Se “Cinema speculation” dovesse essere ridotto a un unico concetto-guida che scavalca addirittura il cinema medesimo e l’arte in generale, questo concetto suonerebbe più o meno così: il vero amore non tollera menzogna. Pubblicato lo scorso novembre 2022 da Weidenfeld & Nicolson negli Stati Uniti e nel Regno Unito – da noi arriverà presto, tradotto dai pirati de La Nave di Teseo – è la lettera d’amore di Quentin Tarantino al cinema che lo ha formato. Di scena – ora solo citati, ora minuziosamente analizzati – classici e film minori dei Sessanta e dei Settanta, fatta eccezione, ad esempio, per quel “Sentieri selvaggi” (John Ford, 1956) che aleggia come un fantasma, solenne ma dispettoso, lungo buona parte delle 391 pagine del volume. E che c’entra la menzogna? Beh, in un’epoca in cui il cinema sembra spaventato dal proprio enorme potenziale espressivo (oddio, e se sono, ehm, sconveniente, cosa succede?), Tarantino scrive di film, registi, attori che se ne sbattevano le palle di tutto o quasi. C’era chi cercava di sfilare il dollaro facile a un pubblico poco pretenzioso, chi invece cercava il plauso cosciente del connoisseur. Chi provava a fare entrambe le cose. Tutti, comunque, pretendevano aggressivamente un pubblico: con ogni mezzo, ad ogni costo. Armati di una fiducia spropositata nel potere della pellicola, tanto da far balbettare di gioia – sì, quel balbettio eccitato che è più una frenesia, frenesia di dichiarare un amore, una passione; alla Scorsese, alla Woody Allen, per intenderci – il nerd feticista Quentin Tarantino. Che in “Cinema speculation”, lo ripetiamo, non mente.
Non ci sta a gettare una luce diversa su quel cinema pericoloso e scatenato che ha amato. Non ci sta a dire, per tenerci tutti zitti e buoni, che era un cinema equilibrato, per consumati benpensanti. No, cacchio! L’amore pretende verità, anche se il cinema e il mondo, nel frattempo, sono cambiati. Così Tarantino ricorda che quando vide per la prima volta “Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!”, nel momento in cui il mirino di Scorpio inquadrava un tizio palesemente gay, in cinque, accanto a lui (incluso il patrigno Curt), sobbalzarono esclamando: “È un frocio!”. E se quell’esclamazione non era, né potrà mai essere, un simbolo di necessaria libertà espressiva, il ricordo di Tarantino è indicativo di come quel cinema, più selvaggio e meno filtrato, fosse capace di eccitare testa e pancia di chi lo ingurgitava. Perché il cinema, talvolta, lo si ingurgitava proprio. Due, tre, film in un solo giorno, uno in fila all’altro. Tarantino evoca pomeriggi e serate perdute, su e giù per Los Angeles, in un mondo – la sala – che era un universo a sé stante.
Traumatizzato da “Bambi”, Tarantino dipinge l’America che fu – e che stava diventando – leggendo fra le righe di pellicole arcifamose o nascoste. “Dirty Harry”, per dire, è un film politico perchè “cucito per l’audience a cui era destinato: americani non più giovani, frustrati, che non riconoscevano più il proprio Paese”. No, non è l’America perduta di Bill Bryson, quella che intende Tarantino. Il cinema di quei tempi forse, oggi, è un’America perduta. Un veicolo potentissimo in grado di descrivere le realtà, al plurale, meglio di qualsiasi saggio di sociologia. Un cinema che si misurava con i tabu (lo stupro maschile di “Un tranquillo weekend di paura”) calandoli in contesti ambientali e sociali iper-popolari. Un cinema che sapeva divertire provocando. O perturbare divertendo. Perché per Tarantino “Taxi driver”, a cui dedica un intero capitolo, è anche una buffa commedia, non solo il delirio “anti” orchestrato da uno dei monumenti viventi della Nuova Hollywood, Martin Scorsese.
C’è insomma una forma di nostalgia, nelle pagine di “Cinema speculation”, che langue sotto la superficie consumata dell’esperienza. È quella, essenzialmente, che parla e sbraita. È il vissuto “applicato alla consuetudine cinematografica” di Tarantino che si fa sentire. Ora sghignazzando, ora ammirando l’innarrivabile coolness di Steve McQueen, ora inforcando gli occhialini professorali dell’intenditore vero. Di film, qui dentro, ce ne sono a damigiane. Ci si ubriaca, qui. Di visioni mancate e visioni godute. Di scontri – Dennis Hopper che intimidisce George Cukor mormorando un infelice “vi seppelliremo”. Di ipotesi (e se “Taxi driver” l’avesse diretto De Palma?). Di una Nuova Hollywood che prova a far fuori tutto il classicismo che l’aveva preceduta, ma che alla fine qualche sentiero selvaggio lo ripercorre volentieri (Scorsese e Peckinpah ammiravano smisuratamente Ford). “Cinema speculation” è un amore in vena di abbuffate. Vade retro, chiunque al cinema ci vada solo per Natale. Benvenuto a chi, di pellicole, non ne ha mai abbastanza e ritiene che Tarantino possa essere il miglior Caronte possibile, colui che ti prende per mano e… Sì, lascialo parlare, lascialo divagare. Lascialo navigare anche dove non si potrebbe. Lui una mappa ce l’ha, fidati. Piano piano ti ci riporta, verso quell’isola sfacciatamente giovane in cui ogni passione è amore. E poi, suvvia, può essere meno che straordinario un volume che dedica ventiquattro pagine a “Taverna Paradiso”?