L’esperienza più appagante da un punto di vista sociale e umano, vissuta con il film Vera, di cui sono protagonista, è legata a una giornata unica che non dimenticherò per il resto della mia vita. Imparagonabile a qualsiasi premio vinto, festival internazionale, première o inutile tappeto rosso, la proiezione del film e il successivo dibattito con i detenuti, nel carcere maschile “Le Vallette” di Torino, mi hanno lasciato emozioni profonde che continuano ancora oggi a darmi coraggio. Ne scrivo ora, a distanza di mesi, sperando che il mio ricordo non risulti retorico, ma intriso di tutta la realtà e la crudezza di quel mondo. Non sapevo bene a cosa sarei andata incontro; solo che avrei condiviso il film con persone che erano state private del bene più prezioso di tutti: la libertà. La libertà è una sola, e le catene imposte a uno di noi dovrebbero pesare sulle spalle di tutti. Ero consapevole di dover essere all’altezza di questa responsabilità. La sentivo addosso come una delle tante prove da superare, ma mi fidavo della mia capacità di empatizzare con il dolore, con chiunque abbia avuto una storia di vita forte e drammatica con cui fare i conti. Dio non ti mette di fronte a prove che non sei in grado di superare. Se lo fa, è solo per darti una lezione. Ma questo non era il momento di scontare i miei errori, bensì di renderli produttivi e porli alla base di un servizio per gli altri. Era un’opportunità per dare un senso alla sofferenza, la mia e la loro. Non esiste dignità senza libertà. Quella dignità volevo restituirgliela tutta, con l’ambizione che si sentissero “liberi” anche in quella situazione restrittiva, evadendo tramite il cinema, l’immaginazione del mondo che avrebbero voluto e lottato per creare. Anche quando i fatti, intorno a loro, parlavano solo di “assenza dalla vita”. Un incoraggiamento, del resto, vale più di cento rimproveri.
Sono nata e cresciuta in Via della Lungara, a pochi passi dal carcere romano di Regina Coeli. Questa prigione vicino casa ha accompagnato tutta la mia crescita, facendomi riflettere sulla detenzione sin da piccola. Nascere a due traverse da un carcere significa sentire urlare le donne ai detenuti le cose più disparate: “Come stai?”, “Ti amo!”, “Mangi?”. Via delle Mantellate, per me e mia sorella Giuliana, è sempre stata “la strada delle grida” e Vicolo della Penitenza “la strada dove escono i detenuti”. La prigione è una consapevolezza che dovrebbe appartenere a tutti. Perché, dopo la condanna, così accettata e così giusta per gli uomini di “buona volontà”, esiste la reclusione. Le porte si chiudono, e a quel rumore assordante ho sempre pensato ossessivamente. Regina Coeli fa parte della mia vita: un luogo familiare per me. Sono cresciuta con la paura di finirci dentro, e il mio percorso artistico e umano è stato una perenne lotta per la libertà, in tutte le sue forme. La libertà è una missione e un’ossessione per me. Gli organizzatori dell’incontro si erano raccomandati, prima della proiezione, che io indossassi abiti discreti e non provocanti. Francamente non avevo intenzione di entrare in carcere con la minigonna e i tacchi a spillo, o in un abito Versace dorato fino ai piedi. Ancora una volta la mia intelligenza veniva sottovalutata senza motivo. Ma tanto la verità vince sempre, e questo è il mantra che mi fa sopravvivere alla superficialità della gente e a tutte le ingiustizie, i fraintendimenti e le strumentalizzazioni che subisco.
