C’è stato un tempo, non lontanissimo, se si inquadra l’umanità nel suo insieme, ma distante ere geologiche se si guarda al tutto a partire dal breve segmento che le nostre vite tratteggiano su quella lunga linea orizzontale che è la storia, nel quale alcuni baldanzosi situazionisti usavano le poste per fare arte, mail art il genere che praticavano. In sostanza consisteva nello spedire lettere o cartoline elaborate come piccole opere d’arte, opere d’arte che diventavano tali solo dopo l’atto della spedizione e che vivevano tutte nel vettore che va dal mittente al ricevente, la spedizione come certificazione del tutto. Un genere artistico che in genere procedeva per temi, sviluppati singolarmente lettera per lettera, con collage, francobolli fabbricati ad hoc, disegni, poesie inviate e anche musiche, in un sottogenere chiamato Sound Art, sviluppatosi attraverso un Tape Network, l’audiocassetta come strumento utilizzato. C’è un saggio del punk Stewart Home a riguardo piuttosto interessante dal titolo Assalto alla cultura- Le avanguardie artistico-politiche: lettrismo, situazionismo, fluxus, mail art, per chi volesse approfondire. I situazionisti erano personaggi stravaganti, genialoidi e antisistema, talmente antisistema che ogni due per tre si dividevano in sottogruppi, non appena veniva percepita l’idea che si stesse diventando troppo organizzati, personaggi che non guardavano all’arte come a qualcosa da praticare per fare business, quanto piuttosto per veicolare messaggi, preferibilmente non comprensibili a prima vista, mentre digitavo avevo erroneamente “a prima vita”, il mio subconscio è molto più situazionista di me, cosa c’è di più coerente con questa visione che lo spedire lettere e cartoline? Chiaramente, chi praticava mail art aveva una concezione dell’arte piuttosto singolare, nel senso letterale del termine, opere d’arte uniche, singole appunto, non replicabili, che avessero per di più un solo spettatore alla volta, quanto di più lontano da un’arte che ambisca a essere mero intrattenimento, ancor più a un’arte che sia pure genere di consumo.
Oggi lettere e cartoline non se ne ricevono più. Le ultime che sono transitate nella mia cassetta delle poste, probabilmente, erano le cartoline dei compagni di classe dei miei figli, qualcosa di esotico, per loro, segno di un’amicizia in costruzione. I postini passano quando vogliono, praticamente mai, a volte lasciando i bigliettini che rimandano a raccomandate, senza neanche star lì a citofonare, per il resto, da che le bollette ci finiscono direttamente nello smartphone, dentro le specifiche app, è tutto una consegna di pacchi e pacchettini da parte di siti preposti all’e-commerce, niente spazio per la mail art. Impensabile che siano le mail, o i messaggi transitati dai vari Whatsapp, Telegram o Messenger a sostituirle, sul fronte mailing art, lo dico nel caso aveste ricevuto qualche foto del cazzo inviato da un utente sconosciuto e ve ne stiate chiedendo ragione. Quella non è arte, è semplice molestia. Con il passaggio delle poste da servizio pubblico di ampio respiro a passaggio irrilevante della nostra quotidianità la mail art è sparita, ma in fondo non era di questo che intendevo parlare oggi. Almeno non del tutto. Passo infatti a parlare di musica. L’idea che possa esistere oggi un cantante che scommetta su una musica che non sia di consumo, quindi svincolata dai legacci piuttosto stretti imposti da Spotify e affini, sembra quantomeno improbabile. Tutto è in mano a un algoritmo antidemocratico, algoritmo che stabilisce quanto deve durare una canzone, a che Bpm, battito per minuto, debba procedere, quando debba arrivare il ritornello, su che frequenze si debba muovere l’armonia, quindi anche su che note giocare la melodia, tutto, volendo anche su che numero di parole si debba basare il testo, sempre che ci sia ancora qualcuno che presta attenzione al testo. L’arte, quella che in teoria dovrebbe essere il motore della musica stessa, genere artistico che prende il nome proprio da chi l’arte ispirava, le Muse, è relegata in un cantuccio, sempre che venga proprio presa in considerazione, l’idea di prodotto a occupare militarmente la scena. In una logica di numeri, gli stream, per certi versi anche