Reduce da una trionfale giornata fiorentina che prima lo ha visto presentare il nuovo “Urlo eretico” (uscito su cd e vinile) nel negozio della gloriosa Contempo Records e poi festeggiare la pubblicazione del disco con un concerto al Circus Rock Club, locale non troppo lontano dallo storico Tenax, Andrea Ra ci ha aperto le porte (o il portale?) del suo complesso mondo artistico. L’unica cosa “chiara e semplice” sono le sue origini: “Sono nato a Roma, a piazza Bologna, poi cresciuto a Casal de’ Pazzi, zona nord-est della capitale. Precisamente a Montesacro, dove ha vissuto Rino Gaetano”. Sarà l’aria di quelle strade, ma Andrea sembra avere qualcosa in comune con Gaetano, più dal punto di vista ideale che da quello strettamente artistico. Il suo gusto per la ribellione (“ho pagato molto caro aver sempre detto ciò che penso”), ad esempio, che va a mescolarsi con una visione “cosmica” della vita. Così il suo cognome d’arte, Ra, evoca un altro Ra: Sun Ra.
Perché il bisogno di un urlo addirittura “eretico”?
Ho cercato le origini greche della parola “eretico”. È un termine che ha a che fare con la “scelta” e per me poter “scegliere” è importantissimo. Il tema è cruciale.
Perché?
Perché ogni scelta implica coraggio e l’eretico, infatti, è colui che, coraggiosamente, si contrappone allo status quo, che oggi è essenzialmente rappresentato da quella saldatura economico-tecnologica che ci fa sentire dipendenti da una serie di bisogni da “consumare” e non da risolvere. Uno status quo costantemente polarizzato, ostaggio di una ossessiva dualità che è alla base di ogni questione: dalle guerre fino al “da quale parte stai” che ci viene offerto ogni qual volta esce una notizia. Da che parte stai? Come la pensi? E la risposta, badate, non prevede sfumature: o bianco o nero. Io non riesco ad accettare questo sfiancante richiamo alla divisione, al contrasto, al conflitto. Alla continua ricerca di un nuovo nemico.
Affondiamo ulteriormente il colpo. Hai in mente un eretico in particolare?
La figura a cui faccio riferimento nei testi dell’album è Cecco d’Ascoli (poeta, medico, insegnante, filosofo e astrologo/astronomo italiano che fu messo al rogo dall'Inquisizione cattolica nel 1327, nda).
Oddio, e cosa c’entra un intellettuale-scienziato del Basso Medioevo con un album, per quanto evoluto, di rock italiano?
Il disco, in sostanza, nasce da una personale esperienza di ipnosi regressiva ed è un lungo racconto-viaggio nel tempo, dalle tinte distopiche, che inizia nel 1420, a Firenze, per poi procedere a ritroso. Io, che sono il protagonista, tento di salvare Cecco dal rogo. Per poter “viaggiare” nel tempo attraverso alcuni portali spazio-temporali, tipo il Monte Shasta. Questa storia mi serve per affermare che le inquisizioni non sono mai finite. È cambiato il modo di inquisire, ma inquisire va ancora di moda. Per questo l’album contiene una bella dose di denuncia politica e sociale.
Il Monte Shasta?
Sì, sta in California. È un luogo sacro, fortemente evocativo, spirituale. Fate qualche ricerca con Google e troverete cose fantastiche (ritenuta “la casa di molti lemuriani”, è un monte che – oltre ad essere uno dei vulcani dormienti più grandi al mondo, e a poter facilmente eccitare il Red Ronnie che alberga in noi – offre alla nostra attenzione un’affascinante storia in cui confluisce di tutto, a partire dalla leggenda, tramandata dai nativi indiani, che lo associa ad una “seconda Mu”, nda). Questo luogo, nel mio album, interrompe la coerenza geografica rappresentata da tutti i luoghi presenti nel racconto e, ovviamente, nella vita di Cecco d’Ascoli. Rifacendomi alla fisica quantistica, dico anche che il Monte Shasta è “dove lo spazio si confonde con il tempo”. È un luogo che si contrappone alla contingenza di una società materialista e autodistruttiva, dove il conflitto e l’incomunicabilità tra gli uomini sta divenendo ogni giorno sempre più insanabile (vedi appunto la tirannica dualità di cui parlavo prima).
