Mentre nel mondo dell’informazione ci si affanna a capire come sfruttare al meglio social e algoritmi, impostazioni SEO e le nuove frontiere del digitale – il tutto nel bel mezzo di una pandemia – in Italia da quasi un anno è nato un nuovo giornale cartaceo. Parliamo di Domani, creato per volontà dell’imprenditore Carlo De Benedetti dopo le note vicende che lo hanno portato all’estromissione da Repubblica. Ma quello che inizialmente poteva apparire un capriccio di un magnate, ex editore del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, ora risulta una delle realtà più vivaci sul mercato che, non solo è presente nelle edicole di tutto il Paese, ma riesce spesso a creare dibattito e sollevare questioni di interesse pubblico attraverso inchieste e analisi.
Il merito, oltre alla squadra di professionisti che compone la sua redazione, si deve a un direttore giovanissimo (per gli standard italiani) che ha puntato sulle notizie, più che sulle opinioni, il click baiting, il gossip o le polemiche. Per questo abbiamo deciso di fare una chiacchierata con Stefano Feltri, classe ’84, giornalista economico che guida questa realtà formata da “quattro gatti”, come li definisce affettuosamente, che riesce a tenere testa a competitor decisamente più strutturati. Non è comunque un’operazione nostalgia, visto che il quotidiano ha un sito aggiornato, i podcast, ha avviato newsletter tematiche e quant’altro, ma di certo la scelta della carta è una sfida in controtendenza che merita di essere approfondita.
Ne abbiamo approfittato anche per chiedergli cosa ne pensa di alcune questioni di più stringente attualità. Dai pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere («il ministro Cartabia ha rassicurato tutti, tranne i detenuti su future violenze ingiustificate»), al Ddl Zan («anche se non passasse ha reso il problema delle discriminazioni molto evidente»), alla sua proposta di Concordato Ferragnez-Stato, che a suo dire ha la stessa natura del conflitto di interessi di berlusconiana memoria, passando a Matteo Renzi «che ormai è un imprenditore di relazioni che sfrutta l’essere in Parlamento per aumentare il proprio valore di mercato» al fallimento dell’operazione Conte «che rimanendo nel M5s ha accettato la leadership di Grillo e in subordine Di Maio», fino a Giorgia Meloni «che nonostante la crescita nei sondaggi è consapevole di avere una classe dirigente debole» o a Berlusconi «che ha zero possibilità arrivare al Quirinale, ma cerca comunque di essere riabilitato politicamente». E ancora, lo sblocco dei licenziamenti («quelli di questi giorni sono spesso strutturali, più che ciclici»), il Green pass («se non facciamo qualcosa a settembre ci ritroveremo altre misure restrittive») e la transizione ecologica, che ha portato l’Ue a proporre il blocco di diesel e benzina entro il 2035 («l’equivoco è pensare che un passaggio epocale avvenga senza conseguenze dolorose»). Infine, su temi più giornalistici, ha risposto a chi dopo tanti anni al fianco di Marco Travaglio aveva parlato di contrasti fra i due («fisiologiche dinamiche nel rapporto tra esseri umani») e si è sbilanciato su chi sia il miglior giornalista italiano, in questo caso la migliore: «Selvaggia Lucarelli».
Direttore, partiamo dal vostro essere una apparente anomalia: un giornale cartaceo nato nel 2020 in controtendenza e nel bel mezzo di una pandemia. Perché sta funzionando Domani?
Siamo entrati in un settore morente, complicato, dove avevamo un unico vantaggio: cominciare da zero. Cioè, senza avere costi accumulati negli anni da modelli di business sorpassati. Ne stiamo vedendo i benefici, in particolare sul digitale. Siamo una ventina di giornalisti e facciamo le cose che altri producono in 150 persone. Non abbiamo un grafico impaginatore, non abbiamo una redazione dedicata solo al web, siamo “quattro gatti” e teniamo testa agli altri. L’altra caratteristica, che rivendico, è di aver puntato sul giornalismo di inchiesta e di analisi, perché se hai le notizie anche le opinioni che esprimi hanno più peso.
