L’ultimo libro di Andrea Bajani si intitola “Il libro delle case” (Feltrinelli), è nella dozzina del Premio Strega e – pensiero comune di molti addetti ai lavori – non dovrebbe faticare a entrare in cinquina. Poi, chissà… Quello di Bajani è un lavoro particolare. Si tratta di un libro a più livelli in cui il racconto del protagonista “Io” passa attraverso il racconto delle sue abitazioni passate. Pensiamoci un attimo: cos’è del resto la nostra vita se non la raccolta delle abitazioni in cui è andata in scena? L’amore, l’odio, la passione, il giorno, la notte, le lacrime, le risate. Il contenuto e il contenitore. Le emozioni e le case. Nostre, altrui, affittate, viste una volta e poi sparite nel nulla e certe volte soltanto immaginate. Siamo tutti la casa di qualcun altro. Siamo un groviglio di emozioni e i luoghi dove le viviamo ci aiutano a catalogarle.
Andrea, prima di tutto raccontaci come vanno le cose in Texas. Come procedono le vaccinazioni e se la vita sociale sta ripartendo.
L’America in questo momento è in una specie di grande contropiede. Dopo essere stata bollata per tutto l’anno pandemico di essere la peggiore del globo terracqueo, ora Biden vuole segnare la differenza tra sé e Trump. Qui offrono i vaccini all’angolo della strada, per così dire. Il grosso problema americano è se mai il rischio contrario: che siano milioni gli americani che non vogliono vaccinarsi. E che dunque il gregge immune sia numericamente più ridotto del branco libero e scorrazzante non vaccinato. Detto ciò, alla Rice University, dove insegno, siamo ormai tutti vaccinati, per cui tutto sta lentamente tornando in presenza. Anche se ammetto che a me non è fatto dispiaciuto l’insegnamento online.
"Il libro delle case" ci porta a ragionare sulle quattro mura che ci accolgono e danno riparo. Come è cambiato nell'ultimo anno e mezzo caratterizzato dalla pandemia il tuo concetto di casa?
Sai, io sono arrivato qui negli Stati Uniti pochi mesi prima che la pandemia esplodesse. Era il gennaio del 2020, ed eravamo senza casa. Abbiamo vissuto per un po’ in un Airbnb e poi abbiamo trovato casa pochi giorni prima che il covid chiudesse l’oceano. Ecco, per me la pandemia ha di fatto coinciso con quell’oceano chiuso. Più che chiudermi in casa, a me ha comportato l’opposto, l’impossibilità di tornare a casa, ovvero di tornare in Italia. Per questo per me la casa è sì nelle quattro mura ma è soprattutto un sentimento. Per certo posso dire che proprio in conseguenza alla chiusura pandemica dell’Oceano Atlantico mi è diventata sempre più chiara una faccenda lapalissiana: che l’unica mia casa è la mia lingua.
Come si racconta il contenuto attraverso il contenitore? Possiamo raccontare una vita attraverso le case dove questa si sviluppa e cresce? E dove nasce l'idea del libro?
L’idea nasce a Roma, mi viene da risponderti. Cioè nasce in fondo dall’aver fatto pace con la città in cui sono nato, in cui stava piantato tutto il mio albero genealogico. Anche gli alberi si ammalano, le radici si deteriorano e l’albero resta in piedi ma non ha futuro. Il mio albero genealogico ammalato mi aveva tenuto fuori da Roma per molti anni, era una città da cui in qualche modo scappavo appena vi mettevo piede per lavoro. E poi ci feci pace quando mi invitarono come borsista all’American Academy, al Gianicolo. Andai e rivedere la casa in cui ero nato, e che nel frattempo era passata di proprietà. La guardai da fuori più volte, come se lì dentro ci fosse ancora quel bambino che ero stato, come se potessi incontrarmi, parlarmi, salvarmi anche per certi versi. L’idea che tutti quelli che siamo stati abitino ancora dove abbiamo vissuto nelle diverse età ha a che fare con tutto questo.
Il libro è nato, cresciuto e terminato sempre nella stessa casa? Il luogo dove hai scritto ha in qualche modo influito sul processo di lavoro?
È stato un processo molto lungo e geograficamente molto diffuso. Le prime parole le ho scritte appunto all’American Academy di Roma, e le ultime nella casa di Houston dove vivevamo fino a poche settimane fa. Nel frattempo, ennesimo trasloco! Credo però mi abbiano influenzato soprattutto le due case romane dove ho vissuto dopo il periodo all’American Academy, dopo aver lasciato Torino – per quella riscoperta, e quel nuovo amore per Roma di cui ti parlavo. E forse, ora che ci penso, ha contato molto anche il fatto di cambiare diverse case mentre scrivevo, questa moltiplicazione dei paesaggi e dei teatri in cui andava in scena la mia vita quotidiana.
