L’essere umano si adatta a tutto, pensiamo solo alle guerre. Figuriamoci al Covid. Il problema è più che altro cercare di non adattarsi al peggio, come forse abbiamo rischiato in questo periodo, dopo che la seconda ondata della pandemia ci ha spiazzato, mentre ci cullavamo nella presunzione che il pericolo fosse già passato. Un atteggiamento che ci ha illusi di aver fatto parte della Storia, con la S maiuscola, e non invece di essere ancora immersi all’interno della cronaca e dell’opinionismo quotidiano.
Tutto ciò è contenuto ne “Gli Immutabili”, il nuovo libro della giornalista Veronica Gentili, appena uscito per La Nave di Teseo, che racconta come i mesi di questa lunga quarantena abbiano cambiato inevitabilmente la nostra quotidianità. Un diario a tratti intimo che si tramuta ben presto in un racconto collettivo, in cui tutti possiamo riconoscerci: incontri con gli amici in videochiamata, occhiate sospettose e sguardi di seduzione con le mascherine, paura quando la malattia arriva a toccare i nostri affetti più cari. E mentre vediamo continuamente posticipata la speranza di ricominciare a uscire, a lavorare, a vivere, i buoni propositi si sono scontrati con una realtà che ci vede più arrabbiati e più poveri di prima. Con ironia e basandosi sull’analisi giornalistica, questo libro ci guida attraverso notizie allarmanti, fake news, riduzionisti e falsa retorica, per riscoprire tutta l’umanità che abbiamo temuto di perdere.
Abbiamo intervistato Veronica Gentili, anche perché “Gli Immutabili” non è un lavoro chiuso (come il suo finale) e conoscere più a fondo quello che qui viene descritto potrebbe aiutarci per la terza fase, che tutti speriamo sia l’ultima, ma che di certo aprirà spiragli nuovi e sui quali non dobbiamo rischiare di compiere gli stessi errori del passato.
Intanto, dopo aver fatto teatro, cinema, tv, aver scritto per i quotidiani, come ci si sente a esordire con un libro tutto proprio?
È una soddisfazione enorme, questa idea di portare a compimento il “parto”. Nelle altre attività c’è più rapidità fra ciò che fai e ciò che ti viene restituito nell’immediato. Un libro invece è un investimento, devi permetterti un tempo interno senza sapere bene cosa ne verrà fuori, quindi è un lavoro a prescindere dal risultato. Per cui è anche una richiesta maggiore che si fa a sé stessi, ma provoca maggiore soddisfazione quando vedi il tutto realizzato.
Gli Immutabili è stato definito un diario a tratti intimo che diventa un racconto collettivo in cui tutti possiamo riconoscerci, ma nel leggerlo appare anche come una sorta di romanzo in diretta di un periodo storico che di certo segnerà la vita di tutti noi.
Esattamente, era quello l’obiettivo. Perché ci siamo illusi a più tornate che potesse finire, mentre è accaduto il contrario, e cioè ci troviamo in una sorta di “Covid in progress”, a vivere un fenomeno prolungato e trascinato nel tempo senza un inizio e una fine. È il motivo per cui il libro ha un finale in itinere. Pensavamo di attraversare un processo storico, di far parte della Storia con la S maiuscola, mentre ora ci siamo dovuti rassegnare a ripiegare sulla cronaca quotidiana.
Nel tuo libro parti da un termine, “lockdown”, una “espressione presa in prestito dal gergo carcerario e dai protocolli d’emergenza, come quelli utilizzati in caso di minacce terroristiche: roba seria insomma”.
Siamo rimasti spiazzati perché non appartiene al nostro gergo, non è proprio nel nostro bagaglio linguistico. Però, nonostante la mancanza di comprensione generale, ci siamo accorti che era qualcosa di molto serio e soprattutto che ci avrebbe sequestrato alle nostre vite e alle libertà personali. È il motivo per cui in un primo tempo ci siamo dimostrati reattivi, attenti, disciplinati. Solo che, progressivamente, ci siamo dovuti abituare all’anomalia e nel libro racconto questo processo attraverso la mia quotidianità, sia dentro che fuori casa, visto che ho la fortuna di poter uscire e raccontare quel che accade in una trasmissione Tv.
La metafora che hai usato è quella della "cyclette", con il suo giro a vuoto delle pedalate.
Sì, quel gesto è diventato l’emblema della quarantena. Con il trascorrere del tempo e in particolare con la seconda ondata, ho iniziato a percepire il disgregarsi della sacralità di un certo approccio al problema, perché facciamo parte di generazioni che non hanno fatto la guerra, quindi siamo passati da un momento in cui eravamo costretti a riflettere a un altro in cui ci siamo resi conto che la storia si ripete sempre due volte: la prima in tragedia, la seconda in farsa. Oggi vedo diffuso un timore senza serietà. La componente grave con cui ci siamo rapportati al Covid non poteva durare, perché è subentrato lo spazio dell’opinione. Siamo passati dal cantare dai balconi, da momenti che ci apparivano come una grande occasione, per poi tornare a dividerci nell’essere oltranzisti gli uni con gli altri, fra allarmisti e minimizzatori, insomma ci siamo ricollocati nel solco della “normalità”, perché in fondo l'essere umano si adatta a tutto, basta dargli il tempo di farlo.