L’impatto state avendo è evidenziato anche dalle inchieste che vengono riprese da altre testate. Non sempre citandovi, mi pare di aver capito da alcuni suoi tweet polemici verso Repubblica e Corriere…
Può sembrare una bega tra giornalisti, ma se facciamo una analisi economica, il giornalismo di inchiesta è un bene pubblico che viene prodotto in quantità inferiori a quelle ottimali, perché i costi li pagano alcuni e i benefici invece li hanno tutti. Allora, non vogliamo che i nostri scoop siano letti solo dagli abbonati, ma chiediamo soltanto che venga riconosciuto ai colleghi che ci hanno investito tempo e professionalità e all’azienda che gli ha dato le risorse per farlo di essere citati. Non chiediamo tanto, alcuni lo fanno e altri non lo fanno.
È Repubblica il vostro principale competitor?
Credo onestamente che se a qualcuno piace ancora Repubblica, non penso che sia il tipo di lettore che può venire da noi. È stato un grande giornale, che però oggi rappresenta tutti i limiti del giornalismo di una volta, cioè di continuare a raccontarti quello che hai già letto on line con un grado di approfondimento inferiore ai siti specializzati. In più, soffre della maledizione dei grandi giornali generalisti, che sono costretti a dedicare venti pagine su argomenti che nessuno legge più.
C’è chi dice che Repubblica si sia spostata a destra.
Questi sono affari loro e ognuno può valutare se sono coerenti oggi con i loro valori di una volta. Di certo, hanno perso tanti collaboratori importanti e la loro identità è sicuramente diversa. Quel che mi interessa del loro posizionamento, perché di riflesso influenza il nostro, è che loro parlano a una generazione di baby boomer che sono conservatori, con figlie, nipoti e seconde case. È un’Italia che esiste ed è giusto che qualcuno la racconti, ma su tutti i grandi temi, dal cambiamento climatico alle questioni economiche alla politica, hanno un approccio coerente a un’altra generazione. È quella che compra i quotidiani di carta e nell’immediato può avere un beneficio, però noi ci rivolgiamo a persone che non si riconoscono più nel mondo progressista diventato ormai conservatore dopo aver conquistato posizioni che adesso vuole difendere. Noi parliamo agli altri.
Come guardate ai giornali di centro-destra? Libero, Il Giornale, La Verità. Pensate di riuscire a rubargli qualche lettore, oppure anche in questo caso sono difficili da smuovere.
La mia idea è che se fai cose importanti di inchiesta tutti sono costretti a leggerti. È difficile ignorare gli articoli di Giovanni Tizian, di Nello Trocchia, di Emiliano Fittipaldi, ma il discorso vale per quello che fa Giacomo Amadori a La Verità. Su questo siamo interessati a raccogliere tutti i lettori, ma senza fare compromessi sulla direzione della nostra bussola. Sulla questione dei vaccini, per esempio, non abbiamo concesso nulla alla pancia del paese, con una posizione razionale in base alle informazioni e senza inseguire le mode del momento. Non cerchiamo i loro lettori parlando il loro linguaggio, sono comunque i benvenuti se vogliono leggerci.
Prima lei era definito «travaglista», poi si è detto che ha lasciato il Fatto per incomprensioni con Marco Travaglio. Qual è la verità?
Sono stato al Fatto dieci anni, in seguito ho avuto l’opportunità di andare a studiare e lavorare in una grande università americana e accidentalmente era anche una scelta coerente con una situazione di vita, visto che la mia fidanzata lavorava in America. Ho colto l’opportunità e sarei rimasto ancora un paio di anni. Poi è arrivata l’occasione di fondare un giornale nuovo e coerente con le mie idee e diciamo che se trovi un giornalista al quale propongono di fondare il proprio giornale e ti risponde che non è interessato, forse è uno che non ha più voglia di fare il giornalista.