In realtà, indosso jeans larghi e una maglietta nera, ma non rinuncio al mio cappello da cowboy, perché penso che si debba restare sempre se stessi. Questo innocente tocco western, inoltre, potrebbe rallegrare i detenuti, che mi auguro possano considerarmi “una di loro”. Perché io non mi sento meglio di nessuno. Non mi interessa che abbiano commesso reati. Mi interessa che le cicatrici li rendano degli individui migliori. Credo sia un reato anche lobotomizzare le menti attraverso i media per impedire la rivoluzione e fare in modo che il popolo abbia sempre meno coscienza politica, etica e personale. È un reato non finanziare la cultura, permettere che le periferie del mondo restino luoghi abbandonati e dimenticati. È un reato inculcare nei cervelli stanchi propagande fasulle e bugiarde, mai finalizzate al bene del singolo individuo. Curarsi solo del potere e del guadagno personale, dominando un popolo spesso ignaro, è un reato che si vuole perpetrare, perché così il popolo resta sottomesso e rincoglionito. Che ognuno si prenda le sue responsabilità, anche il sistema, che da qualunque parte lo guardi è ingiusto, ghettizzante, malato e disonesto. Da sempre credo profondamente nella ribellione e nella rivoluzione, in chi scende in piazza ed è pronto a morire per far valere i propri principi. Sono un’estremista anarchica e coraggiosa, pronta a perdere tutto per i miei principi di libertà e rispetto delle mescolanze razziali. Lotto contro il finto perbenismo e detesto qualunque forma di ipocrisia. Sono sempre dalla parte dei cattivi, che “così cattivi non sono mai”, e diffido profondamente delle cosiddette menti “per bene”. Essere per bene, per me, non significa nulla. Questa accezione positiva mi disturba, perché lo si è solo restando onesti con sé stessi e con gli altri. E l’onestà intellettuale è il primo dei valori persi nella società odierna. In questo scambio con i detenuti sarò onesta, vera. Cercherò di imparare ad apprezzare la mia libertà e non la darò per scontata. Farò quello che posso per non far sentire sulla pelle degli altri alcun giudizio. Perché se giudichi le persone, non hai tempo per amarle.
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Arrivo all'ingresso del carcere con i miei registi, Tizza Covi e Rainer Frimmel. Ci accoglie la direttrice e l'organizzatrice del festival "Liberazioni", che mira a uno scambio culturale con i detenuti. Sembra essere una lodevole iniziativa, degna di rispetto. Mi auguro che non stiano usando la prigione per farsi pubblicità e far parlare di questo festival; spero siano realmente interessati a una riabilitazione delle prigioni, anche attraverso l'arte. Una guardia carceraria vuole farsi una foto con me ed io accetto sorridente, sebbene non mi fidi istintivamente di nessuno, figuriamoci di lui. Non ho mai amato le divise, mi fanno sentire colpevole anche se non ho fatto nulla di male. Non esita a fare una battuta inutile: mi dice che lui non dimentica mai una faccia e che spera di non vedermi mai lì per altri motivi. Non vedo perché dovrebbe vedermici, ma effettivamente, mai dire mai, "amico mio", non ci sono limiti alla divina provvidenza, e io sono stata arrestata tre volte in tre paesi diversi: Germania, Norvegia e Stati Uniti. Quindi sì, non si sa mai. Mi ha salvata una buona educazione e una famiglia mentalmente sana. Mi ha salvata perdere una madre a vent'anni di tumore e un padre all'improvviso per un incidente stradale. Mi ha salvata conoscere il dolore e piangere nei momenti più disparati per averlo trattenuto. Possiedo dalla nascita ogni singolo requisito richiesto per diventare una delinquente, ma anche un senso di devozione, una missione che Dio mi ha dato, ovvero trasformare questo animo ribelle in una lotta costruttiva contro le ingiustizie. Come Robin Hood, avrei comunque rubato volentieri ai ricchi per dare ai poveri e ho fantasticato più volte nella mia mente una rapina, provando un senso di adrenalina e di eccitazione solo a pensarci. Ma il bene in me è sempre più forte del male e questo articolo mira a denunciare, attraverso la mia esperienza, una serie di mancanze gravissime che nessuno, neanche i fuorilegge, meritano.