Quindi, come spieghi ne “Gli Immutabili”, in definitiva, non ne siamo usciti migliori di prima.
Ci siamo auto consolati per lenire la sofferenza di essere reclusi con il pensiero che ci saremmo trasformati in una umanità di farfalle, mentre invece siamo rimasti bruchi ma più arrabbiati, più insofferenti e più poveri di prima. Quel pensiero rassicurante da un certo punto in poi è diventato fasullo. L’hashtag #adratuttobene è stato sostituito da #siamoglistessi, da qui nasce il titolo “Gli Immutabili”.
Nel condurre Stasera Italia su Rete 4 hai un osservatorio privilegiato per seguire le evoluzioni di questo fenomeno. Persino sul diffondersi di notizie allarmanti, fake news e un atteggiamento di falsa retorica spesso nocivo. Quali aspetti della comunicazione ti hanno più inquietato?
L’elemento decisivo per le conseguenze che ha avuto riguarda tutta la serie di rappresentanti della scienza che hanno minimizzato sul virus. Pensieri che poi sono stati presi in prestito da vari rappresentanti politici. L’idea che il Covid fosse clinicamente morto, che ci fosse una volontà terroristica di spaventare le persone e di manipolare la gente attraverso la dittatura sanitaria, hanno contribuito a farci cadere nell’autunno che abbiamo appena passato. Tutti hanno diritto di esprimere una opinione, oggi poi con i social è semplicissimo, ma c’è una mistificazione nel credere che ogni opinione valga nello stesso modo, sottovalutando gli elementi di conoscenza ed esperienza su un argomento. Il risultato è stata una incertezza diffusa, lì le persone sono tornate a credere alle opinioni di comodo in base alle proprie esigenze.
Un’altra questione molto dibattuta è come l’Italia si sia comportata rispetto ad altri paesi. Dagli infetti d’Europa siamo diventati un modello, poi anche lì qualcosa si è incrinato. È ancora troppo presto per fare un bilancio?
Nella domanda è giustamente insita la risposta. Abbiamo fatto diverse valutazioni in corso d’opera e si sono rivelate, non completamente fallaci ma certamente parziali. Per tirare le somme di come ciascun paese si è comportato bisognerà attendere di esserne usciti. Ma oggi si possono mettere dei punti fermi. Il primo è rappresentato da quanto siamo stati zelanti nella diffusione dei tamponi. L’Italia ha di base una cultura cattolico-solidale, che unita a un governo che ha una cultura di sinistra, hanno contribuito dal punto di vista sanitario a privilegiare il valore della vita rispetto al valore della libertà, come invece preferisce una cultura più di destra. Secondo, credo si possa ormai mettere agli atti come tutti i paesi europei si sono fatti trovare impreparati alla seconda ondata. Ci si è voluti cullare nei risultati ottenuti e anche i più oltranzisti a un certo punto si sono lasciati un po’ andare.
Credi che passata questa pandemia, il vero tema da affrontare sarà quello del lavoro?
Nel libro personalizzo Covid, senza l'articolo. Un avversario con cui ti interfacci per così tanto tempo diventa un soggetto. Credo che uno dei “doni” di questo virus sia di aver messo in luce tutti i punti deboli dei vari paesi. È indubbio che ha portato con se una accelerazioni del digitale, nello smart working, come nella scuola, quindi ha rotto il nostro naturale conservatorismo. Per altri aspetti, ha peggiorato delle problematiche che già esistevano, come il divario tra ricchi e poveri, come la globalizzazione che ha arricchito alcuni e impoverito altri. Tutto si è accelerato. Ma io penso che il sistema migliore per proteggere le nostre economie in questa fase sia di essere attenti dal punto di vista sanitario.
Come hai vissuto i teatri chiusi e l’azzeramento di tutti gli spettacoli dal vivo?
Mi ha portato una infinita tristezza, al netto della consapevolezza di misure necessarie. Ma come al solito c’è stata una superficialità nell’approccio verso la categoria degli spettacoli, si tende a sminuire gli artisti, considerati belli e bravi, ma che si possono lasciare indietro senza troppe giustificazioni. È ancora un retaggio di una cultura che identifica l’arte come superflua. Ora registriamo un certo numero di morti e parallelamente parliamo del settore dello sci che non dovrebbe chiudere, solo che lo stesso discorso dovrebbe essere fatto per il comparto culturale. Trovo surreale, per esempio, che la scuola sia stato uno dei temi meno dibattuti. Insomma, è un po’ come se non si fosse riusciti a concentrarsi su quello che contava di più.
Ti lancio una provocazione: riuscirai a resistere allo shopping natalizio?
Il problema me lo risolvono a monte, come mi è accaduto in estate dove sono stata in onda per 99 puntate consecutive. Anche in questo periodo, dal 19 dicembre sarò ancora in diretta tutti i giorni fino a poco prima della Befana, quindi anche volendo non potrei cedere allo shopping compulsivo. In generale, credo che su questo tema siano necessari un po’ di parsimonia e di intelligenza, senza la retorica del santo Natale a tutti i costi se poi non siamo capaci di fare un sacrificio minimo nei confronti degli altri, soprattutto a chi vogliamo bene.
Allora non ci resta che consigliare il tuo libro da mettere sotto l’albero.
Giusto, bel suggerimento. Per me il regalo di Natale più bello che potevo farmi è già questo.
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