Scandalo Brandy Melville: nelle scorse settimane un nuovo documentario firmato HBO ha puntato i riflettori sul marchio di matrice italiana - ma popolarissimo negli Stati Uniti e presente anche in Italia in diverse città -, e sulle sue controversie perpetuate negli ultimi 15 anni. Fondato dagli imprenditori Silvio e Stephan Marsan, Brandy Melville non ha mai nascosto la sua predilezione per un certo tipo di estetica, rigorosamente white-coded, tanto agognata nell’era d’oro dei Millennials, dei pomeriggi su Tumblr e dei primi post soffocati dagli hashtag, agli albori di Instagram. Essere bianche, minute, acqua&sapone e taglia 0 erano i requisiti fondamentali per sperare di ottenere un posto di lavoro all’interno del marchio, o di essere ripostate sui canali social che si avvalevano di una struttura di marketing circolare, fatta di foto di influencer e clienti “meritevoli”. Per farvi capire il mood: Chiara Ferragni, Kaia Gerber e Kendall Jenner si erigevano sul trono delle celebrità più giftate da Brandy Melville, paparazzate con le loro micro t-shirt e i pantaloncini taglia unica per le strade nevralgiche della moda mondiale. Per quanto oggi, nell’era della body positivity, tutto questo ci sembri tossico e maligno, è innegabile che il culto della magrezza sia una realtà radicata da decenni nel mondo della moda, e non solo una prerogativa di marchi fast fashion come Brandy Melville. Avete mai visto una modella plus size sfilare per Armani?
Tuttavia, emergono dichiarazioni molto più agghiaccianti nel documentario “Brandy Hellville & the Cult of Fast Fashion” - che al momento ha diversi punti vendita in Italia -, e orbitano proprio attorno alla figura del Ceo, Stephan Marsan. A detta di alcuni dipendenti, infatti, il fondatore avrebbe avanzato richieste poco consone ad alcune ragazze che lavoravano in store, senza dare loro alcuna spiegazione in merito. Alcuni membri prescelti dello staff, comprese le ragazze minorenni, avrebbero dovuto inviare a Marsan degli scatti del proprio corpo a figura intera, con particolare attenzione per le zone del busto e dei piedi. Una dipendente avrebbe inoltre dichiarato di aver domandato distintamente il motivo di questa richiesta, ma i titolari più anziani le avrebbero risposto che ogni spiegazione sarebbe stata fuori discussione. Insomma, stando a quanto emerge nel documentario, se a Marsan non piaceva l’aspetto fisico di una dipendente, l’avrebbe fatta licenziare. L’intervista all’ex vicepresidente ha svelato inoltre che la direzione possedeva una chat di gruppo per ogni negozio della catena, dove le dipendenti erano tenute a inviare i propri selfie per ogni giornata di lavoro, in modo che Marsan le tenesse tutte sotto controllo. Era una regola non scritta che le giovani donne e le ragazze assunte per lavorare da Brandy Melville dovessero avere un certo aspetto fisico (magre, bianche e convenzionalmente attraenti), e vestire in un certo modo. Non suona poi così strano, dopotutto, che in alcune chat di gruppo tra dipendenti circolassero foto di Marsan con il costume da Hitler, così come gag antisemite e battute contro le persone di colore.
Ma non è tutto, perché la storia di Brandy Melville - che nel 2023 ha sfiorato i 212 milioni di dollari di vendite - si sarebbe macchiata anche di abusi e violenze. Stando a quanto narrato nel documentario, un’ex dipendente del marchio, all’epoca 21enne e in possesso di un visto per gli Stati Uniti, sarebbe stata alla ricerca di un posto dove alloggiare temporaneamente e le sarebbe stato offerto il "Brandy Apartment", un appartamento di lusso a Soho, dove pochi dipendenti selezionati avevano accesso. Molti di questi avrebbero notato che, durante la loro residenza, si presentavano a casa uomini sconosciuti, che a volte si fermavano per la notte. Uno di questi casi si è verificato con la presunta vittima di 21 anni che, in un rapporto ospedaliero, avrebbe dichiarato di essere uscita con un uomo italiano di mezza età che si trovava inaspettatamente nella casa, di aver bevuto due drink e di non ricordare nient'altro della serata, ma di essersi svegliata nuda nell’appartamento. Nella cartella clinica della ragazza si evince che la ragazza sia stata "violentata dal suo capo”, ma che non l’avrebbe denunciato alla polizia per paura di perdere il lavoro ed essere costretta a lasciare il Paese. Ma Brandy Melville rappresenterebbe una minaccia non solo nell’ambito del rispetto per il personale e i dipendenti, ma anche per l’ambiente. Secondo quanto emerso il modello commerciale del marchio “Made in Italy” - o meglio, nelle fabbriche fast fashion di Prato - consisteva nel chiedere ai dipendenti di dire all'azienda dove compravano i loro vestiti, per poi produrne delle copie esatte in serie. In pratica, come fanno i colossi cinesi Shein e Temu. L’invenduto poi verrebbe scaricato in Ghana, al mercato di Kantamanto ad Accra, dove ogni settimana vengono scartati 15 milioni di capi nuovi. Non essendoci discariche, gli indumenti verrebbero bruciati, gettati nell'oceano o sepolti a 3 metri di profondità sotto la sabbia. Da anni, i cittadini di Accra sopportano il peso dei rifiuti americani e moltissime donne ghanesi sono costrette a portare carichi di vestiti che avrebbero danneggiato permanentemente la loro spina dorsale. Ma la percezione di uno stile di vita eternamente giovane e carefree, fatto di ragazze californiane, maglioni vintage e capelli bruciati al sole, ha uno spessore più consistente rispetto alla crisi climatica e alle condizioni di vita degradanti che, in una parte del mondo troppo lontana, gli schiavi del fast fashion sono costretti a sopportare. Ed ecco dissezionato il fenomeno Brandy Melville, l’ennesimo marchio che vende stereotipi ed alimenta le fantasie di chi è nato con il cucchiaio d’argento in bocca, il cui declino è sintomo di un panorama della moda saturo di menzogne.