Come dice Nelson Mandela: “Non si conosce una nazione finché non si è stati nelle sue galere. Una nazione dovrebbe essere giudicata da come tratta non i cittadini più prestigiosi, ma i cittadini più umili”. Considerarsi artisti o personaggi di spicco dovrebbe servire a usare un potere di parola per rendere il mondo un posto più dignitoso, non deve ridursi a un banale ornamento, intrattenimento o, peggio ancora, a un egocentrismo sfogato e mai appagato. Non è con il successo, infatti, che si ottiene l'amore degli altri, anzi, spesso ci si sente odiati. La notorietà deve servire a combattere e non a brillare e basta. Entrando dentro le Vallette, sento le porte chiudersi dietro di me. I pensieri vengono bloccati da un senso di oppressione. La sensazione che qui non batta mai il sole mi rattrista, perché io il sole lo amo e non posso farne a meno per lunghi periodi. Mi accompagnano in una grande stanza pronta per la proiezione. Davanti a me ci sono un centinaio di detenuti, di tutte le età e etnie, materiale umano che si mescola forzatamente, anime che probabilmente nella vita non si sarebbero scelte mai... immagino. Celle con sei persone che dovrebbero ospitarne al massimo due. Le prigioni in Italia sono sovraffollate, detenuti in attesa di giudizio, storie differenti omologate in un unico reato, valido per tutti, condannato e successivamente dimenticato insieme a chi l'ha commesso. "Buongiorno", sorrido cercando di rompere il ghiaccio. “È un piacere per me essere qui, non mi sento migliore di voi e spero che questo film possa regalarvi due ore di evasione”.
Parola sbagliata. “Evasione” provoca un sussulto che avverto immediatamente nello sguardo degli organizzatori e delle guardie carcerarie. Ovviamente, non intendevo evadere fisicamente, scappare dal carcere, ma evadere attraverso la magia del cinema che ti fa essere ovunque pur essendo chiuso in quattro mura. Non ricordo cosa altro abbia detto, ma posso affermare senza dubbio di aver provato da subito una sensazione di empatia e simpatia da parte di tutti. Mi sembrava finalmente di essere capita. Davanti a me ho visto sguardi di consenso, sorrisi amichevoli. Mano a mano che parlavo, entravo sempre più in sintonia e, a mia volta, non mi sono sentita giudicata. Provo a rivivere quei momenti difficili da descrivere e raccontare. Noto qualche minuto dopo l'inizio del mio discorso un ragazzo che entra insieme ad un altro gruppo di persone. Mi spiegano che questi detenuti, subentrati poco dopo, hanno una pena più lunga. Il ragazzo si siede in prima fila e sembra racchiudere in sé tutta la bellezza del mondo. Mi viene la tachicardia solo a guardarlo: ha un sorriso furbo e puro, disarmante. Fa venire voglia di fare pace con la vita. Occhi buoni, vivi, intelligenti, e un'aria furba e al tempo stesso innocente. Non tradire chi ti sorride potrebbe avere la morte nel cuore e regalarti comunque un po' di vita. Mi sento travolta da un colpo di fulmine, come in un film sul carcere, troppo drammatico e romantico. È bello poter credere che la luce esista anche nell'ombra della sofferenza. Ci sono bellezze che il dolore non può distruggere e, se Dio ti regala questo potere di incantare, ci deve essere un motivo, qualcosa da mettere in atto per fare in modo che questa bellezza non venga sprecata. Ricordo di aver detto a Tizza: “Sicuramente mi innamorerò di un detenuto”, pensando di fare dell'ironia. Ma si dovrebbe sempre dare peso alle parole, perché le parole, come i pensieri, diventano realtà. Potrei definire questo incontro uno degli amori più intensi e mai vissuti della mia vita, ma sono ancora confusa ripensandoci, investita di tutta la purezza e il peccato del mondo. L'amore può essere un attimo che diventa eterno, può durare anche pochi istanti e merita rispetto, soprattutto quando è impossibile, perché a vivere quelli possibili sono capaci tutti, mentre io mi nutro di quelli impossibili come Dracula del sangue.
