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Tomaso Montanari: "Il governo
sbaglia: se fossi in guerra non vorrei
un mitra, ma azioni per la pace"

  • di Lorenzo Longhi Lorenzo Longhi

2 marzo 2022

Tomaso Montanari: "Il governo sbaglia: se fossi in guerra non vorrei un mitra, ma azioni per la pace"
Il no alla guerra dev’essere forte e chiaro, ma giù le mani dalla cultura. È in estrema sintesi il pensiero di Tomaso Montanari, rettore dell’Università per Stranieri di Siena, che dal suo osservatorio ci ha spiegato in che modo sta cercando di dare voce a tutti i tipi di dissenso, mentre qualche politico chiede invece soltanto le sue dimissioni. Il caso del corso su Dostoevskij, prima sospeso dalla Bicocca e poi riabilitato, ne ha aperti tanti altri che passano dalla musica (a La Scala di Milano) per arrivare agli Atenei italiani. E anche sulla scelta del governo italiano di inviare armi all'Ucraina è stato molto critico: “Se fossimo in guerra non vorrei che mi fosse dato un mitra, preferirei un’iniziativa internazionale capace di bloccare i combattimenti”

di Lorenzo Longhi Lorenzo Longhi

Contrordine: l’Università di Milano-Bicocca ha fatto retromarcia rispetto alla cancellazione del corso dello scrittore Paolo Nori su Fedor Dostoevskij, reinserendolo in calendario. L’ondata di indignazione e la conseguente figuraccia mediatica per una scelta insensata, forse ancor più dell’insensatezza della scelta stessa, ha suggerito all’istituto di cambiare direzione. Quanto accaduto, tuttavia, presta il fianco ad un’analisi sul ruolo di istituzioni fondamentali come quelle accademiche, tanto più in un contesto segnato dal conflitto. Ne abbiamo parlato con il professor Tomaso Montanari, rettore dell’Università per Stranieri di Siena, il primo ad invitare Nori a tenere i corsi banditi presso la sua sede.

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Tomaso Montanari, rettore dell’Università per Stranieri di Siena

Professor Montanari, per citare Bradbury: è giunto il momento di imparare a memoria i libri?

Spero di no. Quello che abbiamo visto in queste ore ha una storia: diciamo che c’è un’incomprensione sul ruolo dell’università. Io sono stato l’unico rettore italiano, nella conferenza dei rettori, a votare contro una convenzione con la fondazione Med-Or, una fondazione della Leonardo che è fra i primi quindici produttori mondiali di armi. Veniva proposta una serie di borse di studio finanziate con i soldi della fondazione, che vengono anche dalla vendita di armi. Ecco: io ho votato contro perché credo che l’università e i produttori di armi facciano mestieri diversi e abbiano fini diversi. Quando feci obiezioni in merito, mi venne risposto che anche le università devono difendere i valori occidentali.

L’Università come difensore di un pensiero politico?

La domanda è: quali valori occidentali? E poi, soprattutto, l’università esiste per modificarli, i valori. La differenza con i totalitarismi, come quello detestabile di Putin, è che non esistono valori dati: c’è la Costituzione e parla della libertà delle università, della loro autonomia, del valore del pensiero critico. Potremmo dire che le università sono il contrario del nazionalismo, non hanno nulla a che fare con i governi, non vi sottostanno, ed è la ragione per cui nella nostra università abbiamo rapporti con università turche, israeliane, cinesi, ma abbiamo anche convenzioni con la Marina militare italiana per la formazione del personale alla mediazione culturale. Facciamo il nostro mestiere, che è libero ed è solo al servizio della Costituzione italiana.

Oggi si assiste a una fuga da tutto ciò che è russo.

Che si sia potuti arrivati da parte del Cnr alla sospensione degli accordi di ricerca con le università russe o a bandire seminari di letteratura russa, al di là del ripensamento, è appunto legato allo smarrimento del ruolo dell’Università, ed è un problema più profondo. Andiamo alla sostanza, e qui parliamo di libertà culturale, di ricerca, l’indipendenza dal pensiero politico. Da quando sono rettore non so quanti politici e parlamentari hanno chiesto le mie dimissioni dimenticandosi che l’università non è sottoposta al controllo della politica. Il punto è questo.

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Lo scrittore Paolo Nori

Tornando al conflitto, che idea si è fatto della narrazione mediatica di ciò che sta succedendo?

George Orwell negli anni Trenta dello scorso secolo sosteneva che era impossibile scrivere in modo libero sulla stampa inglese perché i giornali erano condizionati dalle rispettive proprietà. Le pare che siamo in una condizione diversa? Di chi sono i giornali italiani, quali interessi difendono? Il problema non è solo il servilismo individuale, dei giornalisti come degli accademici ad esempio, ma soprattutto il precariato perché in certi contesti non si consente alle persone libere di esercitare la propria libertà, sotto il ricatto appunto della precarietà. Questo è un tema enorme, è un tema democratico, non solo economico e sociale.

Un’università per stranieri è un contesto interessante per leggere il conflitto.

Sulla homepage della nostra università stiamo cercando di dare voce al dissenso in tutte le sue forme. Abbiamo studenti russi, ucraini, studenti italiani che si trovano in Russia e stanno cercando di rientrare, studenti ucraini tornati in Ucraina e con i quali siamo in corrispondenza: la nostra è un’università internazionale per fondazione e quindi per noi è normale avere a che fare con tutti. L’università è e deve essere questo: una terra franca nella quale ci si incontra e si discute di tutto liberamente, dove ci si apre e dove si trovano idee. L’università è dissenso.

Che idea si è fatto del conflitto?

Questa è l’aggressione mostruosa di un tiranno probabilmente non più lucido e che, come tale, va contrastato nel modo più efficace. Il punto è quale sia il modo più efficace. Il New York Times ha scritto che la guerra è di Putin ma l’America e la Nato non sono spettatori innocenti. Nessuno dice che non sia responsabilità di Putin, ma esiste una responsabilità omissiva, quella di chi poteva evitare una situazione e non l’ha fatto. Mi pare però che si continui a sbagliare: pensare che il problema si possa affrontare prolungando di giorni l’agonia degli ucraini dando loro armi è sbagliato. Lo dico apertamente: toccasse all'Italia, io non vorrei che mi fosse dato un mitra, personalmente preferirei che ci fosse un’iniziativa internazionale forte capace di bloccare i combattimenti.

E quindi, cosa si può fare?

Si discuta di cose che possano fermare Putin, si facciano volare a Kiev la Commissione europea, i capi di Stato europei: la soluzione non è dare ai soldati una pistola. C’è questa retorica della resistenza ucraina e il sottotesto è che tanto i corpi che dovranno essere macellati sono i loro, non i nostri, perché non mandiamo i soldati ma le armi, e non mandiamo i soldati perché non si può scatenare una guerra nucleare, ammettendo che oltre tanto non si può andare. I morti che moriranno in queste ore per guadagnare tempo cosa sono?

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