Proprio durante la settimana di Sanremo, per la precisione l’8, secondo giorno della kermesse canora, saranno trentacinque anni che sto con mia moglie. Mia moglie che è tale, non “mia”, va bene essere anche inconsapevolmente inclini al patriarcato, intendevo che è mia “moglie”, dai, da ventiquattro anni, ma da trentacinque anni sta con me, questa senza scivolare nel rischio patriarcale non saprei come dirla, mi spiace. Trentacinque anni sono tanti, credo, senza neanche un giorno di interruzione, intendo, trentacinque anni di amore, complicità, scontri, sogni, progetti, delusioni, gioie, dolori, insomma, di vita, quattro figli che una dopo l’altro, prima Lucia, poi Tommaso, poi, insieme, Francesco e Chiara, hanno fatto di noi che eravamo una coppia una famiglia. Insomma, proprio durante la settimana di Sanremo, io in riviera, lei a Milano, succede quasi sempre così, maledetto Festival, festeggeremo a distanza trentacinque anni della nostra storia, una storia di monogamia. Ci siamo messi insieme che frequentavamo le superiori, diciotto anni a testa, e ci siamo arrivati a cinquantatré.
La monogamia, immagino, in sé, non ha i gradi della glamourness. L’ha spiegato, non tirando direttamente in ballo la glamourness, Niccolò Fabi nella sua Costruire, un vero gioiello, perché l’inizio di una storia è fuochi d’artificio, la fine è piatti rotti e lacrime, per il resto è un passo dopo l’altro, silenziosamente costruire, appunto, niente di cui riempire le pagine dei libri, le tracce dei dischi, i frame dei video. Quotidianità, verrebbe da dire, non fosse che però, nel tempo, la monogamia e le storie destinate a andare avanti, mentre lo scrivo scaramanticamente digitando le parole sulla tastiera del mio computer attraverso una cannuccia che tengo infilata tra le dita dei piedi, come il Daniel Day Lewis di Il mio piede sinistro, le mani portate a coppa sulle palle, le storie destinate a andare avanti sono sempre meno, delle coppie di nostri amici che si sono messi insieme nel 1988, questo l’anno in cui la nostra storia è iniziata, credo non abbia retto nessuna, il Covid a aver colpito come una tempesta quello che già era vacillante, a volte anche quello che appariva solido. Insomma, non dico niente di così originale, parlare di monogamia, di coppie, è qualcosa che non ha alcuna allure, anche se poi ogni volta che racconto questa cosa che io e mia moglie stiamo insieme da così tanto tempo, sempre facendo il giochetto di dire che quando ci siamo messi insieme non era ancora mia moglie, sono un uomo fondamentalmente banale, vedo occhi sgranati di meraviglia, sento commenti pieni di sorpresa, a tratti anche di ammirazione, l’idea di una vita avventurosa, anche sul profilo sentimentale, per non dire di quello fisico, ha da sempre tutta un’altra narrazione, ben più compiacente, lo dice uno che collabora da anni con un network che ha come slogan “very normal people”, ma che come tutti i media non fa che raccontare storie di corna, di rotture, di inizi, quella roba lì. A questo tema, alla monogamia, e più in generale allo stare insieme da tempo, al crescere insieme, Dio santo se penso a quanto eravamo diversi io e mia moglie quando ci siamo insieme mi viene quasi da non riconoscerci, a come cambia un rapporto, le dinamiche, gli equilibri, come si tenda a vedersi come un insieme pur rimanendo categoricamente dei singoli, non sono state dedicate molte canzoni, lo dico con il rammarico di chi ha scelto, non trentacinque anni fa, va detto, di dedicare la propria vita professionale o parte della propria vita professionale a scrivere e scrivere prevalentemente di musica. Per dire, parlavo di come io e mia moglie si sia cambiati nel tempo, ora parlo solo di me, trentacinque anni fa pesavo cinquantanove chili, sì, cinquantanove, ora vado temo per i novanta, pensavo che da grande avrei seguito le orme di mio padre, andando a fare l’impiegato in qualche azienda pubblica o partecipata, mentre vi sarà chiaro che la faccenda ha preso altre pieghe, soffrivo, senza saperlo, di attacchi di panico, questo l’ho capito solo quando a un certo punto ho smesso, suonavo e cantavo e non avevo mai messo piede a Milano, città che, così, per puro pregiudizio, mi stava abbondantemente sul culo (stare sul culo è una espressione che trentacinque anni fa non avrei neanche saputo decifrare, tipicamente milanese quale è). Ne ho parlato spesso, con artisti miei coetanei, lamentando il fatto che in pochi si prendano la briga di raccontare come i rapporti cambiano, come si guardi ai sentimenti, toh, anche al sesso, in maniera differente, come le scintille adolescenziali, che da sempre occupano militarmente i testi delle canzoni, siano decisamente meno interessanti, almeno per chi adolescente non è più, di quel che la vita ti presenta poi (Fabi, per dire, raccontando però una storia che finisce, nel brano Una mano sugli occhi prima parla di “baci sotto il portone” e poi di “mano sugli occhi prima del sonno”, entrambe immagini piuttosto precise), al punto che finisce sempre con me che mi ritrovo a citare i versi immensi di Ivano Fossati che nella sua Un natale borghese certifica quanto sto dicendo in queste poche parole “È un giorno freddo e chiaro e non sono invecchiati i tuoi fianchi perfetti/ tutte le leggi dell’universo insieme che potevano fare?”, altro che Diane Keaton nuda in Tutto può succedere.