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Mi sforzo di non guardarlo troppo. Non sono qui per incantarmi come una bambola stupida e l'unica possibilità che ho per non farlo è mantenere la concentrazione su un punto fisso lontano da lui, distrarmi dalla grande bellezza. Con la coda dell’occhio sento comunque il suo sguardo di incoraggiamento, come se mi dicesse “Vai così, sei troppo forte”. Questa approvazione mi dà una forza su cui mi concentro ancora oggi. Chissà se troveranno mai il mio film interessante, se coglieranno il senso di solitudine del mio personaggio o semplicemente si annoieranno pensando “Sempre meglio che stare in cella”. Sono lì al buio con i miei registi e più di cento detenuti, sperando che possano capire che tra noi esiste una somiglianza. Non per reati (forse anche per quelli, i miei sono violenza domestica, spaccio internazionale e sigarette fumate in aereo sulla Lufthansa), ma per mancanze improvvise, traumi da abbandono, errori da non commettere più, per tutto quello che ci ha fatto sussurrare la parola "aiuto" al mondo. Per questa perenne ricerca di assoluzione e di amore con cui ogni peccatore si trova a fare i conti. La liberazione non è la libertà, penso. Si esce dal carcere, ma non dalla condanna e io, che mi sono sentita condannata troppe volte, cerco approvazioni e assoluzioni persino qui, in mezzo ai fuorilegge. Il tempo passa velocissimo quando ci si allontana dalla realtà. Un fragoroso e unanime applauso parte immediatamente sui titoli di testa del film. Sono in piedi di fronte a loro che continuano ad applaudire, ma non mi commuovo perché non voglio apparire fragile. Non sono una patetica donnetta che si commuove, ma una “ragazza di vita”, per citare Pasolini e non solo per autodefinirmi “ragazza”.
Inizia il dibattito e le domande sono intelligenti, acute, pertinenti. Chiunque interviene ha capito il film e sembrano tutti molto introspettivi e profondi, forse perché la sofferenza ti impedisce di essere leggero e superficiale, ti impone di vedere tutto da una visione più ampia, ti allena a distaccarti dalla realtà e a guardare oltre. Sono stimolata dalle domande e mi impegno a dare delle risposte altrettanto convincenti. Un detenuto con la mano alzata mi dice: “Posso farti una domanda che non c'entra niente con il film?” Ed io: “Sì, certo, dimmi pure”. L’uomo prosegue sorridendo senza esitare: “Lo daresti mai un abbraccio a un carcerato?” Questa domanda mi scalda il cuore. "Certo!" rispondo senza pensarci un attimo, poi osservo le guardie carcerarie e chiedo: "Posso?" Stupiti, perplessi e non particolarmente contenti, alzano le spalle e mi fanno cenno di sì. "Se proprio devi, sbrigati", sembrano dirmi, come a dire che deve essere una cosa veloce. Abbraccio un detenuto a me sconosciuto con tutto il calore umano che posseggo. È uno degli abbracci più belli e significativi della mia vita. In sala ci sono alcuni giornalisti che documentano l'incontro ed un fotografo. Il giorno dopo la foto del nostro abbraccio fa il giro di tutti i quotidiani italiani. Per me significa un momento in cui mi sento capita ed amata in modo sincero. Tutta la mia vita è stata una ricerca d'amore puro, anche se nei modi sbagliati. Il film parla anche di questo. Mi auguro di aver ricambiato, tra gli sguardi dei poliziotti perplessi, questo amore sincero e, una volta tanto, disinteressato. Anche qui, dove le regole sono severe e restrittive, siamo riusciti a vivere la situazione "a modo nostro", come ci pareva a "noi", nella libertà di discutere di tutto e abbracciarci. Anche questo può voler dire "evadere". Si fa quel che si può in situazioni difficili e noi lo abbiamo fatto.
