni è stata una punta di diamante del magazine. Ma ricordo anche Beatrice Finauro, Diego Moledda (referente per l’heavy più classico), Marco Giordano, Teo Segale, Gabriele Barone, Luca Fusari, Ilario Galati, Hamilton Santià... Mi scuso con gli altri cha al momento sto dimenticando, ma eravamo davvero tanti.
E tu che direttore eri?
Editavo tutto con estrema attenzione, ma non censuravo nessuno. Il prodotto che usciva era quasi sempre impeccabile, più volte controllato e ricontrollato.
Sicuro che non hai dimenticato un collaboratore particolare? Tipo Andrea Scanzi?
No, non me lo sono dimenticato, solo che va ammesso, con onestà, che il rapporto con Andrea Scanzi è stato abbastanza episodico. Al tempo Scanzi era “solo” un bravissimo giornalista musicale con un’insana passione per i Pink Floyd e, soprattutto, per Roger Waters. Non era ancora il giornalista e opinionista che oggi conosciamo. Per noi scrisse tre o quattro pezzi. Fu autorizzato da Max Stefani, direttore del Mucchio Selvaggio (per cui scriveva), col quale poi abbiamo avuto un bel contenzioso. Un giorno mi trovai pubblicato sul Mucchio un pezzo di Musicboom. Tale e quale. Fu un saccheggio in piena regola di cui Stefani – ma questo è il suo stile – non si scusò. Tornando a bomba, sono felice di poter dire che, sebbene il tragitto sia stato breve, “Scanzi è stato dei nostri”. Dopo poco, nel giro, il suo nome sarebbe esploso anche per via della celebre scazzottata al Baby O, discoteca aretina, se non ricordo male, con Pau dei Negrita. Quell’episodio, in epoca pre-social, per un bel po’ di tempo è stata materia leggendaria (ride, nda).
Scanzi a parte, come riuscì Musicboom, da esordiente e online, ad affermare la propria credibilità con le etichette discografiche, gli organizzatori dei concerti, i distributori, in un mondo in cui Blow Up e Rumore, per esempio, in edicola pattugliavano egregiamente il terreno indie-alternative?
Ero bravo a trovare i referenti giusti. All’alba di internet era più facile individuare chi gestiva ciò che a noi interessava. E poi Musicboom ragionava quasi come un quotidiano ed era scritto bene; era esaustivo, onesto. Se una cosa non ci convinceva lo scrivevamo, senza nasconderci.
Cosa accadde poi, all’inizio del nuovo millennio?
A un certo punto mi inventai una “listening room”, per dare la possibilità di ascoltare un minuto circa di alcuni brani del disco recensito. Oggi la cosa fa sorridere, ma all’epoca le connessioni erano lente, non era una cosa semplice. Poi – e forse questo è stato ancora più decisivo – siamo passati ad aggiornamenti quotidiani, ciò significava una media di tre recensioni nuove ogni giorno (senza contare gli speciali, le interviste e i live report). Un lavoro immane per il sottoscritto e un parco collaboratori, ricordiamolo, non pagato.
La testata cresceva. Quando ti sei accorto che Musicboom aveva acquisito un certo potere?
Quando mi fu concesso di intervistare Rufus Wainwright e poterlo poi incontrare a Roma, a concerto terminato. Un’altra volta ancora conquistammo il backstage del Flippaut Festival di Bologna, un altro bel segnale. Diciamo che “c’eravamo”. Ce ne accorgevamo al M.E.I. di Faenza, dove ogni anno incontravamo un sacco di persone con cui solitamente, durante il resto dell’anno, avevamo solo rapporti freddi, via email.
Come riuscì Musicboom a ritagliarsi uno spazio visibile nel glorioso caos di Faenza?
Con astuzia. Caricavo l’auto a Salerno, da cui partivo, con spillette, gadget, tutto il necessario per il banchetto. Lungo la strada che mi avrebbe condotto in Emilia magari caricavo un paio di collaboratori. Una volta a Faenza – questo è un aneddoto che proviene dal nostro esordio al M.E.I. –, ricordo che nessuno ci considerava davvero: eravamo la novità, ma nel senso che eravamo gli ultimi arrivati. E poi c’erano altre attrazioni, tipo il premio alla carriera a Piero Pelù. Così la mia fidanzata di allora si inventò il colpo di genio. Andò al supermercato più vicino, tornò con cinque chili di Nutella e il pane affettato. Sopra lo stand collocammo la scritta “La Nutella apre alle 15”. Alle 15.50, davanti al banchetto, avevamo una fila infinita. Quel giorno conoscemmo tutti, e chiunque conobbe noi. Iniziammo, si direbbe oggi, a fare network. A Faenza nacque anche l’idea delle compilation.