Con Travaglio quindi tutto a posto?
Travaglio ha le sue idee, io ho le mie. A volte siamo d’accordo, altre no. Comunque, non ho mai trovato qualcuno con cui sono d’accordo al cento per cento su tutto. È una persona con la quale ho lavorato tanto, che conosco da 20 anni e magari possiamo dare giudizi diversi su un personaggio politico, per il resto sono fisiologiche dinamiche nel rapporto tra esseri umani.
Chi è il miglior giornalista oggi in Italia?
Ho una grande stima di Selvaggia Lucarelli, che penso sia una delle migliori con cui ho lavorato. Sia come giornalista di inchiesta, che dal punto di vista del racconto del Paese. Se dovessi fare un solo nome direi il suo. Altri due in un campo diverso, sono Sigfrido Ranucci e Riccardo Iacona, che riescono a fare giornalismo di approfondimento e di inchiesta in tv, quando il rischio del piccolo schermo è di spingere verso la superficialità.
Su Domani userebbe mai la “schwa”, la ə capovolta al posto della desinenza maschile per definire un gruppo misto di persone come propone Michela Murgia?
Non ho una posizione netta né a favore né contro. Non è un vincolo che abbiamo imposto alla scrittura su Domani. Se qualcuno lo usa non ho nulla in contrario, anzi, abbiamo appena lanciato la posta del cuore di Giulia Pilotti che abbiamo chiamato “Parla con ləi” proprio con la “schwa”, affidando a una giovane di 28 anni il compito di interloquire con i nostri lettori su temi molto personali. Qui la grafica vuole dare il segnale che è uno spazio mentalmente aperto alle questioni di identità e di genere.
Passo all’attualità, riferendomi al suo editoriale di ieri sui pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere, che è stato critico verso il governo. Una frase mi ha colpito: «La penitenziaria non si tocca». Dopo tante parole, in realtà sono mancate le conseguenze?
Non ho visto neanche così tante parole. Ci si aspettava una cosa semplice, che quando c’è uno scandalo simile il ministro della giustizia raccolga tutte le informazioni e vada in Parlamento a dire cosa non ha funzionato e quali saranno gli interventi. Certo la ministra Cartabia non ha responsabilità dirette, ma quelle di rendere conto su quanto avvenuto sì. Quindi anche sulle parole sono stati scarsini. L’altro aspetto che sottolineo è che è stato un caso sottovalutato da questo governo, perché non si è messo in maniera preventiva per evitare che le inchieste scandalizzassero il Paese e che i detenuti rilevassero una sostanziale impunità del sistema che li espone a rischi di violenze ingiustificate. Abbiamo soltanto visto i governanti che si preoccupano di rassicurare la polizia penitenziaria.
Come mai?
Perché non è stato un caso che ha fatto emergere le solite “mele marce”, ma un sistema che ha al suo interno delle routine come la violenza sistematica ingiustificata. Per cui, hanno paura a dire che “la polizia penitenziaria ha un problema”, perché si potrebbe perdere il controllo delle carceri. Il timore è che la Penitenziaria gli risponda: allora gestitevele voi per 1000 euro al mese e in queste condizioni. Stupisce che non ci sia stata una sola parola di rassicurazione verso i detenuti.
Sul Ddl Zan, al di là delle polemiche e delle trattative politiche più o meno alla luce del sole, ci si chiede se alla fine riuscirà a passare. Lei cosa pensa?
Prima di tutto che è una misura che interviene sui singoli e che parte da un presupposto: in Italia c’è un problema di omofobia e di sottovalutazione delle difficoltà incontrate da chi non fa parte delle categorie standard. Quello che stiamo vedendo in Parlamento e sui giornali conferma che questa diagnosi era corretta. C’è un problema di gente che continua a trattare omosessuali, transessuali, persone in transizione ecc ecc in maniera diversa. Quindi, anche se il Ddl Zan venisse spazzato via, i promotori avrebbero ottenuto il risultato. Cioè, hanno costretto tutti a parlare per mesi dell’identità di genere e una parte del paese a rivendicare il diritto di discriminare gli altri. Hanno reso tutto molto evidente.