Perché prendersi questa licenza e collocarlo in un racconto medievale?
Perché credo che oggi l’uomo abbia perso il contatto con il mondo sovrasensibile. Penso a quel “nuovo fascismo” profetizzato da Pasolini quando parlava del mercato. Vedendoci come schiavi del mondo dei consumi. Schiavi che però si sentono “liberi”.
Ok. Torniamo agli inquisitori. Chi sono, oggi?
Ad essere sotto tiro, come al solito, è il pensiero non allineato, non omologato. Viviamo dentro un sistema che spesso non è neppure più costretto a “censurare”. Sta allevando individui che si autocensurano in partenza. Non voglio suonare da boomer, ma non scambierei mai i miei 20 anni con quelli di un ventenne di oggi. Vedo troppa manipolazione.
Anche la droga ha capacità manipolatorie. Perché ne parli in ogni tuo pezzo?
Le affronto tutte: dalla pillola rossa stile “Matrix” alle benzodiazepine. Potrei non parlarne? Viviamo in una società drogata. È drogata la politica, il mondo finanziario, il mercato discografico. E infatti “Urlo eretico” racconta la follia di un mondo drogato che cerca di renderci dipendenti-schiavi da qualcosa che non ci serve. Drogando il mercato, l’informazione, imponendoci basse emozioni. Qual è la via d’uscita? Una terza via che oggi sogno ma non vedo.
La tua via musicale, però, suona alquanto originale. Non so se sia una “terza via”, ma il tuo menu sonoro è molto d’impatto, molto personale. Un album figlio degli anni ’90 ma ricco di innesti prog.
La musica è la mia libertà. Nel disco ci sono cambi di ritmo, andatura, bpm. La nostra vita – checché vogliano convincerci del contrario – non viaggia su un ritmo in 4/4. Una società dura e impazzita come la nostra non può viaggiare in 4/4, dai. Frank Zappa la capì presto una cosa simile: “Non vi piace quello che faccio? Dite che faccio musica “brutta”? L’America è brutta”. Zappa è un faro per me. Ma fu ostracizzato, criticato. E invece aveva ragione su tutto. A differenza di uno Springsteen che fa gli stadi ancora oggi.
Come colleghi questi contenuti (musicali e non) con la scelta di un’etichetta come la Contempo, considerata da sempre la culla della new wave fiorentina?
Beh, in passato, seppur per poco tempo, ho suonato il basso anche con i Diaframma (sorride, nda). Considera che ascolto di tutto. La mia musica, per tanti motivi, contiene influenze fra le più disparate (nella mia band suona anche mio figlio, James Rio, batterista di estrazione metal). Contempo è una realtà protetta, estremamente aperta, in cui sentirsi liberi di fare, creare. Di far suonare chi voglio, ad esempio: nel disco, alla chitarra, oltre al fedele Giacomo Anselmi, è anche ospite, in un brano, il grande Andrea Braido. Musicisti tecnicamente ineccepibili, ma non è quello il punto. Musicisti liberi. Come vedi, alla fine, torno sempre lì.
Hai collaborato con tanti di musicisti. Partiamo dalle origini.
Dal 1994 al 2002 ho suonato ne Il Locale, a Roma, in vicolo del Fico. Ci conoscevamo tutti. Lì sono nati, musicalmente, Daniele Silvestri, Niccolò Fabi, Max Gazzè, Frankie Hi-Nrg, Tiromancino. Un posto magico di 180 metri quadri al centro di Roma, tra piazza Navona e Campo dei Fiori.
Nel 2004 lavori anche con il Piotta.
