Vasco Rossi compie settant’anni. Lo so, sembra una cosa impossibile. Di quelle che, se uno lo sa fare, ti permette di esibire l’inarcamento alternato delle sopracciglia, un po’ come faceva buon’anima di John Belushi nel film Blues Brothers, per convincere Carrie Fisher a non ucciderlo (in realtà lo faceva sempre, era un suo asso nella manica, ma mi andava di citare anche Carrie Fisher, fuori dal contesto di Guerre Stellari). Come è possibile che Vasco compia settant’anni? Ci deve essere un errore. Perché uno se lo immagina sopra un palco gigantesco, palco che lui percorre coprendone ogni metro quadro, dentro uno stadio a sua volta gigantesco, diciamolo, se uno se lo deve immaginare è bene che lo stadio sia San Siro, il cappello d’ordinanza, un giubbotto di pelle con qualche borchia, i pantaloni di jeans nero, le scarpe sneaker comode, che tre ore e passa di concerto sono tante, sempre a cantare, esclamare, fare gesti con le mani, guardare negli occhi i settantamila presenti e, soprattutto, cantare le sue canzoni, veri e propri inni per almeno cinque o sei generazioni, come può avere settant’anni. Io ne ho cinquantadue, e se provo a fare tre piani di scale ho il fiatone mentre a lui lo vedo tutti i giorni sulle storie del suo profilo Instagram che corre per le colline intorno a Bologna e Los Angeles, le sue città, lui che è nato in montagna, a Zocca, il 7 febbraio 1952, questo lo sanno anche le pietre. Eh, già, per citarlo, 7 febbraio 1952- 7 febbraio 2022, fa proprio settant’anni. Uno in meno di Claudio Baglioni, che sul finire degli anni Sessanta cantava Signora Lia stasera stai con mio marito. Uno in meno di Massimo Ranieri, quello che nel 1970 compra Rose rosse per lei e che Bruciasse la città da lei ritornerebbe. Ci deve proprio essere stato un qualche paradosso temporale, di quelli che mandavano ai matti gente come H.G. Wells.
Il fatto è che da una parte Vasco sembra esserci sempre stato, del resto nei suoi confronti si è generato un vero e proprio culto, paragonabile a quelli religiosi, pur essendo chiaramente un culto pagano, dionisiaco, il Vasco che ci viene in mente ha lo sguardo furbo, gli occhi cerulei che ammiccano da un grande schermo sul palco, appunto, le mani pronte a fare il segno romboidale di una figa, magari un reggiseno infilato nella tasca dei jeans, uno dei tanti che durante Rewind le fan delle prime file sono solite lanciare sul palco, quello è il momento liberatorio in cui si balla sulle spalle dei ragazzi, in topless, un vero culto religioso con tutti i crismi, i concerti come Sante Messe, lui officiante, certo, ma anche Dio e gli dei, è noto, non hanno età, dall’altra sembra una presenza molto più giovane di quanto l’anagrafe non attesti.
Sarà il rock, sarà quella capacità unica di intercettare le nuove generazioni, tutte le nuove generazioni, da quando nei primi anni Ottanta è entrato sfondando la porta del mainstream, la scena del microfono infilato in tasca e poi rovinato a terra sul palco dell’Ariston il momento dell’epifania, sicuramente, sarà quell’aver inventato una lingua capace di rendere semplici sensazioni che a grandi linee abbiamo vissuto e viviamo tutti, solo che per noi diventano groppi in gola e mal di stomaco, penso alla malinconia, alla rabbia, al sentirsi fuori posto, lui le trasforma in canzoni.
Le canzoni. Ecco, dai, vediamo le canzoni. Suonano troppo contemporanee per essere state scritte da uno che fa oggi settant’anni. Troppo in grado di identificare anche i dettagli invisibili a occhio nudo della contemporaneità. Pensiamo a Mi si escludeva, per dire, quel raccontare la polarizzazione cui ci stiamo tristemente adeguando un po’ tutti, il tenere gli altri, i diversi, dentro un recinto, metaforico o fisico, a debita distanza. Ah, no, Mi si escludeva è del 1996, Vasco era già il Vasco che riempiva da tempo gli stadi, esempio sbagliato.
Siamo soli, dai, questa è perfetta. L’incapacità di comunicazione, l’affievolirsi, non si parla mica solo di sentimenti, di riconoscersi in un senso comune di appartenenza, l’allontanarsi, al tempo stesso mesto e radicale, di quel sentirsi comunque parte di un noi, antagonista, ribelle, volendo anche deragliato, intonato come inno durante il tour immortalato nel Live Va bene va bene così. Cazzo, Siamo soli è del 2001, Vasco stava per compiere cinquant’anni, come lo Springsteen di Tunnel of love spostava l’accento ulteriormente sull’intimismo, senza mai cadere ovviamente nel melenso, e Siamo solo noi addirittura di venti anni prima, 1981, io frequentavo le scuole medie, John Belushi stava per abbandonare questo mondo, l’Italia era ancora una nazionale di calcio su cui nessuno avrebbe scommesso una lira, gli euro sarebbero arrivati molto dopo.
Del resto, ha esordito nel 1977 con Jenny e Silvia, Jenny pronta poi a diventare pazza, Gaetano Curreri degli Stadio al suo fianco, e lo sanno anche i sassi che Vasco non ha esordito da ragazzino, arrivato al cantautorato dopo aver incontrato un certo successo come speaker radiofonico e deejay nelle prime radio private, mi sa che almeno su questo dobbiamo proprio capitolare, oggi Vasco fa settant’anni.
