Rifkin’s Festival ovvero Cronologia di un percorso intimo attraverso la Storia del cinema o, meglio ancora, il non troppo ‘Cupo tramonto’ di Woody Allen.
A un passo dal cinquantesimo film Woody Allen con Rifkin’s Festival si prodiga in una resa umile quanto commovente, quasi a volerci dire: ‘Lasciate perdere è Chinatown Hollywood’. Mort Rifkin (Wallace Shawn) è un ex critico e insegnante di cinema che, controvoglia, si ritrova ad accompagnare la sua piacente moglie nonché agente stampa (la perfetta Gina Gershon) al Festival di San Sebastian perché teme, e chiunque lo comprenderebbe, che lei abbia una intesa col regista enfant prodige Philippe (antipaticissimo e meraviglioso Louis Garrel).
Al di là della sempreverde folie à deux che continuiamo a chiamare rapporto tra uomo e donna, la bellezza di questo film riposa nell’omaggio parodistico che Allen fa del cinema che ama: il festival di Mort Rifkin comprende rivisitazioni di Luis Buñuel, François Truffaut, Federico Fellini, Jean Luc Godard e Ingmar Bergman, in una discesa come un redivivo, anziano e ipocondriaco Orfeo negli inferi della propria personale insoddisfazione verso sua moglie, il mondo del cinema (veritiera la battuta: non ci sono più i festival di una volta) e tutta l’enorme inadeguatezza nei confronti dell’arte. Mort ha nel cassetto, come tutti gli utenti Facebook, un libro che non vuole saperne di emergere con un vagito se non può avere la stessa potenza di un Dostoevskij. Ma ogni aspetto romantico in cui vive Rifkin viene deriso dal mondo della cultura: gli stessi amanti del cinema sembrano vivere in modo ipocrita l’arte, pronti a osannare chiunque parli di cose difficili con facili soluzioni (e ditemi se non viviamo in un’epoca di populismo culturale), e questo chiunque è Philip che, col suo film, promette di risolvere il conflitto arabo-israeliano (in questi giorni, infatti, pare smuovere le coscienze dei nostri profili Instagram).
Insomma, nessun defibrillatore per l’anima, nessun segnale di vita per il protagonista, nelle lunghe giornate festivaliere, passeggiando più di Chatwin, in una San Sebastian che, sul finire dell’estate, grazie alla fotografia di Vittorio Storaro ci illude di essere nella New York di Allen in pieno autunno; finché, in uno dei suoi attacchi ipocondriaci, Rifkin incontra la dottoressa Jo (Elena Anaya) con cui instaurerà un legame basato sulle affinità elettive, e le incomprensioni coi rispettivi partner.
In Rifkin Festival c’è un Woody Allen nel pieno di una resa verso sé stesso, un armistizio dove indugia nell’autocitazione di una Elena Anaya che nella sua fresca e semplice bellezza ricorda tanto la Keaton di Annie Hall e non solo, perché negli intermezzi meta-filmici in bianco e nero c’è tanta di quella innocente ironia alleniana (e il silenzio di Dio a cui assisteremo nel finale) che abbiamo tanto imparato nei titoli più osannati del regista, tra cui Amore e Guerra.
Eppure, permane la sensazione che nell’ostinata volontà dell’artista, perché Woody lo è, di creare un capolavoro come quelli che lui ha amato, ci sia stato del buono e questo buono è l’atto stesso di averci provato come il Sisifo di cui parla Mort nella reinterpretazione de Il settimo Sigillo, con Christoph Waltz nel ruolo della Morte che gli ricorda l’importanza, ogni tanto, di sottoporsi a una colonscopia.
Parafrasando il tanto amato Camus ne Lo Straniero cos’è il cinema se non: ‘ventiquattro colpi secchi che battevo sulla porta della sventura’, e quella sventura è il nostro inconscio.