Nei giorni scorsi ha fatto discutere la sua proposta di un Concordato Ferragnez-Stato, cioè Fedez e Chiara Ferragni che attraverso i social esprimono quello che pensano su tematiche spesso molto delicate influenzando milioni di follower. Era solo una provocazione o crede sia necessario regolamentare gli influencer?
Fedez lo abbiamo invitato a interloquire con noi, lui ha scelto di non farlo preferendo usare i suoi 12 milioni di follower per attaccarci e dicendo anche delle falsità. Forse non ha letto l’articolo o non è in grado di capirlo. La provocazione era nella forma, citando il Concordato, ma era una proposta molto seria nel merito. Non si capisce perché era un problema che Berlusconi avesse tre televisioni con le quali raggiungeva qualche milione di persone a cui faceva passare le sue opinioni politiche, che coincidevano con il partito che aveva fondato, ma non è un problema se un imprenditore privato insieme alla moglie può raggiungere 40 milioni di persone. Ci preoccupiamo per la tv e non per i social, senza contare che Fedez parla di certi argomenti con grande disinvoltura e superficialità. C’è un bell’articolo di Selvaggia Lucarelli, dove segnala come durante la sua diretta non avesse neanche idea delle persone con cui stava parlando, figuriamoci del contenuto della legge.
Chi è ancora al centro del dibattito, nonostante i sondaggi lo diano in picchiata è Matteo Renzi. Prima fa cadere il governo Conte, poi fa discutere per i rapporti con Bin Salman, di nuovo si parla delle inchieste che riguardano lui e la sua famiglia, ora è entrato nel dibattito sul Ddl Zan. Pensa che stia lavorando per un suo futuro politico, oppure è ormai proiettato altrove?
Non mi avventuro a fare previsioni, però da molto tempo Renzi fa un altro mestiere. Da politico si è trasformato in imprenditore di relazioni che sfrutta l’essere ancora in Parlamento per aumentare il proprio valore di mercato. Non è che trovi consulenze e incarichi perché è un politico rilevante, lui fa operazioni politicamente rilevanti per ottenere incarichi e consulenze. È seguito dai media, viene visto come un king maker, ma ormai è un imprenditore che usa la politica, non un politico che fa consulenze.
Ora che ha trovato un accordo con Beppe Grillo, crede che Giuseppe Conte possa farcela a rinnovare il M5s sotto la sua guida?
Il fallimento dell’operazione di Conte è conclamata non avendo rotto con Grillo, il quale gli aveva detto che “è inadeguato, senza visione, non capisce la politica, è un burocrate” e lui è rimasto comunque accettando questi giudizi e facendo quello che non bisogna mai fare quando vuoi potere contrattuale. Ha minacciato di andarsene, gli hanno mostrato la porta e non se ne è andato. È evidente come nel M5s comandi Grillo, in subordine Di Maio che è stato il mediatore che ha evitato la rottura. Non sono le premesse migliori per una leadership forte di Conte.
Nel centrodestra, invece, Giorgia Meloni ha superato nei sondaggi Matteo Salvini. Sarà lei la leader e la candidata a premier di quella coalizione?
A me sembra che Giorgia Meloni, dalla quale mi divide tutto, sia una persona che si è mossa con grande prudenza. Non ha mai forzato le tappe o cercato di trasformare il consenso nei sondaggi in immediato potere elettorale, neanche nella scelta alle amministrative. È consapevole dei limiti di Fratelli d’Italia, un partito con crescente popolarità grazie a lei, ma che ha una classe dirigente molto debole. Per cui, che lei sia di gran lunga il politico di centrodestra in ascesa non significa necessariamente che lei voglia diventare premier. Sarebbe un rischio enorme con benefici tutto sommato limitati. Sicuramente cresce, vedremo quando il tutto sarà misurato in termini di voti e come sceglierà di usarlo. Però non vedo automatismi tra la popolarità e il candidarsi premier.
