Si scrive Eat Sound Festival, ma si può semplicemente leggere “festa”. I giorni di festa, in particolare, saranno tre nella Piazza del Mercato di Vertemate (provincia di Como). Si parte stasera con Domani Smetto – tributo agli Articolo 31 – e si finisce domenica con gli Horny Toorinchos, sebbene il piatto più forte ed energizzante sarà quello di domani sera, quando il palco lombardo sarà addirittura terreno di sfida fra generi. Pop “contro” rock. Paolo Meneguzzi “contro” Simone Tomassini. Le virgolette sono d’obbligo quando si parla di due amici veri, ma tant’è: la sfida musicale ci sarà e sarà divertente, contagiosa e sfrontata. Ce ne parla per primo, in ordine di apparizione (domani toccherà al suo contendente), Simone Tomassini.
Intervistiamo anche Paolo, ma intanto chiediamo a te di esporti: come lo sconfiggiamo il pop di Meneguzzi?
Con le armi di sempre. Le armi che conosco meglio: una voce, un basso, una chitarra elettrica e una batteria. Di solito ci aggiungo anche un organo Hammond; quando penso al rock – alla potenza del sacro rock – penso ai Deep Purple.
Perché è così importante per te questa festa?
Perché ha segnato l’inizio di una nuova fase della mia vita. L’idea viene da lontano; dal 2008, esattamente. Venivo da una botta di notorietà non indifferente, attorno a me c’erano molte aspettative. Lavoravo con Vasco Rossi, calcavo i palchi più importanti d’Italia, finché a marzo 2008 ho perso mio nonno Felice, e neanche un mese dopo, a soli 59 anni, mio padre Alessio. Quando morì mio nonno, per me un autentico padre spirituale, mi dissi che perlomeno, a quel punto, avrei dovuto riscoprire mio padre, che era sempre stato più che altro il mio fratello maggiore (mi accompagnava durante i tour, era soprannominato “staff” perché era sempre lì a supportarmi). Quella doppia tragedia in tempi così ravvicinati, mi tagliò le gambe. Accusai il colpo, mi chiusi in me stesso. Spensi le luci della televisione per accendere quelle sulla mia famiglia.
E quelle di un concerto che, da quell’anno, è diventato tradizione.
Sì, il 6 luglio di quello sfortunato anno, organizzai il primo. Fu un modo per voltare pagina, chiudere una fase della mia vita artistica. Sono sincero, quella notte pensai anche di cambiare strada, deviare rispetto al sentiero del rock. Il destino, però, ci mise lo zampino: un ragazzo del pubblico, costretto su una sedia a rotelle a causa di un incidente in auto, mi confessò che quando ascoltava il mio brano “Niente da perdere” chiudeva gli occhi e gli sembrava di correre nei prati. Mi sentii sia onorato che “piccolo”. E mi convinsi che davanti a una tragedia simile il mio mondo rotto poteva comunque essere rimesso insieme. Così, dalle ceneri di Simone, nacque Simone Tomassini. Nome e cognome. Da quel momento, ogni anno, abbiamo regalato il concerto a Vertemate. Ogni anno raccogliendo fondi per una causa sempre diversa. Dal 2016, poi, l’evento è diventato triplo (coprendo quindi non solo un’unica serata, bensì un intero weekend) ed è stato ribattezzato Eat Sound Festival perché alla musica si è aggiunto l’elemento dello street food. Quest’anno abbiamo fatto le cose ancora più un grande. Un’unica band sia per me che per Meneguzzi. Il mio repertorio contro il suo. Per farvi divertire, distrarre, sognare.
Meneguzzi, col quale sei legato sia dall’amicizia che da una scuola pop.
Sì, la Pop Music School di Mendrisio, in Svizzera. Un’idea nata una decina di anni fa con 20 allievi e che oggi ne conta 600. Io insegno composizione, ma nella scuola si insegna di tutto: canto, tutti gli strumenti, ballo. Non ci interessano ragazzi che vogliano passare il tempo, hobbisti. Ci interessano ragazzi che vogliono fare sul serio, a cui dedicare la nostra esperienza. Vogliamo coltivare artisti.
È possibile oggi?
Sì, è dura ma si può fare. Cerchiamo ragazzi ambiziosi. Ma non vogliamo costruire talenti che ci somiglino. L’idea è di lavorare partendo da ciò che loro hanno da dire.