E in effetti a ben pensarci, sì, Vasco è Vasco, quello che riempie gli stadi, quello che dentro quegli stadi ci porta nonni, genitori e figli, quello che usa parole semplici per dire cose complicatissime, e che per chi ancora lo vede come un cattivo maestro è invece lì a ripetere in loop sempre la stessa canzone, ma a guardare con un po’ più di attenzione la sua carriera, diciotto album di studio, il primo ...ma cosa vuoi che sia una canzone…, del 1978, l’ultimo, per ora, Siamo qui, di pochi mesi fa, ha attraversato più fasi di Picasso, solo che lui invece dei colori ha usato le parole, e le note. Quindi c’è il Vasco cantautore, quello rocker maledetto, quello arrabbiato, la rockstar conclamata, il capopopolo, l’esistenzialista, il Dio laico, tutte etichettature che immagino gli faranno orrore, la critica musicale ha il difetto di dover usare scorciatoie, usare la falce, basterebbe fermarsi sulle singole canzoni per vedere come sia passato dal raccontare storie di provincia usando stilemi e vocaboli che proprio al cantautorato attingevano, Jannacci, Guccini, facciamo un paio di nomi, certo col piglio di chi in quella provincia ci si muove davvero come un alieno, penso a Albachiara, a Fegato fegato Spappolato, due canzoni iconiche, stesso sguardo sul mondo, storie piuttosto diverse, comunque uno stile riconoscibile, tante parole, altro che “eh” e “oh”, tirati come sassolini per provare a infrangere il rosone centrale della sua chiesa dagli hater, a fermare dentro brani a loro modo epici i malesseri degli outsider, la già citata Siamo solo noi, C’è chi dice no, Liberi liberi, meno parole, forse, ma altrettanto efficaci, dettagli messi nella trama capaci di permettere a chi in quelle canzoni era raccontato di riconoscersi, segni identificativi, pensate al fare colazione con un toast, del resto. Una evoluzione, lessicale, di grammatica, che ha portato al rock spigoloso e ostile degli anni Novanta, quelli della consacrazione, certo, ma anche della rabbia, della disillusione che si faceva largo tra le trame, il noi, quel noi alternativo dal contrapporre al loro, gli integrati, che si sfilacciava, lasciando spazio alla solitudine. Depressione, chi altro ha cantato la depressione facendola poi cantare in coro a folle oceaniche, Imola, gli stadi, molti anni dopo i 230mila di Modena Park? Chi è riuscito a far cantare a quelle folle oceaniche la solitudine?
Vasco, ovviamente. Dalla voglia di bruciare la vita, come Steve McQueen al riconoscersi in quello seduto a fianco a lei sul divano, lei quella Laura Schmidt che lo sopporta, sì, diciamolo, non deve essere facile essere la moglie di Vasco, ormai da oltre trent’anni, cazzo, sempre di decenni si parla, la filosofia di Heiddeger, Sant’Agostino, lo so che ho tagliato via anni e anni di dischi e canzoni, ma questo mica è un saggio di filologia romanza applicata alle canzone di Vasco Rossi, come sia stato capace di passare da infilare dentro un testo milioni di parole a scriverne usando una manciata, penso a Come stai, è semplicemente una resa, la resa di chi scrive, che su Vasco tanto ha scritto, parlo di libri, e con Vasco ha tanto scritto, parlo di libri, ancora oggi a vedere il mio nome a fianco al suo, in libreria, mi sembra strano, la resa di chi scrive di fronte all’evidenza che gli anni passano e che oggi Vasco compie in effetti settant’anni, pare incredibile. E quando torneremo a vederlo correre avanti e dietro su un palco gigantesco, immagino sempre disegnato per lui da Giò Forma, la sua band da urlo tutto intorno, Vince Pastano alla direzione artistica, Stef Burns alla chitarra solista, Beatrice Antolini un po’ a tutto, Alberto Rocchetti alle tastiere e al piano, Frank Nemola alla tromba e alle macchine, Andrea Torresani al basso, la guest Claudio Golinelli, un tempo Galina, oggi il Gallo a sostituirlo per qualche brano, Matt Laug alla batteria, dal prossimo tour Andrea Ferrario, Tiziano Bianchi e Roberto Solimando alla sezione fiati, Diego Spagnoli a coordinare i movimenti di palco, intonare le sue canzoni, anche quelle del suo ultimo inatteso album, Siamo qui, quella che adesso è una perplessità, Dio mio quanto passano gli anni, diventerà vera e propria incredulità, come è possibile che quel rocker instancabile abbia infilata nel portafogli la Tessera Argento per gli sconti al cinema?
Del resto anche in questo Vasco è Vasco, uno che è cresciuto con noi, diventando via via più saggio, o semplicemente lasciando trapelare quella saggezza, prima frutto della vita di provincia, di chi sa che i piedi si trovano per loro natura in terra, poi frutto di un continuo star lì a guardarsi dentro le ferite, dove in fondo la vita per sua natura si manifesta, certo non lesinando ironia a palate, in quel suo essere provocatore per scelta, dissacratore per genetica, il rocchettaro che ha fatto pace con se stesso e i propri demoni, e sta provando a farci fare pace coi nostri.
Auguri, Vasco, speriamo di poterteli cantare presto in coro dentro uno stadio.