Lo so, sto divagando, lo faccio da sempre, o almeno da quando ho capito che in effetti potevo farlo, i vantaggi, anche questi, dell’essere invecchiati, magari anche di essere invecchiati bene. Il fatto è che nessuno, o quasi, nel tempo, si è preso la briga di cantare storie di amore monogamo, storie che durano nel tempo, che ci provano, anche a fatica, superando la barriera della routine, la costruzione di Fabi che però non prevede un finale, se non quello ineludibile.
Lo ha fatto, e questo potrebbe incrinare il mio discorso fino a farlo crollare in pezzi a terra in un nonnulla, Povia con la sua Vorrei avere il becco, canzone che incredibilmente ha vinto il Festival di Sanremo, sempre lui, nel 2006, anno nel quale festeggiavamo diciotto anni insieme, io e mia moglie, a Milano, dopo essere stato in riviera per supportate il mio amico Francesco Renga l’anno precedente, poi vincitore con Angelo, quell’anno decisi di non andare, erano anni nei quali mi stavo momentaneamente allontanando dalla critica musicale applicata a quotidiani e magazine, dedicandomi in toto ai libri, incredibilmente non perché ci fossero quell’anno in gara chissà quali canzoni, a parte Irraggiungibile di L’Aura, Dio quanto era bella questa canzone, e Com’è straordinaria la vita di Dolcenera, toh, Svegliarsi la mattina degli Zero Assoluto e Che bella gente di Cristicchi, credo di non ricordarmene neanche una, incredibilmente perché quella vittoria arrivava dopo il botto di I bambini fanno oh, canzone decisamente più centrata, e prima della catastrofe Luca era gay, che avrebbe poi lanciato Povia verso una deriva incomprensibile dalla quale non è mai più tornato. Ecco, essere rappresentati, come coppia che sta insieme da tanti anni, da una canzone di Povia, e per di più da una canzone di Povia che usa l’immagine dei piccioni, non esattamente animali sveglissimi, per provare a allestire un paragone con le due unità che formano una coppia, i nonni in campagna, compresa la nonna che tante volte, non viene detto così crudamente ma questo è il punto, scopando col nonno pensava a qualcun altro per farselo andare bene, è qualcosa che mi sconcerta. Non fino al punto di mettere in dubbio il mio voler rimanere parte di questa coppia monogama, coppia che ha retto ben altri attacchi esterni, trentacinque anni di vita, tra lutti, stravolgimenti, tentazioni, difficoltà, presenta sempre occasioni ghiotte, io poi lavoro nel mondo dello spettacolo, figuratevi, ma comunque una di quelle prove che poi, nel caso ti ritrovassi a scrivere di nuovo del tuo essere da tanti anni parte di una coppia, tireresti in ballo come prova cui ha resistito, nonostante tutto, lutti, stravolgimenti, tentazioni, difficoltà, Povia che canta Vorrei avere il becco. Non perché io non abbia apprezzato il tentativo di raccontare qualcosa che in effetti sembra non essere mai messo a fuoco, inquadrato dai radar, manco fosse una di quelle malattie rarissime che se ce le hai ti devi mettere il cuore in pace, nessuna casa farmaceutica si prenderà cura di te, solo che il modo in cui lo ha fatto, con tanto di verso del piccione inserito nella melodia, e quel che soprattutto Povia ha fatto dopo ha reso questo passaggio quasi imbarazzante, come se a prendersi cura di te fosse, che so?, una qualche figura discutibile della nostra vita privata o pubblica. Del resto, pensateci, anche la parola matrimonio sembra quasi una grande assente nei testi delle canzoni, salvo pochi e rari episodi, al punto che spesso, vuoi proprio per questo fatto di essere diventata cosa rara, vuoi per quella forma di ammodernamento che sembra rendere tutto ciò che sia in qualche modo riportabile a un modo di vivere che era in tutti i casi già presente nel passato come superato e quasi cringe, si tende a parlare di mogli e mariti come compagni, anche laddove moglie e mariti siano. Figuriamoci che io sono sposato in chiesa, e a sposarmi è stato addirittura mio padre, che è un diacono, mi piace vincere facile sul fronte dell’originalità.
