Oggi è il Vasco Day. Ennesimo ritorno del Kom con un'attesissima docuserie in cinque puntate su Netflix, Il Supervissuto, sottotitolo Voglio una vita come la mia, che già promette di diventare la videobibbia di qualche generazione di sconvolti. L'occasione per ripercorrere una vera e propria storia come nei film, di quelle che non dormi mai, attraverso i momenti più importanti della sua carriera e vita (che poi è la stessa cosa): da Zocca al carcere e le droghe, dall'amore per Laura alla malattia e i trionfi, senza lesinare nulla. Che bella idea non essere celebrativi, pur celebrando il mito, è questa la forza della vaschitudine. Tra gli altri che l'accompagnano in questo viaggio, non poteva mancare Diego Spagnoli, suo storico direttore di palco da più di 40 anni, a cui abbiamo chiesto: perché un documentario? Siamo partiti proprio da qui, e la risposta non è così scontata come potrebbe sembrare.
Spagnoli, conoscendo Rossi da tanti anni, s'aspettava che schiacciasse il tasto rewind?
“Onestamente no; la mia impressione è che questa è la sua evoluzione. Non è social, è troppo social, esattamente al contrario di quanto accadeva negli anni Ottanta, quando non si sapeva dove fosse e con chi. Adesso il suo mito continua nella condivisione, ma senza forzature, perché è capace di immedesimarsi nei tempi in cui vive con naturalezza, è la sua forza. Basta pensare che una volta era Vita Spericolata, oggi siamo Come nelle favole, ‘Seduti sul divano/Parlar del più e del meno’, l'esatto opposto, ma ha ragione lui, è il sentimento che viviamo ora”.
Vasco definisce la serie un selfie lungo 5 ore.
“Anche una seduta di psicoterapia lunga altrettanto. Pensa, una delle ultime volte in cui abbiamo parlato con tranquillità si diceva di persone che nutrono per lui una certa invidia...”.
Colleghi?
“Non ve lo dirò mai (ride)”.
Ci ho provato. Perché invidia?
“C'è chi non digerisce il fatto che Vasco sia come Elvis (Presley), come un dio del rock and roll...”.
Talmente idolatrato.
“Certo, ma è la gente che ti fa diventare tale, è stato scelto”.
Cosa può differenziare questo da altri documentari musicali, da Elodie a Ultimo, solo per citarne alcuni.
“Credo che questa operazione interessi più a lui, come dicevo prima, una lunga seduta d'analisi. Tenendo conto della storia che ha vissuto e di cosa ha fatto, è come una necessità di fermarsi e capire sé stesso”.
Le piace il singolo che fa da colonna sonora (Gli sbagli che fai)?
“Almeno con le ultime canzoni, ci metto un po' a capire, anche se poi leggo delle frasi in cui lo riconosco”.
Sa come la pensa?
“Diciamo che un po' lo sa, ma è la sua crescita, e può essere che sia io a non afferrare”.
Testimone di tanti passaggi di vita, c'era già quando finì in carcere (con accusa di detenzione e spaccio di cocaina)?
“C'ero, ma non ho mai condiviso quello stile di vita. Anche lui però ha accettato la giusta pena, senza sconti di fama. Da quel momento il suo atteggiamento è cambiato, anche nei confronti del pubblico, si è reso conto che è quella la sua ricchezza”.
Oggi se dovesse succedere, che so a una rockstar come Damiano dei Måneskin, di farsi trovare con 26 grammi di coca, se la farebbe la galera?
“Non credo, forse ci andrebbe se dovesse tirare fuori il suo ca**o, come fa sempre. Alla fine anche i Måneskin sono figli dei tempi. Quest'anno sul palco ripetevo: non si diventa Vasco Rossi per caso, ma anche vero che nel 2023 puoi diventare Blanco per caso”.
Li paragona?
“No, è un rapporto tra popolarità; oggi è più facile raggiungerla e senza tanti sacrifici”.
Non è sano.
“Ma è quello che succede, che poi Blanco è solo un esempio a caso. Vasco si è fatto un cu*o per arrivare dov'è, ma non funziona più così”.
Che sapevate del periodo in cui stava male?
“Era evidente, in tanti anni di carriera non ha mai avuto bisogno del gobbo come allora... e non si ricordava neppure il nome dei musicisti. Ma ancora una volta ha dimostrato che la forza di volontà vince su tutto, tanto di cappello”.
Come mai non ha inseguito l'exploit internazionale dei Måneskin?
“Lui è nato come cantautore, e nei suoi pezzi contano le parole, più del resto. Possiamo dire il contrario?”
Laura (moglie del Kom) vi segue in tour?
“Al contrario, è molto discreta, la vediamo una volta all'anno; anzi neanche si avvicina ai camerini a volte”.
I figli?
“Vengono per vedere Vasco che per caso è anche il loro padre”.
Dopo una tour così trionfale, già si parla del prossimo, da San Siro...
“Ne vuole fare tanti di fila, come sapete tutti; l'unica cosa che mi preoccupa è garantire un buon audio, sarà il mio impegno personale”.
Non c'è nessuna frecciatina a Ligabue?
“Ma no, non ci pensa proprio, sono i fan che alimentano questa rivalità. Io ho lavorato anche con Luciano, e lo stimo molto”.
Rossi si definisce un supervissuto, e Spagnoli?
“Io sono un supervivente; questa sua definizione mi ha fatto pensare, perché al passato?”
Che vuoi dire, che si ferma? Non scherziamo.
“Per carità: qualche tempo fa ho chiesto al suo management se visto l'età avesse intenzione di prendersi una pausa. Sapete cosa ha risposto lui? Ma allora non hai capito un ca**o. Qui si fa come i Rolling Stones, si va avanti fino alla morte”.