i biglietti dei live venduti, guardare a una specie di porta a porta, chissà se qualcuno ha mai pensato di declinare la performing art al suonare il citofono, è oltre il concetto di utopico, talmente naif da superare la tenerezza per entrare quasi nel fastidio. Siccome però io non mi occupo di numeri, ho fatto il Classico, ma di musica intesa come arte, vuoi che ora non mi metta a raccontarvi di più o meno giovani artiste/i che hanno deciso di provare a aggirare quel meccanismo, o farlo proprio, stando nel flusso, quindi, ma senza sottostare al giogo, quindi facendo arte che incidentalmente possa anche funzionare, e se solo la gente fosse più distratta funzionerebbe eccome, ma senza tradire la propria natura d’arte. Parto da quello che, a insindacabile parere di chi scrive, è uno dei dischi dell’anno, seppur uscito quando l’anno è ormai in zona Cesarini, e anche se, per questioni legate proprio al mercato, sempre più stitico, è sì disco ma senza supporto fisico, Dio quanto odio l’idea di ascoltare musica senza supporti fisici, parlo di quel gioiello assoluto di After Verecondia di Marta Tenaglia. L’ho già scritto ai tempi del suo esordio, con Guarda dove vai, trovo che la cantautrice milanese sia una delle più talentuose artiste in circolazione in Italia, e circoscrivo lo sguardo alla sola Italia solo perché canta in italiano e quindi immagino sia con l’Italia che intende avere prevalentemente a che fare. Ha una scrittura tutta sua, storta, incisiva, con immagini che escono dai testi delle canzoni e vengono a abitarti militarmente il cervello, una voce singolare, riconoscibile, un flow, anche se canta lo fa seguendo istanze piuttosto contemporanee che con l’urban, almeno nel cantato, si confronta, davvero magistrale. Stavolta ha anche, praticherò adesso una forzatura figlia del patriarcato, perdono, le palle girate, e ha le palle girate proprio a causa del patriarcato. Perché After Verecondia è una vero e proprio manifesto in musica di una rinascita, quella della stessa Marta, e di una rinascita sotto l’egida di un femminismo consapevole. Le prime sei tracce di questo lavoro, nello specifico Circe, Allodole, Finestra, Marmo, Peccato e Anima infinita, impossibile fermarsi nell’ascolto, esattamente come sempre si dovrebbe fare con gli album che tali siano, sono una sorta di rapimento emotivo e mentale dell’ascoltatore, giuro che ci si ritrova in mondo altro, il suo, con continui colpi al cuore e al cervello, come in uno di quei videogiochi dove ci si mena. A rilassarsi, e vi giuro che è davvero mission impossible, arriva la settima traccia, che per sua natura sarebbe in realtà la più movimentata del lavoro, RNM, per poi riprendere con il terzetto finale, Bambi, con ospite Elasi, il già noto singolo Redemption/Incendio e Poetica/Manifesto, quasi sfiniti dall’intensità dei brani, dallo spessore dei contenuti, sempre veicolati da musiche che sanno di contemporaneità come solo certe produzioni internazionali, e da una voce che graffia e carezza al tempo stesso. Credo, come lo credevo e continuo a crederlo di Ventilatori e Invisibile, rispettivamente tracce 2 e 8 dell’esordio, che brani quali Circe e Allodole, 1 e 2 di After Verecondia, siano due capolavori, canzoni che se mai ci sarà un domani, parlo di musica come di umanità, verranno ricordate come perfetti fermo immagine dell’oggi, in arte e anche in cronaca, così come del resto succede con Peccato. Brani che ci sfilano la pelle, come un tempo i maestri cattivi facevano passando le bacchette con cui sculacciavano gli alunni somari sopra la pece, gettandoci poi sopra del sale, lo shock del dolore è a volte anche piacere. Allodole, poi, andrebbe studiata nei corsi di song writing, perfetto flusso di coscienza, le parole portate a spasso come una guida turistica in grado di tenere insieme una utenza che passa serenamente da tedeschi a giapponesi, passando per latinoamericani. Non so se anche quest’anno mi ritroverò a fine anno a stilare la classica classifica dei lavori più importanti del 2023, ma se così sarò, spolier, è After Verecondi che starà in vetta, senza se e senza ma. Una di quelle cicatrici che non possiamo smettere di fissare, passandoci sopra il dito per sentirne la trama, Ballard docet.