Un discorso controvento. Mi vuoi quindi dire che anche voi non eseguirete alcuna cover domani sera?
Esatto. Serata no cover. In altri contesti io avrei potuto fare un pezzo di Vasco e lui uno di Baglioni, ma a Vertemate ci misureremo solo con i nostri repertori. La cover in genere è un aiuto, una scorciatoia.
Torniamo alle origini. Con Vasco sei partito con “Buoni e cattivi”, anno 2004. Cosa ti porti dentro di quel periodo?
Fu tutto fantastico. Immaginate un ragazzino immerso in una sala giochi tutta per lui. Dico sempre che io di scuole ne ho fatte tante, ma con Vasco ho fatto l’università. Ho imparato tanto con lui. Innanzitutto che quello che stavo facendo insieme a lui era ciò che avrei voluto fare per sempre: suonare, suonare, suonare. Dare in pasto la mia musica a gente sempre diversa. Come ho fatto quando mi sono trasferito a New York e suonavo per le strade. Dopo tanti palchi e tanti dischi venduti, oggi ai miei allievi cerco di insegnare la forza di una passione. L’unica cosa che ti può guidare e salvare.
Vasco maestro di vita. Ma vi sentite ancora?
No, solo di rado. Nonostante con lui abbia avuto un rapporto sempre molto bello e limpido. Ma so come vive, so quanto è complessa la sua vita. Cerco quindi di non disturbarlo. Sono sempre stato discreto con lui, non ho mai voluto sfruttare il nostro rapporto portando in giro uno spettacolo che fosse incentrato sulle sue canzoni, i nostri aneddoti comuni, le nostre avventure insieme. Ho sempre provato, soprattutto, a portare in giro me stesso, la mia musica. Il palco è il mio ossigeno.
“I Måneskin? Tutti li criticano. Possiamo stare a ragionare un weekend intero su come siano diventati i Måneskin, però la loro freschezza è innegabile e contagiosa. Capisco perché tanti giovani li seguano”
La sensazione, scrutando il panorama pop-rock dell’ultimo lustro, è che i giovani artisti di oggi si divertano meno ma siano più “macchine da guerra”, focalizzati a tutti i costi su obiettivi molto concreti.
L’ansia da prestazione regna sovrana. I filmati dei miei esordi, per fare un esempio, non mentono. I miei occhi non mentivano. La prima volta che sono finito in tv – ospite di Simona Ventura al Festival di Sanremo – ero lo specchio della felicità. Suonavo nei locali già da dieci anni, per cui il palco non mi spaventava. Ero libero di essere felice. Mentre oggi, con meno gavetta alle spalle, un ragazzo certi palchi li sente immediatamente troppo grandi, troppo impegnativi. La tensione è a mille, non se la gode. Deve realizzare tutto ciò che può in tempi strettissimi.
Tu invece te la godi ancora?
Sì, come i Måneskin (ride). Che tutti criticano senza notare che quei quattro ragazzi hanno entusiasmo, voglia di divertirsi e spaccare. E infatti ci riescono. Poi possiamo stare a ragionare un weekend intero su come siano diventati i Måneskin, però la loro freschezza è innegabile e contagiosa. Capisco perché tanti giovani li seguano.
Possiamo dire che quel tipo di successo lo hai conosciuto un po’ anche tu?
Sì, a livello italiano senz’altro. Tutti mi volevano, le canzoni giravano. Poi ho cambiato strada, nessuno mi ha scaricato, men che meno Vasco, per il quale ho inciso (per la sua etichetta Bollicine, nda) tre album fortunatissimi.
C’è qualcosa che la gente non sa di cui vai particolarmente fiero?
Beh, il premio Charlot, dedicato a Charlie Chaplin (peraltro nato lo stesso giorno di mio nonno Felice), che ho appena vinto. Sono un fanatico di Chaplin e, dopo tante ricerche, non solo sono riuscito a mettermi in contatto con i suoi discendenti e accedere al suo archivio privato, ma ho anche registrato un brano con Kiera Chaplin, sua nipote. Quel brano (“Charlot”, appunto) sarebbe dovuto andare a Sanremo, ma Amadeus, evidentemente, aveva altre idee a riguardo.
A fare i cinici, che di rado risultano simpatici, verrebbe da suggerire: molla Chaplin e conquista la tua isola dei famosi.
Non sai quante proposte simili ho rifiutato. No grazie, non è la mia vita.