Il tempo a nostra disposizione è finito. Il ragazzo più bello di tutti si avvicina a me e mi porge un bigliettino. Lo prendo immediatamente e faccio in tempo a chiedergli: "Di dove sei?" "Tunisia", mi risponde, ma le guardie si precipitano come falchi, lo allontanano e mi strappano il bigliettino dalle mani come se mi avesse passato un chilo di cocaina. Lo invitano ad allontanarsi e mi lancia un ultimo sguardo complice, senza mai smettere di sorridere, perché anche mantenere il sorriso è una forma di orgoglio. Sembra infatti dire: "Quello che state facendo non intacca la mia positività e la mia determinazione a dare a questa donna un messaggio". Io ci resto molto male, temo che possa essere punito per questo gesto, ma non c’è niente da fare per opporsi alla situazione, per contrastare quattro uomini in divisa fin troppo determinati. Tutti vengono riportati nelle loro celle. Fine della ricreazione. C'è un inizio e una fine per tutto, ma questo è uno dei concetti che meno mi sono entrati in testa nella vita. Nel senso che la fine vorrei poterla stabilire sempre io. Difficilmente entro in relazione con concetti come accettazione, rassegnazione o robe simili. Sono una guerriera e i guerrieri non si rassegnano mai. Combattono fino alla morte. Per i guerrieri la fine non esiste. Tornare nell'hotel di Torino, proseguire la mia vita di donna libera, mi fa sentire una merda. Andare a cena fuori con gli organizzatori dell'incontro e i miei due registi, pure. Provo a proporre un corso di recitazione con i detenuti pur di rientrare il prima possibile là dentro. Non voglio che pensino che li abbia abbandonati. Costruisco un programma impeccabile dove ogni detenuto possa scrivere qualcosa di personale, decidere poi se leggerlo, improvvisarlo o impararlo a memoria e portare in scena uno spettacolo con loro. Credo che sentirsi applauditi possa favorire ed incoraggiare un’autostima perduta, senza la quale non esiste fiducia, costruzione o miglioramento, e tutti sembrano essere esaltati dall'idea. Gli organizzatori del festival mi chiedono di scrivere una proposta concreta. Lo faccio immediatamente, una volta tornata a Roma, ma non se ne farà mai nulla. Non riceverò mai una risposta. Mi sembra di aver tradito quelle persone. La vita fa schifo perché tutti dovrebbero essere liberi e nessuno sentire il rumore di una porta che si chiude. Le persone dovrebbero essere messe in condizioni in cui non c'è bisogno di commettere crimini. Non ho pensieri positivi, sono nervosa, arrabbiata, dubbiosa nei confronti del sistema carcerario.
Penso che ogni caso andrebbe analizzato come caso unico e non comparato ad altri, perché ognuno è figlio della propria vita e della propria storia. Se sei cresciuto in una famiglia dove delinquere era normale, inconsciamente sviluppi un concetto per cui diventa ovvio che lo farai anche tu. Possono persino inculcarti l'idea che non farlo farebbe di te un vigliacco, un perdente senza nessun coraggio. Non avendo gli strumenti educazionali e culturali per aprire la tua mente, vivendo in case dove spesso non girano soldi, dove, confrontandoti con il resto del mondo, vedi ragazzi vestiti meglio di te, più ricchi e più fortunati, con belle macchine già a vent'anni, mentre tu ingoi merda, razzismo e frustrazione, ascolti tua madre piangere e osservi tuo padre tornare per l'ennesima volta in prigione, difficilmente sviluppi una grande autostima e la visione positiva di libri come "The Secret" o la grande voglia di leggere Proust e Baudelaire vacillano in un mondo ideale di fantasia che dovrebbe fare i conti con delle mancanze non solo culturali, ma anche sociali. Quando non hai più niente da perdere, perché niente è quello che ti è stato dato, nuoti con lo spirito in questo buco nero fatto di realtà che non ti insegnano a sognare, dove l'integrazione sociale non è una realtà, ma un'utopia, una propaganda bugiarda che fa i conti con un mondo impreparato ad accoglierti, indifferente, ma anche pronto a condannare. Il governo e le leggi puniscono chi non ce la fa a prendere la via della legalità senza responsabilizzarsi mai di non aver creato gli strumenti per una vita dignitosa negli ambienti disagiati, dimenticati, abbandonati. Luoghi che ti insegnano a schifare e a temere, e da cui è meglio "stare lontani".