Sempre urticante, seppur dentro suoni che in partenza almeno sono più mainstream, è il nuovo singolo di Giulia Mei, cantautrice siciliana di stanza a Milano che col suo esordio, Diventeremo adulti, ormai del 2019, ci aveva già fatto vedere di cosa era capace, ma che col tempo ha in qualche modo spostato il suo raggio d’azione da un cantautorato tradizionale, il nome di Vecchioni evocato proprio in esergo di quel lavoro a indicarne le intenzioni, verso un pop elettronico decisamente molto personale. A ridosso del 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza maschile sulle donne, Giulia ha tirato fuori un brano che si intitola Bandiera, anche qui con una partenza che richiama l’idea del flusso di coscienza, parole che si incastrano come un domino velocissimo, urticando e stordendo (parlo di quel tipo di stordimento che un tempo avrebbero chiamato ebrezza). Una partenza per voce e piano, che subito si trasforma in altro, un racconto che presto diventa a sua volta un manifesto femminista, col claim “della mia fica farò una bandiera che brillerà nella notte nera” che splitta a metà il brano, presto trasformato nel clangore di suoni elettronici che si rimpallano con giri di piano classicheggianti, in una struttura assolutamente originale e spiazzante. Come del resto è spiazzante la copertina del brano, un primo piano delle mutande bianche, aderenti, indossate dalla stessa Giulia con su scritto Bandiera, a suo modo contraltare della cover di Allodole di Marta Tenaglia, lei nuda, su una roccia, il culo in primo piano, a sua volta spiazzante. Corpi che si elevano su una narrazione troppo spesso oggettificante, passando al ruolo di soggetto. Avevo iniziato a scrivere, giuro, pensando di passare poi a parlare di un altro album che in queste settimane sto ascoltando con una certa frequenza, a molto amando, Fuori onda del cantautore romano Lorenzo Lepore, classe 1997, che a suo tempo avevo conosciuto in quanto studente dell’Hub culturale Officina Pasolini. Ne avrei approfittato anche per denunciare lo scempio che proprio intorno a Officina Pasolini sta per compiersi, per mano della Regione Lazio. Officina Pasolini si trova infatti proprio di fronte al Ministero degli Esteri, in zona Farnesina, dentro un edificio che ospita non solo tutte le classi della scuola, ma anche il Teatro dedicato a Edoardo De Filippo, nel quale Officina Pasolini organizza praticamente quotidianamente eventi e incontri di alto interesse culturale, gratuiti per la cittadinanza, e al suo piano superiore presenta qualcosa come quattrocento posti letto che, in epoca di caro vita per gli studenti fuori sede, ricorderete bene tutti le tendine di Decatholn che hanno fatto la loro apparizione di fronte alle principali sedi universitarie delle nostre città più popolose, ancora lì presenti, per altro, sarebbero un ottimo viatico. Invece, qui la tragedia, la Regione ha deciso di regalare la struttura al Ministero degli Esteri, che ne farà altro, adibendo parte degli spazi aperti, che d’estate ospitavano eventi e che erano ottimo luogo di aggregazione, in parcheggi, prevedendo che la scuola si sposti, così, ex abrupto, nella palazzina di fronte, mandando quindi a puttane anni e anni di lavoro e di ristrutturazioni amorevoli. Un gesto suicida di una amministrazione che evidentemente ha deciso di rimangiarsi tutto quanto promesso, di questo avrei voluto parlare. E di Fuori onda, album che ci mostra un talento insolitamente maturo (era forse appunto dall’esordio di Marta Tenaglia che non mi capitava di ascoltare un esordio che non sembrasse tale, cioè che avesse sì l’urgenza dell’esordio, quindi anche il massimalismo di mettere uno a fianco all’altro brani che magari erano stati scritti in tempi ampi, ma al tempo stesso la maturità di chi è già particolarmente a fuoco, anche se qui siamo da tutt’altra parte, diciamo in zona Daniele Silvestri o Samuele Bersani, volendo fare paragoni anche altisonanti), canzoni che sanno di ironia e malinconia, spesso portate in giro a braccetto, la fotografia di una generazione che fatica a vedersi proiettata verso il futuro, e che anche rispetto al presente non è che si senta esattamente con tutte le carte in regola. Una scrittura che decisamente guarda ai cantautori romani miei coetanei, come forma, con una tenuta dei testi davvero encomiabile, brani quali Ci avete rotto e Vietnam da andarsi a sentire per capire di cosa sto parlando. Un nome assolutamente da tenere a mente, i suoi passaggi da Musicultura attestano che non sto dicendo in realtà nulla di particolarmente originale, nome cui avrei voluto affidare la chiusura di questo anomalo pezzo, iniziato parlando di artisti situazionisti che concepivano cartoline e francobolli come loro opere, per poi passare a parlare di After Verecondia di Marta Tenaglia, album top del 2023, le sue Circe e Allodole lì a sbatterci in faccia la sua idea di femminile e femminista, al pari di quanto Giulia Mei fa col suo Bandiera,“della mia fica farò una bandiera che brillerà nella notte nera” slogan di questa fine anno, toccando en passant la questione cruciale per il futuro di Officina Pasolini, a Roma. Ma credo sia troppa carne al fuoco, la stessa carne esibita nella cover di Allodole, o lasciata intravedere, evidente, sotto le mutande di Bandiera. Del resto ho ancora una volta onorato il mio ruolo di cantore del cantautorato femminile, in attesa che qualcuno prima o poi si prenda la briga di canonizzarlo (non vorrei doverlo fare io, mi occupo d’altro, tendenzialmente). Mi fermo quindi qui, consapevole che una via alternativa al mercato usa e getta c’è, e che basterebbe solo alzare un minimo lo sguardo per vedere la bellezza, già di suo messaggio decisamente prezioso da recepire.