Classe 1935, Giorgio Leopardi è un uomo di provincia. Ma per sbaglio. Piacentino doc, ci aspetta seduto negli ambienti griffati di Empòrion, in pieno centro città. Lo vediamo al tavolino, tutto preso a sfogliare un quotidiano e sorseggiare un caffè, gli occhiali neri sulla fronte come un uomo in carriera che si nutre di ciò che accade nel mondo, più di ciò che gravita attorno alla vicina piazza. Che poi Leopardi, in carriera, lo è ancora oggi. “Sapessi quanti progetti! Ho il telefono che non smette mai di squillare”. Produttore, uomo di cinema. Al nome di Leopardi sono legati i due più grandi successi commerciali di Francesco Nuti, “Caruso Pascoski (di padre polacco)” (1988) e “Willy Signori e vengo da lontano” (1989). “Ma ne ho fatti tanti di film belli, è che magari mica tutti se li ricordano ancora”, tiene a precisare, saltando di palo in frasca, come piace a lui.
Leopardi, proviamo a partire più o meno dall’inizio. Come le venne in mente di vendere i metanodotti che gestiva per entrare, piedi e mani, nel circo equestre del cinema? Altre regole, altri principi…
Era una passione. Le passioni mica chiedono permesso. Quando si fanno sentire così violentemente, se puoi, ti butti.
Siamo a inizio anni ’80. E lei si prende un pezzo di Genova…
Compro alcune sale del centro di Genova, comincio a stringere rapporti con tutti. Nel 1987 produco “Topo Galileo”, con protagonista Beppe Grillo.
Come andò con Grillo?
Come comico niente da dire, all’epoca era una macchina da guerra. Umanamente lasciamo perdere che è meglio.
Anche lei a dirmi che il cinema è un brutto ambiente?
Squali, arrivisti, bancarottieri, ce n’è di ogni, da sempre. La mia arma è sempre stata la libertà. La libertà di dare della testa di cazzo a chi volevo.
Suvvia, non la vedo un tipo dall’insulto facile…
Ma non è un insulto! Quando ci metti i soldi, è solo un modo per liberarsi. Magari lo dici così, senza neanche battere i pugni sul tavolo. È un modo per chiudere sbrigativamente un accordo che non nasce sotto una buona stella, per congedare qualcuno che sai che, come minimo, ti farà perdere tempo.
Non credo abbia dovuto mai “liberarsi” con uno come Nuti, però.
No, ci mancherebbe. Ho avuto la fortuna di conoscere e apprezzare il miglior Francesco Nuti, io. Persona meravigliosa che però, purtroppo, era molto legato alla sinistra. Ho dovuto chiudere la società a causa sua, in un certo senso. In virtù di una serie di equivoci e casini che stavano diventando un’autentica slavina. Fu un disastro.
E qualcuno con cui invece ha ancora, tuttora, buoni rapporti?
Alessandro Benvenuti, Debora Caprioglio. Alessandro Haber mi ha chiamato proprio l’altro giorno. Non sta bene, ci siamo ripromessi di vederci.
Torniamo a Genova. A un certo punto il suo peso in città cresce a tal punto che il sindaco Claudio Burlando…
Mi affida la “Nicola Costa”, una nave che ho trasformato in discoteca. Avevo in pugno il porto e tutto il relativo giro.
E a Cremona?
A Cremona acquistai il Roxy, un famoso cinema del centro. Lo trasformai in una multisala d’avanguardia e lo dedicai a Ugo Tognazzi. Il Corriere all’epoca titolò qualcosa come: “Ecco come si sistema il centro di una piccola città.
Cosa accadde poi al Roxy?
Che vendetti la mia parte agli industriali. Lo chiusero, volevano farci un garage. Ora è ancora tutto bloccato, tutto fermo e cinema chiuso.
Spesso la provincia, anche nelle sue precedenti interviste, non ne esce bene. A parte un paio d’anni trascorsi nella nativa Pizzighettone, lei è un piacentino al cento percento. Una città che, nonostante i successi, non sembra mai averla portata in palmo di mano.
Io lo ammetto: sono un vulcano. A volte sono umorale. Però i progetti li seguo, li porto a termine… E pago! Piacenza è una città di “villani”, su, di gente chiusa. Ma anche Cremona, in fondo, è così. Tutti attaccati al grano, tutti a difendere il proprio orticello. Ma porca miseria, ho sempre frequentato ministri, politici, industriali, produttori. Conosco tutti, ma a Piacenza, niente. Il cinema, qui, è solo il cinema di qualità di Bellocchio. Marco è bravissimo, per carità, ma io ho sbancato ai botteghini, non esiste un solo modo di fare cinema. Qualche tempo fa c’è voluto Claudio Bisio a donarmi, nella mia città, il tributo del pubblico della Filo: “Piacentini, avete qua un fenomeno, applauditelo, no?!”. Io amo Piacenza, ci vivo bene, ma…
Ma?