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Io non sono qui per santificare i peccatori, ma nelle strade, nelle case-famiglia e nelle stesse prigioni, così come fuori, esistono anche anime belle, menti intelligenti, vittime innocenti di una vita che nessuno vorrebbe. Le persone non ci godono a delinquere, come vorrebbe farci credere Del Debbio o la maggior parte dei programmi televisivi finalizzati ad alimentare il terrore nei confronti "dello straniero". Nessuno dovrebbe gentilmente tornare a morire di fame nel proprio paese, qualunque esso sia. Non funziona così. Esiste gente che si ribella a questo concetto... "Stattene al posto tuo o vatti a spezzare la schiena otto ore al giorno per 700 euro al mese." C'è qualcosa che non torna in questo sistema, dove la legge vale solo per chi dite voi. Pensieri a raffica che mi fanno venire voglia di non rispettare nessuna regola. Tornata a Roma, passano alcune settimane e ricevo un messaggio su Instagram da parte di una ragazza che non conosco, una certa Carol. Mi scrive: "Ciao, sono la sorella del ragazzo che voleva darti il bigliettino. Ti saluta tanto e vorrebbe poterti mandare una lettera." Le do immediatamente il mio indirizzo di casa. Successivamente riceverò una lettera bellissima, e per motivi di privacy non sto qui a leggervela, ma a raccontarvi quanto mi abbia fatta sentire utile il ringraziamento e il riconoscimento del fatto che avevo trasmesso verità e speranza. Che la mia onestà comunicativa fosse stata potente e di grande incoraggiamento per tutti. A quella lunga e bellissima lettera, che ancora conservo, ho risposto una sola volta. Sebbene ne siano arrivate due di lettere, io ho risposto solo alla prima, ma l'ho fatto con la determinazione di chi sa che è quasi tutto una questione di vita o di morte. L'obiettivo era dare coraggio e alleviare la pena a quel ragazzo bello "fuori", ma soprattutto nell'anima.
C'è stato di certo uno sbaglio, questo lo sappiamo tutti, ma io non cerco la strega da mettere al rogo. Non ho bisogno di gettare merda sui colpevoli per sentirmi pulita. Sono pronta a sporcarmi, perché solo conoscendo la merda ci si può dichiarare puri. La merda fa bene, e per merda intendo non solo gli sbagli, ma la sofferenza, quella vera. Quindi, qualora vorreste avere a che fare con me, sporcatevi un po' di merda, ci abbracceremo più tardi. Una cosa è certa: quando il crimine, la truffa, i furti continuano a imperare, non è sempre e solo per giocare a Tony Montana. La realtà dovrebbe prendere coscienza di un sistema sbagliato, pieno di mancanze e di un'educazione che è incapace di proporre un apprendimento costruttivo o un'alternativa. Per creare individui utili alla società bisogna anche incoraggiare accettazione e integrazione, non una comunità frustrata pronta solo a scagliare la prima pietra e a giudicare senza nessuna fiducia nel miglioramento. Ormai i commenti più frequenti su Instagram sono: "Ma vai a lavorare", da parte di gente che detesta il proprio lavoro. Per andare a lavorare, come dicono gli haters, bisogna creare posti di lavoro e situazioni che preparino a lavori gratificanti, non solo a uno schiavismo osservato cinicamente dai poteri forti, troppo spesso ignoranti (nemmeno in grado di parlare l'italiano senza accento). Queste mancanze non creano solo schiavi, ma anche ribelli. E se il popolo ad oggi non ha il pane, non potete rispondere: "Dategli le brioche", come fece o non fece la regina Maria Antonietta. Dovete fermare questa Italia delle bustarelle, dell'amichettismo e delle raccomandazioni. Questa Italia delle leggi, valide solo per chi dite voi, dove i veri criminali li fate uscire di prigione e poi venite assolti, come per magia. Le prime associazioni a delinquere di stampo mafioso siete voi che dovreste dare l'esempio. E non vi salverete con il "politically correct", la nuova inquisizione a cui credono solo i dementi.
