C’era una volta il Made in Italy delle mani sapienti, della filiera corta, della qualità che ci invidia il mondo intero. Poi, dopo decenni a decantare la nostra apparente superiorità, ci siamo svegliati. E al posto degli artigiani con il grembiule e la lampada da banco, abbiamo trovato opifici-lager, subappalti infiniti, manodopera cinese schiavizzata e aziende di lusso che, mentre si sciacquano la bocca con parole come etica e sostenibilità, alimentando un sistema che di etico non ha nemmeno un profumo - figuriamoci una borsa. Spiegato facile: la favola del “Made in Italy” rischia di finire in tribunale, perché le griffe più prestigiose della moda italiana continuano a essere coinvolte in scandali di caporalato e sfruttamento nei subappalti.

L’ultima perla in ordine cronologico si chiama Valentino Bags Lab. È controllata al 100% dalla maison Valentino e secondo il tribunale di Milano, che ha appena messo la società sotto amministrazione giudiziaria, dopo fitte indagini nel corso del 2024 avrebbe agevolato - consapevolmente o meno - un meccanismo ben rodato di sfruttamento del lavoro. Come? Appaltando la produzione di borse a fornitori che, a loro volta, facevano capo a una rete di opifici cinesi che operavano in nero e fuori da ogni minima tutela. Il dramma è che si tratta di un sistema talmente collaudato da sembrare più un modello industriale, che un’eccezione. E infatti non lo è. Prima di Valentino c’è stato Dior, e prima ancora Armani e Alviero Martini. Marchi di moda che rappresentano il vertice del lusso, ma che si poggiano su fondamenta marce dove lo sfruttamento è routine e la legalità un optional. E intanto, sulle passerelle, sfilano borse da 2.500 euro che raccontano la favola di un’Italia che non esiste più (ammesso, a questo punto, che sia mai esistita davvero). Ma nel frattempo l’immaginario rimane intatto, perché la narrazione delle mani sapienti e del savoir-faire che ci invidiano in tutto il mondo è troppo redditizia per essere messa in discussione.
Il Made in Italy è riassunto in una favoletta iperbolica che giustifica i prezzi, rassicurando il consumatore che si sente migliore solo perché compra “consapevole”. La verità, però, è ben più scomoda, perché molto di quello che etichettano come “italiano”, di fatto, non lo è. È sufficiente che una parte del prodotto venga lavorata in Italia - magari l’ultima cucitura, magari solo il controllo qualità - e il tricolore è salvo, la coscienza pure. Il sistema dei subappalti nella moda, ormai, è talmente strutturato da funzionare come una scusa legale. I grandi marchi, ufficialmente, non sanno nulla: delegano la produzione, e si lavano le mani delle condizioni in cui essa avviene. Valentino, in questo caso, non è accusata direttamente di sfruttamento, ma di non aver vigilato sul sistema che lo rende possibile, e già questo basterebbe per incrinare la narrazione glamour che avvolge il marchio. Dopotutto, tagliare sui costi di produzione è il metodo più antico del mondo, e farlo mentre si parla di eccellenza italiana, sostenibilità e manifattura etica è semplicemente ipocrisia.

Nel frattempo, il mercato pullula di “dupe”, copie più o meno fedeli dei prodotti di lusso vendute a un decimo del prezzo su TikTok, al buon vecchio mercato, o su piattaforme di vendita online. E se una volta l’indignazione verso le copie cinesi era unanime, oggi il confine tra originale e copia si fa sempre più labile. Perché se la borsa da 2.000 euro e quella da 20 sono fatte, alla fine, nello stesso distretto industriale con la stessa manodopera sfruttata… allora chi è davvero il truffatore? Se la tua borsa “originale” è stata cucita nello stesso laboratorio in cui nasce il suo clone da 30 euro, negli stessi orari disumani, allora cosa rende originale davvero il tuo prodotto?
Finché continueremo a confondere l’artigianalità con l’etichetta e la qualità con il prezzo, lasceremo che l’industria della moda resti impunita. La verità è che le inchieste - poche, lente, isolate - sono solo la punta dell’iceberg. Serve una presa di coscienza collettiva e smettere di parlare del “problema cinese” come se fosse esterno al sistema. È tempo di guardare in faccia la realtà: il lusso non è più sinonimo di eccellenza, ma di narrazione (la favoletta che vi raccontavo prima). Peccato, però, che anche quella favola ormai faccia acqua da tutte le parti.