Siamo grandi amici. La gente lo ha conosciuto e amato con “Il supercafone”, ma lui è tutt’altro che un supercafone. Autore sensibile, colto. Quell’anno suonai nel suo album “Tommaso”, che venne premiato anche al Meeting delle etichette indipendenti.
Nello stesso periodo vai in tour con Daniele Groff.
Che concerti… Abbiamo aperto per Renato Zero, Bryan Adams. Ci siamo divertiti.
Nel 2008 suoni con un re pop degli anni ’80, l’enigmatico Gazebo.
Gazebo è un signore, un uomo d’altri tempi. Sembra quasi provenire da un’altra dimensione.
Poi l’avventura con Federico Fiumani. Coi Diaframma non è durata tanto.
Grande stima per Fiumani, che è un poeta irrequieto. Inquieto.
Partecipi addirittura alla data italiana, a Roma, di Damo Suzuki (Can periodo “Tago mago”). Siamo nel 2012.
Concerto memorabile, tutto improvvisato. Damo è un samurai della musica.
Quindi per anni hai suonato nella band di Fabrizio Moro.
Sì, un’avventura finita giusto l’anno scorso a causa di alcune incomprensioni con il suo entourage.
Cos’è successo invece con Simone Cristicchi?
Con Simone, che conosco dai tempi del Locale, ci fu una polemica quando nel 2010 lui uscì con “Meno male” (“Meno male che c’è Carla Bruni”, faceva il brano). Il suo pezzo somigliava molto ad “Aria fresca”, una canzone inclusa nel mio primo album uscito per la Mescal. A Roma se ne parlò parecchio, ma io accettai la sua “difesa”. Disse di conoscere la mia canzone e che la somiglianza fu solo un caso. Io non andai oltre.
Hai lavorato o frequentato un’intera generazione musicale. Prima di voi già si parlava di una “via al rock italiano” con gruppi come i Litfiba, gli stessi Diaframma. Poi sono arrivati i Marlene Kuntz, gli Afterhours, e tanta gente con cui hai creato qualcosa. Cos’è andato storto? Perché poi, per anni, questa famosa “via al rock italiano” si è come smarrita?
Perché si è smarrito l’artista. È inutile prendersela con le case discografiche o i media. Un tempo il rock diceva “no”. Da un certo punto in avanti ha cominciato a dire sempre “sì”. Evitando questioni scomode. Una per tutte? I governi – prima Conte, poi Draghi – che per fermare il Covid fermano, innanzitutto, l’arte. In quel momento gli artisti avrebbero dovuto resistere, ribellarsi, mica andare sul balcone a strimpellare una canzoncina. Ma ci sono figure, in Italia, che prima, sui giovani d’oggi, “ci scatarravano su” e poi sono andate a fare i giudici a “X Factor” (il riferimento è a Manuel Agnelli, nda). Oggi la ribellione è morta. Quando essere ribelli era più remunerativo, di ribelli se ne vedevano di più in giro, no? (sorride, nda).
Forse perché si protestava meglio quando si stava meglio? Intendo dire: oggi i ragazzi più giovani – pensiamo ai trapper o ad alcuni improbabili neomelodici “urban” – forse non si ribellano, accontentandosi di dirci “come vanno le cose”, perché non posseggono più una visione del futuro. Cercano di spremere tutto il possibile da un mondo che non piace neppure a loro, che li vede alla ricerca di un riscatto veloce che li porti lontano da dove sono nati. Non c’è spazio per la ribellione in un quadro simile.
Nelle generazioni più giovani vedo appunto il tentativo di corteggiare il mainstream, in modo da poterne far parte al più presto. Attraverso un continuo elogio del materialismo, delle belle donne, del cash, della superficie. Sì, non si fa musica per lottare ma per “svoltare”. Non ci credono nella lotta, come se a noi adulti dicessero: “Non potete chiederci anche di lottare”. Io, pensando al punk o anche ai Rage Against The Machine, mi chiedo: ma dov’è finita la rabbia? Semplice, la musica non è più, per i giovani, il veicolo preferenziale per veicolarla.