Prima o poi, non solo gli immigrati, ma anche i vostri "amati" italiani al cento per cento, di razza bianca e pura, pretenderanno delle risposte. Non sono ancora tutti lobotomizzati dalle vostre false propagande e dai media. Ancora qualcuno ragiona, e quel qualcuno, di fronte alla fame, farà la rivoluzione, non andrà a lavorare. Oggi, con quel ragazzo che aveva provato a darmi il bigliettino, sono ancora in contatto. Sta usufruendo dell'articolo 21, un procedimento che viene applicato seguendo l'ordinamento penitenziario e che prevede un programma per cui l'utente, a orari prestabiliti, esce dall'istituto per andare a lavorare e rientra a dormire. Ha approfittato del carcere per studiare, vuole laurearsi in psicologia, migliorare come essere umano. Sogna di poter agire in qualunque campo esista detenzione, disagio e sofferenza, ed è già un punto di riferimento per molti detenuti. Mi racconta giornalmente come stanno le cose, ha contribuito a darmi molte informazioni riguardo il sistema carcerario e alla scrittura di questo articolo. Mi ha rivelato che alcune prigioni dove lui è stato sono terribilmente carenti. Il cittadino che ha sbagliato deve scontare la pena, ma deve farlo in luoghi rispettosi della dignità umana e idonei a consentire la funzione rieducativa della pena medesima. Ha contestato mancanze con un senso di pacata delusione, senza polemizzare e senza volersi arrendere a questa ingiustizia. La sua pena sta volgendo al termine, ma pensa comunque a tutti quelli che dovranno scontarne altre in futuro. D’altronde il carcere è "per sempre", resta eternamente dentro di te. È un'esperienza di vita che non si può e non si deve dimenticare, una durissima lezione che non deve andare sprecata o tutto quel dolore non sarà servito a nulla.
Sembra che carceri come quello di Novara o... facciano subire ai propri "ospiti" carenze enormi e la possibilità di una sola telefonata a settimana. E chi ha dei figli? Non arrivate a capire che chi ne paga il prezzo più alto sono le persone innocenti? I bambini, ad esempio, che crescono senza un confronto, un punto di riferimento. La perdita della libertà è già di per sé una perdita di tutto, e dovrebbe essere abbastanza per far capire che si ha sbagliato. Aggiungere a questo una perdita del rispetto dell'umanità, poca assistenza psicologica, celle sovraffollate, medici che pur di farti stare buono ti prescrivono Xanax, creando a lungo andare una vera dipendenza (non meno grave di quella delle droghe illegali), giustificare gravi indifferenze che in molti casi portano al suicidio, non vi rende migliori di chi condannate. Il ragazzo del bigliettino (lo chiamerò in più modi, ma mai con il suo nome) mi ha raccontato ancora turbato di un ragazzo appena ventenne che si è impiccato su un armadietto con la felpa. Aveva dato segni di squilibrio e gli altri detenuti avevano provato a stargli vicino. Una mancanza di adeguati accorgimenti umani e medici di cui, pur avendo sbagliato, aveva diritto, è difficilmente perdonabile. Gli sbagli non possono portare al suicidio, e l'abbandono di una mente che mostra chiare disfunzioni psicologiche è l'ultima giustizia di cui un essere umano confuso e sofferente ha bisogno. Chi parla di giustizia deve anche essere in grado di metterla in atto. Il carcere dovrebbe essere un posto da cui si esce migliorati e non ancora più incazzati o addirittura morti. È nell'interesse di una società funzionale e costruttiva far sì che dietro quelle sbarre si possa imparare qualcosa di concreto per poi metterlo in atto una volta fuori.
