Per Mattia Carzaniga venire al Festival di Venezia significa trovarsi a chiacchierare con chi partecipa da sempre, star comprese. Un po’ come rivedere ogni estate gli amici del mare. Significa anche interviste in diretta, nelle quali spesso è necessario improvvisare. Nel mezzo di una conversazione con Carla Bruni gli è capitato di scacciare una mosca o dopo essere stato “travolto” da Cate Blanchett ha reagito con un cordialissimo “thank you”, il tutto diventato virale sui maggiori siti di informazione. È l’inviato della Rai sul red carpet, ma la sua essenza rimane quella del “giornalista scrivente” per Rolling Stone Italia. Ce lo ha spiegato in questa intervista dove ha parlato di tanto altro. Nonostante le defezioni causa scioperi, dice, questa edizione del Festival è stata ugualmente intensa. Ci sono stati grandi film e le ben note contestazioni. Luc Besson, Roman Polanski e Woody Allen sono stati i bersagli delle proteste: “Fuori gli stupratori da Venezia”, dicevano i manifestanti. In alcuni casi ha preso posizione: “Woody Allen è contestato ingiustamente”. Allen è un grande autore e “rivederlo è stato commovente”, ha ammesso. Poi ci sono state le polemiche su cui invece non si è espresso. “Adam Driver nel film Ferrari è bravo”, taglia corto. Anche se veder parlare i protagonisti in inglese in un film in cui tutti parlano italiano è senza dubbio strano. Poi le feste (poche) e le giornate iniziate alle sette e mezzo per vedere le proiezioni del mattino. La vita del Festival non è così sregolata come noi profani pensiamo. Tra i registi italiani ha esaltato Pietro Castellitto, autore di soli 31 anni ma con una voce già chiara: “La sua arroganza mi ricorda quella del giovane Nanni Moretti”. Auguriamo a Castellitto gli stessi successi. Si definisce un “garroniano” fin dai tempi de L’imbalsamatore. Matteo Garrone, vincitore del Leone d’argento con Io Capitano, per lui è già un classico. Insomma, Carzaniga ha vissuto e analizzato Venezia da tutte le angolazioni: il caos del tappeto rosso e la routine delle proiezioni. Venezia 80 non lo ha deluso. E quell’abbraccio con Woody Allen vale tutta la fatica.
Mattia, come hai vissuto questa edizione?
Bene, frequento il Festival di Venezia da diciotto anni e lo conosco molto bene. Sempre da giornalista scrivente. Negli ultimi anni ho aggiunto il red carpet con la Rai: è un osservatorio sicuramente diverso. Le giornate sono più piene ma è anche un’angolazione divertente da cui vedere la macchina del Festival.
Quest’anno, tra ritorno post-pandemico e scioperi, è stato un Festival diverso?
In realtà già dal 2021, quando ho iniziato la collaborazione con Rai Movie, c’era stato il grande ritorno dei divi dopo il 2020. C’era, per esempio, Timothée Chalamet con Dune. Quella era stata una mostra coraggiosa, che scelsero di fare con determinazione. Funzionò tutto perfettamente e in un momento come quello non era affatto scontato. Poi Venezia è sempre così: mantiene quella vocazione anche di scoperta, di mostra d’arte. È però un importante trampolino per tutta la stagione fino agli Oscar. Un evento determinante per i destini di certi film. Dopo due edizioni molto intense quest’anno non penso che lo sia stata di meno.
Qualche assenza importante c’è stata.
Sì, qualche defezione c’è stata. Bradley Cooper, regista e attore nel suo film, Maestro, ha solidarizzato con gli scioperanti. Poi Michael Fassbender, il cast del film di Yorgos Lanthimos… Però tante altre produzioni indipendenti hanno avuto il via libera dal sindacato per poter promuovere i film. Ci sono Priscilla di Sofia Coppola, Ferrari con Adam Driver e stasera ci sarà Jessica Chastain per Memory di Michel Franco.
Il red carpet come lo hai visto?
Credevo che anche a causa dello sciopero fosse un po’ più sguarnito di folla. In realtà c’era tanta gente molto giovane che aspettava i registi. Nella serata d’apertura c’erano un sacco di fan con i poster di La La Land: volevano l’autografo di Damien Chazelle, che quest’anno è il presidente della giuria. Diciamo un festival di “registi star” che attivano molto l’attenzione di un pubblico giovane e cinefilo. Questo mi sembra un segno divertente.