Ora, siamo sotto Sanremo e mi troverò a festeggiare a distanza i trentacinque anni di vita con mia moglie, arriva una canzone che non parla di un matrimonio, ma di una storia che dura da tempo, mettendo sul piatto tutte quelle dinamiche, difficoltà e equilibri che appunto lo stare insieme in monogamia comporta. È una canzone che tratta un argomento che gli stessi autori/interpreti, parlo dei Coma_Cose, che sono California e Fausto Lama, al secolo Francesca e Fausto, coppia nell’arte e nella vita, hanno descritto come “fragile”, una crisi piuttosto importante avuta subito dopo l’esordio sanremese, sempre lì, del 2021, con Fuoco negli occhi, l’uscita dell’album Nostralgia e il conseguente tour, una crisi dovuta, immagino, anche a quel lavorare insieme al proprio partner, il pubblico che sconfina nel privato, il successo che assorbe come è naturale che sia ma non dovrebbe essere naturale che sia, un allontanamento che avrebbe potuto preludere all’addio, incorniciato nel titolo del brano, ma che fortunatamente è stata una ipotesi non presa poi in considerazione, i Coma_Cose e Francesca e Fausto ancora tra noi. Una canzone che tratta un argomento fragile, certo, ma lo fa con una solidità che, da vecchio monogamo, leggo come un augurio, una scrittura cantautorale matura, precisa, sia sul profilo compositivo che testuale, una spartizione delle parti oculata, California a farla un po’ più da padrona, una sincerità che oggi come oggi, in un’epoca in cui apparentemente tutto è alla luce del sole, ma in realtà si lavora sempre di filtri e storytelling, tutto esposto ma in vetrina, ma sul serio, appare come un altro gesto punk di chi in fondo è mainstream nei risultati non certo nell’attitudine. Rincuora, Povia o non Povia, sentire artisti che si mettono in gioco confrontandosi con l’anagrafe, certo qui il discorso immagino valga più per Fausto, che di anni ne ha quarantuno, che Francesca, che ne ha trentatré, affrontando con sincerità il passare del tempo, quel vivere che deve, si spera, fare i conti col crescere.
L’addio è una canzone importante, solo in apparenza lieve, la composizione appare scarna, almeno nella versione di studio, senza cioè l’orchestra diretta dal maestro Vittorio Cosma, ma tutto quel che deve esserci è lì, finezze usate con quella sapienza che l’affrontare la musica, anche la musica, come una cosa seria ti porta a prendere sempre in considerazione. Non quindi un pulire i panni sporchi in piazza (che poi di panni sporchi non ce ne sono, semmai panni intimi), quanto piuttosto un giocare a carte scoperte, mettersi a nudo con la volontà di non apparire mai finti, ipocriti, una coppia che parla di vita di coppia, altro che Rosa Chemical e le sue stravaganze a base di poliamore e copertine ideate con la sex worker Alex Mucci per OnlyFans, è L’addio il vero gesto provocatore di questo Sanremo 2023. E poi c’è chi dice che il punk è morto...