Una delle prime cose che colpiscono è la spersonalizzazione dei personaggi. C'è un protagonista "Io" anche se poi è narrato in terza persona, c'è Moglie, Madre, Padre... e via dicendo. Come leggere questa particolare scelta? Siamo chi crediamo di essere o siamo il ruolo che gli altri ci attribuiscono? Moglie a sua volta è un "io", che ha un "Marito", una "Suocera"...
Mi fa ridere che tu citi la “suocera”, che in America è mother-in-law e quindi molto meno connotata negativamente rispetto all’Italia. Se capisco qualcosa dei miei processi creativi, credo che più che spersonalizzare sia stato un voler dire una cosa molto semplice: quello che siamo, lo siamo in relazione a qualcun altro. Sono nomi relazionali più che non-nomi. Madre dice insieme una persona, ma soprattutto dice la relazione con dei figli, Padre lo stesso e così via. Credo che dentro questo libro ci sia questa specie di tela di ragno in cui tutti sono disposti da qualche parte e interconnessi. E poi c’è “Io”, che è il punto focale, o forse più semplicemente il ragno che va su e giù per quella tela, e misura la distanza tra sé e gli altri, tra sé e il mondo. Molte persone parlano di “distanza”, dopo aver letto il libro, e credo sia davvero la parola chiave. Parla delle distanze che cambiano tra noi e gli altri, e quella misurazione quotidiana ci dice se amiamo ancora chi ci sta accanto o se qualcosa è successo e non lo/la amiamo più.
Ci sono anche due personaggi "noti" che compaiono e sono “Poeta” e “Prigioniero”, rispettivamente Pasolini e Moro. Perché entrano nel racconto e quali sono le loro "case"?
Entrano nel racconto perché sono entrati nella mia testa nei primi tre anni della mia vita, cioè esattamente in quel periodo della vita che non si ricorda ma che ci determina in massima misura. E la scrittura credo vada sempre a pescare lì, è l’unico nostro emissario che ha accesso a quella pre-memoria, la scrittura è l’unica che conosce la combinazione per spalancare quella porta e mandare dispacci da lì. Quei due assassinii sono forse ciò che ha dato l’imprinting a una specie di senso dell’Italia: un luogo fatto di passioni, di ricerca di verità ogni volta depistata, di gentilezza e ferocia insieme. Il covo di via Montalcini dove Moro venne sequestrato, poi, era a pochi minuti di macchina dalla mia casa, e Pasolini camminava nelle stesse vie in cui io venivo spinto dentro il passeggino. Sono le tangenze ineffabili che segnano una vita.
Quando si pensa alle case passate si pensa subito a un discorso di "spazi" ma in realtà è anche un discorso di "tempo". Sei d'accordo?
Sì, io credo che le case siano proprio il posto dove il tempo è stato stoccato. Il tempo è invisibile, se ne vedono sempre e solo le conseguenze, ma è sempre quando è già successo. La ruga dice che il tempo è passato di lì e adesso chissà dov’è, lo stesso la polvere sui mobili, la perdita d’acqua che macchia il muro. L’unico modo per vedere il tempo nel suo succedere, è proprio frequentare il passato come se fosse il presente, cioè appunto mettere il naso dentro le case e vederci adolescenti o bambini. Scrivendo lo si può fare. La letteratura è un dispositivo per la percezione del tempo, è forse l’unico posto dove il tempo lo si può davvero maneggiare, toccare, annusare.
A proposito di Tempo tu dici che questo libro andrebbe letto con lentezza. Perché?
È vero che l’ho detto, e che lo penso, ma penso anche che leggere sia un atto che si fa con tutto il corpo, è un gesto naturale e dunque è bene assecondare gli istinti. Ma quel che intendevo dire è che la scrittura è un processo musicale, che ogni frase va gustata in ogni sua sfumatura. E che se si lavora sullo stile, la corsa oltre la frase lascia fuori molto di quello che da quella frase può invece sprigionare in termini di sensazioni non verbali. È come bere un vino molto buono a garganella o ingoiare un piatto di spaghetti. Non sono per il sommelierismo della lettura, perché è importante che ci sia fame e persino un po’ di brama. Però ecco, tra le pensose circonvoluzioni del bicchiere e la deglutizione pura c’è il tipo di lettura che mi piace. In generale poi dicevo che vorrei fosse letto con lentezza, perché oggi sembra che la velocità di lettura sia di per sé un indicatore di valore. Un hamburger da McDonald’s si mangia in un minuto e per una bistecca ci vuole più tempo.
Il catasto come catalogo emotivo delle nostre vite e dei nostri tempi. Ti va di approfondire?
In realtà non c’è molto da approfondire! Il Catasto è il grande catalogo di tutte le case. E le case sono il grande o piccolo contenitore delle vite delle persone, dei loro amori, delle loro preoccupazioni, esaltazioni, noie, allegrie, paure, ambizioni. Per cui l’idea che questo luogo esista – il Catasto – me lo fa pensare come la più affascinante biblioteca delle vite altrui.