A Venezia qualche polemica c’è sempre: che idea ti sei fatto sulla questione del ruolo di Enzo Ferrari affidato ad Adam Driver?
Queste sono polemiche che riverberano fuori ma a Venezia tutti lavoriamo, abbiamo le proiezioni e non si attiva un vero dibattito. Non so tanto come pormi. È ovvio che l’attrazione di produzioni straniere è nell’interesse del sistema italiano. Vedendo, come sempre, il film in lingua originale è ovvio che in Ferrari è strano. Il sottofondo al bar, i meccanici: tutti parlano in italiano. I protagonisti, invece, parlano in inglese. Anche noi, però, facevamo film sulla Rivoluzione francese in cui si parlava italiano.
Il problema, quindi, è stato mal posto da Favino?
Non dico questo. Favino fa degli ottimi film, tra l’altro il film d’apertura, Comandante, per me è molto buono. Il tema del doppiaggio è un suo leitmotiv da tanto tempo ed è sacrosanto. È vero che questo effetto un po’ House of Gucci stona. Non lo so, non entro troppo nel merito della questione. Ripeto, fa un po’ titolo. Ad ogni modo, a Venezia non si parla di questo.
Al di là di questo, Ferrari è piaciuto?
Sì, è piaciuto! Quella impostata dal regista Michael Mann è una bella biografia, molto classica, che ha avuto un’accoglienza buona. Quell’aura kitsch delle produzioni americane girate in Italia non l'ha avuta.
Hai preso sottobraccio anche lui se non sbaglio.
L’ho visto che stava arrivando, poi è un arzillo signore ma ha anche suoi anni. L’ho preso così per farmi sentire meglio, c’era molto caos. C’era pure Patrick Dempsey… era un red carpet molto affollato e gridato.
Hai incontrato anche Woody Allen, che però è stato molto criticato.
Non posso capire le critiche verso Woody Allen. Per la giustizia è un uomo innocente. Non possiamo essere giustizialisti solo quando ci conviene. È stato assolto da ogni accusa trent’anni fa. Il peccato originale è il matrimonio con Soon-yi Previn, che non è mai stata la sua figlia adottiva, come scrivono tutti. È una relazione che dura da 30 anni. Sono una coppia molto tenera e affiatata. Mi sembra che questa sia la risposta a ogni cosa. Sono molto felice che Alberto Barbera l’abbia invitato con un film che è delizioso e che un festival accolga un grande autore come lui. Il discorso del #MeToo è giustissimo e ha generato un cambiamento in positivo nell'industria.
Cosa è cambiato?
Certe cose alla Weinstein non accadranno più ed è un bene per tutti quanti. L’esito di quel cambiamento raggiunge, a cascata, ogni altro ambiente, ogni altra industria. Ma Woody Allen non c’entra veramente niente. Lui è la vittima di una campagna di odio. Io penso che davvero meriterebbe un monumento al #MeToo: per i ruoli femminili che ha scritto, le donne che ha diretto, le donne che ha fatto lavorare sempre come maestranze.
La contestazione ha fatto effetto sul red carpet?
Io non l’ho avvertita. Anzi, è stato accolto con grande celebrazione. Cosa che per me Woody Allen si merita. Questa è la mia posizione.
E su Polanski?
Anche per lui: la stessa Samantha Geimer ha archiviato il caso. Detto questo, Polanski è un grande autore. Nel 2019, sempre a Venezia, ci fu un caso emblematico: la presidente della giuria era Lucrecia Martel, che all’inizio della mostra disse di avere difficoltà ad accettare la presenza di Polanski. Ciononostante, L’ufficiale e la spia era molto bello e vinse il Premio della giuria. Questa mi sembra già una risposta.
Abbiamo accennato ai tuoi incontri sul red carpet: qual è il personaggio che ti ha stupito di più?
Non saprei. È un momento molto gioioso e speciale. Sono giornate bellissime. È difficile trovare chi è maldisposto verso quella situazione, non so come dire. Carla Bruni io la trovo una donna strepitosa, poi quest’anno c’è stata la roba della mosca. Ovviamente non era programmato, però è divertente, ci svolazzava attorno. Quelle cose sono imprevedibili e carine. Poi è finita pure sul Corriere della sera…
E in senso negativo?
Direi nessuno. Al massimo hai poco tempo. A volte le auto con il cast arrivano proprio sotto ingresso in sala, quindi hai meno tempo di scambio, però ti inventi qualcosa che sia divertente e che sia anche nella velocità.