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Molte di quelle persone, a causa del loro passato, non conoscono autostima, non credono di potercela fare in nessun modo diverso da quello che li ha fatti reclutare. Deve subentrare una sensibilità che analizzi la storia e il passato di ogni singolo individuo, in quanto i detenuti, come le persone libere, non sono tutti uguali. La storia personale non si può omologare in un unico reato valido per chiunque abbia commesso la stessa azione. L'atteggiamento delle istituzioni, così come della legge, non può essere solo punitivo, ma anche e soprattutto riabilitativo, perché la punizione fine a se stessa non fa che alimentare umiliazione e ribellione. Mi ha anche detto che in Italia esiste un carcere esemplare dove lui attualmente risiede, ed è quello di Bollate. Pare che a Bollate, infatti, sia stato messo in atto un vero sistema preventivo della recidività e che stia funzionando. I detenuti, infatti, possono usufruire di molte iniziative che una volta fuori li renderanno più pronti ad affrontare il mondo del lavoro e a mettere in atto una maggiore fiducia nella vita. È molto riconoscente e si chiede (e ce lo chiediamo tutti) se un carcere riesce ad essere un luogo costruttivo, perché tutti gli altri fanno fatica a capire che basterebbe poco per rendere migliore una persona. Un esperimento riuscito, d’altronde, è la prova che "si può", e anche tutti gli altri penitenziari potrebbero. Prendessero esempio da esperimenti ben riusciti che non permettono a un detenuto di sbagliare ancora ed entrare e uscire dal carcere (come, ahimè, succede a molti). Il carcere di Bollate dovrebbe essere un modello per tutti gli altri carceri. Un metodo che si è rivelato vincente, ad esempio, è il percorso "Cisco", un percorso a tratti duro che impone studio e impegno. D'altronde, il tempo, se impiegato in qualcosa che richiede concentrazione, passa più veloce. La recidività di chi ha messo in atto l'apprendimento di materie che una volta fuori potevano garantirgli un lavoro e quindi un reinserimento nella società, è pari a zero. Sappiamo cosa deve essere fatto, tutto ciò che manca è la volontà per farlo. Io non giudico le persone dai loro errori, ma dalla loro voglia di rimediare. Novara, casa circondariale, Opera a Milano, Regina Coeli a Roma, Vercelli: sono carceri dove non auguro di finire neanche al mio peggiore nemico. Pochi strumenti riabilitativi, pochi corsi. Nessuna opportunità di riscatto. Mi rivolgo ai rispettivi direttori. Dormite sereni la notte? Perché non incoraggiate, come fa Bollate, preparazioni e collaborazioni con le aziende che possano in futuro assumere coloro che sono usciti? I detenuti sono troppo stupidi? O lo siete voi? Non si può mai misurare la capacità di un uomo che non viene neanche messo alla prova.
Il ragazzo bellissimo di cui oggi conosco il nome (ma comunque non ve lo rivelo) mi ha incoraggiata e aiutata a scrivere questo articolo, dandomi informazioni a cui io, da fuori, non avrei potuto accedere e raccontandomi alcune delle cose che mi sono sentita di scrivere in questo articolo. Lo ringrazio, perché la sua forza mi ispira ogni giorno. Lo considero un esempio a cui fare riferimento ogni volta che le mie cicatrici non mi fanno sentire forte abbastanza. Il carcere continua a non intaccare la sua bellezza, che si rafforza ogni giorno ed illumina il buio di chi sta dentro, ma anche di chi sta fuori. Cosa avesse scritto in quel bigliettino che mi è stato strappato dalle mani, resterà oggi e per sempre un eterno mistero.