Mentre invece le ipotesi di Silvio Berlusconi al Quirinale come le valuta, fantapolitica o qualche possibilità potrebbe esserci?
La possibilità che succeda è pari allo zero, per ovvie ragioni anagrafiche e biologiche. Si è ripreso dalle sue vicessitudini sanitarie, però è una figura stanca e affaticata che non appare più in pubblico. Se guardiamo al merito le possibilità stanno a zero. Però c’è qualcosa che gli interessa molto di più, cioè l’essere presente nella partita del Quirinale. L’ultima volta che il suo nome è riecheggiato nelle stanze del Parlamento è stato per la sua decadenza nel 2013 quando è stato cacciato per la condanna per frode fiscale. Per questo, lui vuole da sempre essere riabilitato, benché non abbia più problemi giudiziari che lo possono preoccupare, vista l’età, ma ci tiene a sentire che qualcuno lo vuole presidente della Repubblica perché lo fa contento.
Sul fronte dell’economia, dopo casi come Whirlpool e di altre aziende che hanno iniziato a lasciare a casa numerosi dipendenti, ci si chiede se fosse giusto sbloccare i licenziamenti o se si potesse ancora rinviare questa misura. Lei che idea si è fatto?
Che da un certo punto di vista, prolungare il blocco ha senso là dove la ripresa può essere più lenta. Abbiamo speso miliardi ogni mese per evitare che le persone vengano licenziate e appena l’emergenza è passata le facciamo licenziare, sono quindi soldi persi. Però, i casi che sono emersi in questi giorni non dipendono dall’andamento ciclico dell’economia ma sono strutturali. Whirlpool era in crisi da cinque anni. Purtroppo, su questo, o andiamo nella direzione di una economia socialista in cui nessuno viene licenziato, oppure è inevitabile.
Altra questione complessa riguarda il Green pass. C’è chi lo auspica per tornare a spostarci in sicurezza e chi invece lo trova una misura illiberale.
Abbiamo pubblicato interessanti analisi di chi è più preparato di me e ci sono moltissimi problemi di privacy, legislativi e burocratici intorno alla questione. Non si può sostenere soltanto il sì o il no. Detto questo, secondo me a un certo punto o si fa così, per dare un incentivo a chi si vaccina, oppure a settembre ci ritroveremo con altre misure restrittive. Non abbiamo ancora abbastanza vaccinati e la pandemia potrebbe tornare a fare danni.
Chiuderei sulla transizione ecologica, visto che è di ieri la proposta dell’Ue di bloccare la produzione di auto a benzina e diesel entro 2035. Ma è realizzabile?
Su questo tema c’è un grande equivoco, cioè che la transizione ecologica non abbia conseguenze negative. Invece è qualcosa di molto impegnativo e con costi elevatissimi. Qualcuno li dovrà pagare. O tutti lo Stato, oppure in parte e il resto bisognerà decidere a chi andrà a carico. Però aspettiamoci che il conto arrivi e a dover prendere scelte drastiche. Per cui è bene che cominciamo a ragionare sul fatto che, se prendiamo sul serio la crisi climatica, come è giusto fare, questo implicherà delle decisioni da prendere dolorose.
Ho letto che lei è un appassionato di moto e con i primi soldi da giornalista al Foglio si era comprato una moto di grossa cilindrata. Per caso si è fatto un regalo anche dopo aver iniziato la direzione di Domani?
In realtà non sono così appassionato, ho soltanto avuto per qualche anno una Ducati Monster. Anzi, mi hanno appena rubato il motorino due giorni fa a Roma e sono molto incazzato. Per cui è un argomento molto delicato…