Parlando di registi italiani: cosa pensi di Enea di Pietro Castellitto?
Ecco, questo ha abbastanza diviso (gli italiani ovviamente). Gli stranieri fanno, credo, un po’ fatica a capirlo, anche per la storia familiare che non conoscono. Ho visto delle stroncature perché è un mondo, quello del film, molto preciso, molto romano. Io lo trovo un ragazzo giovane e talentuoso, con una voce chiara. Questo film è certamente ambizioso, ha questa forma sua di arroganza, ma di uno che ha tante cose da raccontare. Mi sembra proprio un’artista.
Alcuni lo paragonano a Nanni Moretti.
Moretti a 30 anni alla Mostra era percepito in maniera simile. In certi ambienti si pensava: “che cazzo vuole questo”. L’arroganza di un giovane autore che ha roba da dire e che lo riconosce anche a se stesso. Sicuramente ha quella forma di sana presunzione da artista che un po’ me lo ricorda, pur facendo cose molto diverse. Una Roma, però, ugualmente borghese, anche un po’ cafona, e molto connessa al proprio tempo. Poi non so se Castellitto diventa un altro Moretti, glielo auguro.
Qualche retroscena sul Festival che non vediamo: quello delle feste e delle serate?
Tutti da fuori pensano a una vita sregolata di feste. Sì, ci sono un po’ di feste… Quest’anno, dopo tanti anni, ha riaperto l’Hotel Des Bains. Ma ci sono tante vite diverse: c’è chi fa la vita più festaiola e raramente si alza alle sette e mezza per vedere le prime proiezioni. Ci sono le festicciole dei film italiani al Lido che sono proprio tranquille. Soprattutto i primi giorni che sono quelli un po’ più di ritmo sostenuto. In generale, una sera fai una cena, una sera vai alla festa del film, una sera stai anche a casa, recuperi e dormi presto perché sono giornate belle intense. Poi c’è una serie di eventi collaterali. Per esempio: George Clooney è venuto con la moglie perché lei doveva ritirare il premio di Diane von Fürstenberg. Ma queste cose avvengono da tutt’altra parte. Quella del Lido e della città sono due vite un po’ inconciliabili. Se uno fa la vita al Lido ti fai le chiacchiere con chi viene da tanti anni come me, come fossero gli amici del mare che ritrovi qua.
Il film che ti ha colpito di più?
Beh, lo dicono tutti: Poor Things di Yorgos Lanthimos. Alcuni suoi film mi piacciono molto, altri che non mi piacciono per niente. Questo è bellissimo. Un’opera connessa a questo tempo. È una specie di Barbie come in tanti hanno scritto. C’è la scoperta della sessualità, del corpo, Emma Stone si libera da questa specie di dottor Frankenstein, anche se mantiene con lei un rapporto amorevole. Mark Ruffalo è una specie di Ken che rappresenta questo patriarcato in crisi. Non penso sia casuale perché anche in Priscilla di Sofia Coppola, che è stato accolto un po’ più tiepidamente, c’è un po’ di Barbie. È interessante che autori diversi becchino lo stesso “sentiment”. Ad ogni modo, Lanthimos penso sia quello che è piaciuto di più e a un pubblico trasversale.
Un altro film che parla di presente in maniera molto diversa è Io capitano di Garrone.
Io sono un “garroniano”. È chiaramente un film che vuole evitare la retorica ma è, allo stesso tempo, un film molto commovente. C’è questo percorso un po’ di fiaba… È un po’ un racconto di tutti i racconti di migrazione. Questi due ragazzi lasciano il Senegal non per guerra o per fame, ma per globalizzazione, come ha detto Garrone stesso. Come gli emigranti dal sud Italia che pure avevano da mangiare sulla tavola ma volevano andare a lavorare al nord. Ma non, appunto, per sfuggire a una situazione di assoluta povertà. Poi per me Garrone è già un classico. L’imbalsamatore era già classico.
Il momento che ricorderai di questa mostra?
Aver rivisto Woody Allen. Lui è molto gentile e qualche anno fa mi firmò un autografo dopo l’intervista. Ritrovarlo così, dopo tutto quello che è successo… gli ho dato quell’abbraccio di gratitudine da spettatore, di gratitudine verso un autore che ci ha fatto tanto bene. La mostra mi ha commosso anche solo per questo