Ma non ci combini nulla: il teatro e la cultura, da noi, sono in mano alle stesse persone da sempre. Io il meglio l’ho fatto a Genova, a Milano. Con Berlusconi, per dire.
Ecco, nel 1986, la Silvio Berlusconi Communications diventa socio con lei, al 50%, nella Delta Srl, che gestiva le sale liguri.
Il trait d'union fra me e Berlusconi fu il grandissimo Carlo Bernasconi, l’unico uomo sulla Terra a cui permettevo di disturbarmi quando giocavo a tennis. Nessuno poteva disturbarmi quando giocavo a tennis alla “Nino Bixio” (storica società sportiva piacentina, ndr). Conobbi Bernasconi nella seconda metà degli anni ottanta, poi lui, in seguito, sarebbe diventato presidente della Medusa Film (prima Medusa Distribuzione), società del gruppo Fininvest creata nel 1995 per occuparsi di produzione e distribuzione di film, gestione di sale cinematografiche, home video.
Lei era aveva già prodotto vari film prima del 1995, ma la società con Berlusconi la portò al cosiddetto livello superiore.
Con Nuti avevo già fatto il botto, le mie sale già andavano a gonfie vele. Ma mi piacerebbe anche soffermarmi su tutti quei film per i quali oggi dovrei essere ricordato di più.
Tipo?
Con Sergio Citti ho fatto “Mortacci” (1988). “Storia di ragazzi e di ragazzi” con Avati (1989), e poi “Donne con le gonne” (1991), “BIX”, sempre con Avati (1991), “Belle al bar” (1994). Ma ne ho fatti tanti. Quello con Berlusconi fu un incontro storico, ma poi, per stare a suo fianco commisi un errore tremendo: dissi di no alla Paramount, che, dopo “Belle al bar”, si fece avanti offrendomi il 5% della società.
Nel 2001, prematuramente, Bernasconi morì, e anche le sue sorti con Berlusconi cambiarono.
Ero legatissimo a Bernasconi. Berlusconi era già entrato in politica da un bel po’ e questo aveva modificato alcuni equilibri. Tra l’altro, prima del 1994, mi era anche stato proposto di entrare in politica con lui, ma – sono sincero – ai tempi non ci credevo e declinai. Ero convinto che Berlusconi non avrebbe superato il 7%.
Torniamo a Bernasconi.
A Roma, parlando con i ministri, mi presentava come “il signor Leopardi”. Nel frattempo cambiava anche il cinema, di colpo mi trovai ai margini e cominciai a rimpiangere di avere detto di no agli americani.
È stato quello il suo più grande errore?
Non ho mai saputo fare affari veri. A Berlusconi, i pacchetti di film da trasmettere in tv li ho venduti a prezzi stracciati. E, andando ancora più indietro, i metanodotti li ho venduti a un ventesimo del valore. Stessa storia con le sale cinematografiche. Non sono considerato un grande industriale. So di essere stato, a volte, poco lungimirante. È per questo che non ho mai avuto troppo tempo da perdere con i fanfaroni.
Ma non era meglio lasciare perdere qualche affare e concentrarsi sui film? Dopo tutto non andava male col cinema prodotto…
“E infatti sono ancora dentro il cinema, dentro i progetti. Soprattutto, sono ancora rispettatissimo, e sa perché? Perché, piuttosto a scapito mio, non ho mai lasciato in giro debiti”.
Cosa combina quindi oggi?
Ho in ballo tre film prodotti – fra i quali un progetto ambizioso su Bud Spencer e Terence Hill –, un film solo in distribuzione (“Anemos”) e un libro di Domenico Monetti e Luca Pallanch in cui si parla anche di me. E poi questa mostra, a cui tengo molto, per la quale è già stato allertato Steve Della Casa. Sarà un “Festival del cinema in pellicola”, in cui proietteranno alcuni miei film, in mezzo a tanti ospiti (Ricky Tognazzi, Isabella Ferrari, Pupi Avati, Claudio Bisio, Alessandro Benvenuti, Ugo Chiti, forse anche Enrico Vanzina).
Ma davvero non rimpiange di essersi trasferito a Roma in pianta stabile?
Mah… Quando abitavo in via Margutta andavo in giro in Vespa per la città con le attrici sul sedile posteriore. Ma non ho mai amato la vetrina, i riflettori. Tutte cose che creano equivoci. “Leopardi si dà un mucchio di arie perché si porta in giro le attrici in motorino”, dicevano, le solite lingue lunghe. Ma quali arie! Odiavo l’auto, tutto qui!
Senta, ma il cinema italiano perché è finito così in rosso?
Perché, tolto Aurelio De Laurentiis, tutti gli altri facevano film su film creando montagne di debiti. Sale che non pagavano la SIAE, attori che scucivano cifre folli su film che poi incassavano zero, anticipi da capogiri. In Italia il cinema, in certi periodi, l’hanno fatto tutti. Era sufficiente girare, fare un mucchio di debiti e poi fallire. Così non avrebbe potuto funzionare a lungo.