Ogni tanto Vasco Rossi, mentre si racconta, infila una di quelle sue frasi da “tutto e niente” e ti si apre un mondo. Ne “Il Supervissuto. Voglio una vita come la mia”, la serie prodotta da Netflix con la regia di Pepsy Romanoff (anche autore, insieme a Igor Artibani e Guglielmo Ariè), di questi aforismi sospesi tra autobiografismo e saggezza popolare ne troverete diversi, sebbene nessuno, forse, batta l’incipit: “Devo dirti una cosa, però, alla fine: se ci penso io non sono solo un sopravvissuto, sono un supervissuto”. Chi si occupa di Vasco, sia solo per scriverne quattro righe in un post social o un saggio che promette bollenti rivelazioni, deve partire da qui. O quantomeno fare propria soprattutto questa, fra le tante “verità di Vasco”. Che poi, lanciata così, subito all’inizio, significa anche spararla grossa. Perché poi, in cinque puntate da 50 minuti (circa) l’una, devi mantenere ciò che promette la storia di un “supervissuto”. La serie di Romanoff, chiariamolo subito, non tradisce. Parte cauta, ricalcando un po’ ciò che aveva indagato, con tono più meditabondo e intimista, “Questa storia qua”, docufilm del 2011 che recuperava innanzitutto il Vasco “umano” delle origini. In questa nuova serie Netflix, invece, quasi tutto è plateale e potente, anche le minuzie. Vasco si racconta spesso sostenuto da un montaggio che è esso stesso narrazione. La storia, una volta lontana dai monti di Zocca, si fa anfetaminica come una corsa sull’orlo di un precipizio. Poi rallenta, ovviamente. Vasco, si “vada al massimo” o ci si prenda una pausa pensosa, però è sempre lì, a pizzicare una corda mentre ci intorta per bene, come lui sa fare. Se guardi la televisione o il computer da lontano, distrattamente, potrebbe essere un Richard Thompson più in carne. E forse un po’ lo è, perché “Il Supervissuto” è la storia di un folk hero: Garibaldi ha unito l’Italia, e così Vasco, negli anni del successo commerciale, ha riunito gli italiani a San Siro. Italiani e basta. Che credevano in lui, soprattutto. Politicamente apolidi o quasi; passioni musicali poche, se non per il generico rock dell’insoddisfazione e della ribellione. E con una gran voglia di farsi popolo in anni in cui il l’identità del popolo si sfaldava perché dei sacerdoti e dei leader politici – i riferimenti di sempre – non ci si fidava (quasi) più.
Si parte da Zocca, obbligatoriamente, dicevamo. Dagli anni sgangherati e rustici di questo ragazzino esuberante che con la città non ha nulla da spartire. Nel 1975 approda a Punto Radio e di quell’esperienza Vasco dice: “Mettevo della musica che non mi piaceva, ma mi piaceva fare il dj”. Sincero, naif, Vasco. A lui viene più facile raccontare della prima abitazione in via Mauro Tesi che snocciolare titoli di brani e album “di altri”, le famose influenze formative. Gli viene sempre più naturale raccontare sé, perché Vasco è tutta autobiografia, filtra la sua vita attraverso una sensibilità in grado di donare a ogni suo aneddoto, a ogni sua tranche de vie, il profumo dell’universalità. Quando parla di Anna Maria, il primo amore di quando aveva sette anni, ci accompagna a casa sua, in via Tesi, ma anche dove quasi tutti noi siamo finiti. A sostenere lo stile de “Il supervissuto” c’è quindi tanta memoria, già interpellata in passato, ma anche i filmati d’archivio, le pellicole in Super 8. Quando Vasco inizia a fare musica sul serio, Bologna si prende gli spazi che erano stati dell’Appennino modenese. Il bar e il cinema di paese lasciano spazio alle piazze, ai primi concerti, al Vasco umiliato, preso a freccette di carta durante un’esibizione. Sono gli anni di passaggio, quelli più critici e incerti. Poi, prima del Natale del 1980, Vasco è ospite di “Domenica In”, canta “Sensazioni forti” e Nantas Salvalaggio, dalle colonne di “Oggi”, gliene scrive di ogni. Inizia il periodo del Vasco-bersaglio. Per chi osserva e giudica, lui è “brutto, sguaiato, drogato, ignorante”. Il peggio. Ma, anche in questo caso, dentro le vicende di Vasco c’è la storia e l’anima degli italiani. A Salvalaggio non risponde Vasco in persona, magari con un dito medio punk, bensì la madre Novella, con una lettera limpida, dignitosa e secca.
