E niente, dovete vederlo, “Gli spiriti dell'isola” (The Banshees of Inisherim”), di quel genio di Martin MacDonagh (“In Bruges”, “7 psicopatici” e quella meraviglia di “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”). Dovete vederlo se in qualche maniera avete a che fare con il mondo dell’arte e nessuno vi prende sul serio, e nessuno capisce che se guardate fuori da una finestra state, anche in qual momento lavorando. Simona Vinci ne scrive spesso, sul suo Facebook, di quanto e come nessuno capisca il lavoro artistico. Ma ognuno di voi, che con questo mondo ha in qualche maniera a che fare, conosce gli sguardi perplessi e di disapprovazione, il dubbio beghino, o anche persino l’invidia di chi dell’arte riesce a fare una professione. McDonagh ci ricorda che, al di là di ogni legittima rivendicazione di una professione serissima, essere un artista è a un passo dalla malattia mentale, dalla sindrome narcisistica, dalla follia razzista, e lo fa mettendo in scena due personaggi su un’isola al largo dell’Irlanda mentre all’orizzonte si odono e vedono le bombe della Guerra Civile Irlandese, guerra “artistica”, come lo fu la Seconda Guerra Mondiale, una guerra dello “spirito”, tragedie (entrambe le guerre) in cui la crisi economica si intersecò a tal punto con le teorie filosofiche e letterarie e religiose da dar vita a repellenti conflitti dello Spirito che non è sbagliato definire “artistici”.
Mai, come in questo film, la follia dell’arte viene scandagliata nelle sue viscere più fastidiose: sono gli artisti un cazzo e mezzo meglio degli altri? O sono semplicemente degli insensibili – un premio nobel, mi dà fastidio pronunziarne il nome, disse apertamente che i suoi figli gli erano d’intralcio alla carriera, alla sua scrittura, che a essere sinceri non ha spostato di un millimetro la coscienza e la consapevolezza umana e neanche la sua storia. Così c’è Colm Doherty (interpretato da Brenda Gleeson) che di punto in bianco rompe la sua amicizia con Padraic Suillebhain (Colin Farrel) perché posseduto dal demone dell’arte (scarsa, bisogna dire, scarsissima): vuole lasciare prima della propria morte una canzone al violino che gli sopravviva, paragonandosi addirittura a Mozart, e Padraic, con le sue chiacchiere quotidiane, con il suo sconfinato amore per gli animali, con la sua ingenua felicità e accettazione di una vita in una piccola isola dove alle due del pomeriggio, dopo avere accudito quei pochi animali, ci si reca per riscaldare il tramonto che arriva, lo frena – a suo dire – gli impedisce di dedicarsi alla sua musica. Ed è strepitoso vedere le persone con le quali Colm sostituisce l’amicizia sincera e ingenua di Padraic: quattro sdentati malvissuti e stonati che strimpellano i loro strumenti al pub in un tavolo dove Colm sembra dare la stura a tutte le sue manie di superominismo artistico.
Il film scivola via via in una tragedia minima ed epica, nell’orrore delle convinzioni vissute senza autocritica, mentre lo spettatore non sa a chi dare ragione, se a Colm che vuole semplicemente dedicarsi all’arte o se a Padraic, che non vuole rinunciare all’amico di sempre la cui semplicità, evidentemente, nascondeva un’ambizione senza limiti (limiti che verranno superati a uno a uno in una spirale di orrore e dei quali non parliamo per non spoilerare nulla) mentre le bombe e i morti della guerra ricordano sovente quanto possa essere stupido il pensiero umano soprattutto quanto si sente intelligente. Certo, molti spettatori (gli spettatori si sentono molto intelligenti) parteggeranno per quelle orribili arie di violino di Colm. Ma se state uscendo con uno stupido/a portatelo/a a vedere il film. Senza nulla togliere che, a chi fa un mestiere intellettuale, molti rompono le scatole senza capire nulla. Ma non è questo il caso di un meraviglioso film.