Quali?
Una, la prima, dedicata ai pezzi dei Beatles (“Let it boom”); la seconda ai Velvet Underground (“Boom songs for Velvet”). Al disco per i Beatles parteciparono gente come Paolo Benvegnù, Perturbazione, Lara Martelli, A Toys Orchestra, tutti artisti di grande livello che ci donarono le loro cover. Considera che senza i social di mezzo, quindi solo attraverso il passaparola, la compilation beatlesiana fece quattromila download. I Perturbazione, tra l’altro, hanno finito per inserire la loro “Yesterday” sul retro di un singolo.
Quando hai cominciato invece ad avvertire i primi scricchiolii?
Per chi ci leggeva la chiusura di Musicboom è stata un fulmine a ciel sereno, difficilmente prevedibile anche per i più attenti. In realtà, le divergenze di vedute fra me e chi mi affiancava si erano fatte sempre più consistenti e insistenti. Era diventato sempre più difficile pretendere dagli altri un lavoro costante ma non retribuito. Con le somme incassate attraverso i banner pubblicitari, ci pagavo giusto l’hosting del sito, per dire. Chi sceglieva di lavorare per noi lo faceva o per la gloria o per divertirsi, ma questa spinta, per alcuni, a un certo punto iniziò comprensibilmente ad affievolirsi. Vedevo inoltre che il web stava andando da un’altra parte. Ci si stava dirigendo a grandi balzi verso il web 2.0, il web dei social. I nostri articoli di colpo sembrarono troppo lunghi, prendeva piede una scrittura più rapida e meno ponderata. Sarebbe servito un salto, anche strutturale, non semplice da attuare, e chi mi stava attorno non vedeva di buon occhio questo mio tentativo di aggiornarmi, rischiando magari di trasformare un format che fino a un certo momento si era rivelato vincente. A posteriori mi viene da credere che avrei dovuto accettare la famosa valigetta piena di soldi che un imprenditore, una volta, ci sventolò sotto il naso per rilevare il sito. I miei stretti collaboratori non capirono quel mio rifiuto. Chi mi era vicino mi suggeriva di vendere, ma io cullavo ancora l’idea di poter trasformare e aggiornare Musicboom. Vedevo la vendita come un’opzione lontana, ma forse il momento era quello giusto. Sognavo ancora di poter stipendiare i più stretti collaboratori, in modo da renderci economicamente autosufficienti. Ma il periodo, per la discografia, era difficilissimo. Rockit è riuscita ad adattarsi, individuando quel modello di business che oggi, ad esempio, contiene il Mi Ami Festival. Noi purtroppo no.
E quindi?
Quei mugugni costanti, quei dissidi, portarono all’inevitabile (e amaro) tramonto di Musicboom. Così voltai pagina, platealmente, anche per dimenticare le tensioni, la negatività.
Come?
Suonando in giro, per sagre e festival, come supporto dei Los Locos.
Ehm, quelli della “Macarena”?
Sì, loro sono italianissimi, di Vicenza. Io suonavo in un gruppo che, dopo essersi studiato per filo e per segno il loro repertorio, diventò la loro backing-band. Quaranta date estive per tre anni a fila. Mai vista tanta gente, dal vivo, così da vicino. Non erano i palchi “nobili” dei grandi tour, ma suonammo in feste oceaniche, parlo anche di 30mila persone.
Col senno di poi, Musicboom poteva essere quel Pitchfork che l’Italia non ha avuto?
Forse per un certo periodo lo è anche stato. Se riuscissi a recuperare la mole di articoli prodotti durante il ciclo di vita di Musicboom, oggi avrei per le mani un database sterminato di opinioni e informazioni generate da persone che consumavano e mangiavano musica quotidianamente. Forse il nostro Paese non può davvero permettersi un Pitchfork, Italia e Stati Uniti non sono realtà paragonabili.
Dov’è finito Musicboom?
Chi lo sa, ancora lo sto cercando, ma qualcosa troverò. Temo che purtroppo gran parte di ciò che abbiamo prodotto sia andato perduto. Non è vero che il web conserva tutto, questa è una leggenda. Anzi, il grosso è andato perso, come lacrime nella pioggia. Un dispiacere, quando ci ripenso. Esistono siti online dedicati al web che fu, ma per ora ho trovato solo pezzettini dell’immenso puzzle di Musicboom.