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Dior, Valentino e tutti gli altri stro*zi: guida aggiornata al caporalato nell’alta moda, quello del Made in Italy a basso budget cucito nei seminterrati

  • di Silvia Vittoria Trevisson Silvia Vittoria Trevisson

17 maggio 2025

Dior, Valentino e tutti gli altri stro*zi: guida aggiornata al caporalato nell’alta moda, quello del Made in Italy a basso budget cucito nei seminterrati
Il Made in Italy si cuce nei seminterrati, tra turni massacranti e salari da fame, nel paradosso del lusso che s’indigna tanto per i dupe, ma sfrutta la stessa manodopera. E a farsi fregare è sempre chi compra (e chi cuce)

di Silvia Vittoria Trevisson Silvia Vittoria Trevisson

C’era una volta il Made in Italy delle mani sapienti, della filiera corta, della qualità che ci invidia il mondo intero. Poi, dopo decenni a decantare la nostra apparente superiorità, ci siamo svegliati. E al posto degli artigiani con il grembiule e la lampada da banco, abbiamo trovato opifici-lager, subappalti infiniti, manodopera cinese schiavizzata e aziende di lusso che, mentre si sciacquano la bocca con parole come etica e sostenibilità, alimentando un sistema che di etico non ha nemmeno un profumo - figuriamoci una borsa. Spiegato facile: la favola del “Made in Italy” rischia di finire in tribunale, perché le griffe più prestigiose della moda italiana continuano a essere coinvolte in scandali di caporalato e sfruttamento nei subappalti.

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L’ultima perla in ordine cronologico si chiama Valentino Bags Lab. È controllata al 100% dalla maison Valentino e secondo il tribunale di Milano, che ha appena messo la società sotto amministrazione giudiziaria, dopo fitte indagini nel corso del 2024 avrebbe agevolato - consapevolmente o meno - un meccanismo ben rodato di sfruttamento del lavoro. Come? Appaltando la produzione di borse a fornitori che, a loro volta, facevano capo a una rete di opifici cinesi che operavano in nero e fuori da ogni minima tutela. Il dramma è che si tratta di un sistema talmente collaudato da sembrare più un modello industriale, che un’eccezione. E infatti non lo è. Prima di Valentino c’è stato Dior, e prima ancora Armani e Alviero Martini. Marchi di moda che rappresentano il vertice del lusso, ma che si poggiano su fondamenta marce dove lo sfruttamento è routine e la legalità un optional. E intanto, sulle passerelle, sfilano borse da 2.500 euro che raccontano la favola di un’Italia che non esiste più (ammesso, a questo punto, che sia mai esistita davvero). Ma nel frattempo l’immaginario rimane intatto, perché la narrazione delle mani sapienti e del savoir-faire che ci invidiano in tutto il mondo è troppo redditizia per essere messa in discussione.

Il Made in Italy è riassunto in una favoletta iperbolica che giustifica i prezzi, rassicurando il consumatore che si sente migliore solo perché compra “consapevole”. La verità, però, è ben più scomoda, perché molto di quello che etichettano come “italiano”, di fatto, non lo è. È sufficiente che una parte del prodotto venga lavorata in Italia - magari l’ultima cucitura, magari solo il controllo qualità - e il tricolore è salvo, la coscienza pure. Il sistema dei subappalti nella moda, ormai, è talmente strutturato da funzionare come una scusa legale. I grandi marchi, ufficialmente, non sanno nulla: delegano la produzione, e si lavano le mani delle condizioni in cui essa avviene. Valentino, in questo caso, non è accusata direttamente di sfruttamento, ma di non aver vigilato sul sistema che lo rende possibile, e già questo basterebbe per incrinare la narrazione glamour che avvolge il marchio. Dopotutto, tagliare sui costi di produzione è il metodo più antico del mondo, e farlo mentre si parla di eccellenza italiana, sostenibilità e manifattura etica è semplicemente ipocrisia.

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Valentino, SS25.

Nel frattempo, il mercato pullula di “dupe”, copie più o meno fedeli dei prodotti di lusso vendute a un decimo del prezzo su TikTok, al buon vecchio mercato, o su piattaforme di vendita online. E se una volta l’indignazione verso le copie cinesi era unanime, oggi il confine tra originale e copia si fa sempre più labile. Perché se la borsa da 2.000 euro e quella da 20 sono fatte, alla fine, nello stesso distretto industriale con la stessa manodopera sfruttata… allora chi è davvero il truffatore? Se la tua borsa “originale” è stata cucita nello stesso laboratorio in cui nasce il suo clone da 30 euro, negli stessi orari disumani, allora cosa rende originale davvero il tuo prodotto?

Finché continueremo a confondere l’artigianalità con l’etichetta e la qualità con il prezzo, lasceremo che l’industria della moda resti impunita. La verità è che le inchieste - poche, lente, isolate - sono solo la punta dell’iceberg. Serve una presa di coscienza collettiva e smettere di parlare del “problema cinese” come se fosse esterno al sistema. È tempo di guardare in faccia la realtà: il lusso non è più sinonimo di eccellenza, ma di narrazione (la favoletta che vi raccontavo prima). Peccato, però, che anche quella favola ormai faccia acqua da tutte le parti.

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