Vasco diventa rocker perché c’è un’Italia perbene che quasi gli impone, per contrasto, di essere rock. Il rock di Vasco, negli anni di “Colpa d’Alfredo”, “Albachiara” e “Siamo solo noi” è stato, soprattutto, l’adesione a quel set di valori/disvalori (tirar tardi e sperimentare con le sostanze) che identificavano la gioventù del tempo. Nulla che riguardasse un mondo “fuori da sé”. Vasco, intuitivamente e istintivamente, lo capiva al volo: la mia musica sono io, la mia vita, i miei tempi balordi, le mie deviazioni, la mia anima fragile che cerca di volare sopra le colline e superare il mortifero pendolo della ripetitività. Arrivano i successi. Spiegati da Gaetano Curreri (Stadio) e Floriano Fini, storico manager del Blasco. Ci sono tante testimonianze, ne “Il supervissuto”. Nessuna che si misuri con l’imperscrutabile complessità del personaggio, tutte che invece provano a spiegare il miracolo di un Vasco che vive, a tappe, una vita romanzesca che fin dall’inizio ha il piglio di una sceneggiatura. Quando finalmente i riflettori più potenti si accendono (“Bollicine”, 1983), c’è già tutta una storia da raccontare al grande pubblico che prima, o dormiva o criticava. Giunto all’appuntamento con il successo, Vasco non si deve inventare una vita spericolata posticcia, ma solo continuare a vivere quella già abbozzata. Lo arrestano, però (“Sono stato il capro espiatorio degli anni ‘80”). Grazie al carcere matura. Incontra Laura Schmidt, compagna di una vita. Lei, serena, non può altro che raccontare (terzo episodio) un Vasco tutto sommato fragile e normale a cui però riescono quelle capriole che a noi umani ci si spezzano subito due costole. A Vasco riesce, con enorme semplicità, di essere sé stesso. Che, per l’uomo comune, tritato da responsabilità e doveri, è sempre stata la somma sfida. Della musica che all’epoca gli girava intorno, nello specifico, non parla neppure quando, nel secondo episodio, parte una “Dimentichiamoci questa città” (1981) che ha l’aroma intenso di “Living after midnight” dei Judas Priest (1980). Maurizio Solieri, Massimo Riva, Guido Elmi: l’obiettivo della serie, di volta in volta, si apre su tutte le figure decisive che hanno contribuito a creare Vasco. Ma il centro è lui. E noi. Le canzoni in cui si rivolge dritto a noi (“Una canzone per te”) e, anticipando l’orizzontalità dei social, si mette (apparentemente) sul nostro stesso piano. Così che per afferrarlo non servono viaggi in capo al mondo, è sufficiente tendergli una mano.
Da “Fronte del palco” (1990) in avanti le cose cambiano. Cambia l’Italia e cambiano le dimensioni del successo di Vasco. Tutto si fa più professionale, meno scatenato. L’avventura continua, e un giorno finirà per assumere le proporzioni mastodontiche di Modena Park (2017). Tutto, comprensibilmente, fa parte di un immenso gioco di squadra che – nel nome del successo e del perfetto funzionamento della macchina che lo perpetua – deve essere soprattutto affidabile. Nel 2011 Vasco finisce tre volte in coma, lo prendono per i capelli. Così riflette sulla vita che è stata e quella che sarà. I ricordi si allontanano, restano vivi solo quelli essenziali. Ad alcuni compagni di viaggio è dedicato un tempo estremamente condensato. Sono gli anni degli “eeeh” e degli aforismi per palati universali. Meno spezie, più spazi. È la legge non scritta degli artisti pop. Se fanno successo, escono dal bar di paese per entrare nei non luoghi dove tutti transitano, è naturale che qualcosa si perda per strada. Così il finale è una prevedibile parata di elogi e superlativi. Talvolta un po’ vaghi perché la mitizzazione, in genere, si nutre solo di assoluti. Vasco “il dio”. Meglio, ancora una volta, le sue parole: “La rivincita dell’uomo comune”.