C’era una volta, con base in Veneto, un impero tessile che colorava il mondo. Era l’epoca in cui i maglioni Benetton, più sgargianti dei film di Bollywood, si mostravano orgogliosi nelle vetrine delle città. Oggi, quell’impero sfoggia ancora il colore rosso, ma non per ragioni di stile: sono i conti a sanguinare, anche se un po’ meno di prima.
Nel 2024, Benetton Group ha più che dimezzato le perdite, portandole sotto quota 100 milioni. “La cura Sforza inizia a fare effetto”, titola il Corriere della Sera. Claudio Sforza, manager chiamato alla guida dell’azienda a giugno dello scorso anno, è il “risanatore” che promette di traghettare il gruppo fuori dalle sabbie mobili della crisi. Secondo Milano Finanza, il “rosso” di bilancio è sceso da 235 milioni a “poco meno di 100 milioni”, battendo le previsioni che indicavano un disavanzo di 110. A voler essere puntigliosi, il 2023 si sarebbe chiuso con soli 85 milioni di perdita se non fosse stato per “150 milioni di svalutazioni per il magazzino”, come ricordato sempre da MF.

Ma facciamo un passo indietro. Perché Benetton è finita in questa situazione? Per un decennio, l’azienda è parsa in letargo, incapace di adattarsi al nuovo paradigma del retail digitale. Mentre il mondo correva verso l’e-commerce, Benetton arrancava, con una quota di vendite online che nel 2024 è ancora ferma al 13% – contro una media di settore del 30%. “Sforza vuole farla crescere al 20-25%”, segnala Milano Finanza, e ha creato una divisione dedicata, che risponde direttamente a lui. Un gesto simbolico e sostanziale: l’online non è più un canale accessorio, ma la spina dorsale del futuro.
Il prezzo della resurrezione, tuttavia, è salato. “Sono stati chiusi 495 negozi, circa la metà in Italia”, scrive il Corriere, lasciandone attivi poco più di 600 su tremila totali. È il più grande ridimensionamento della rete commerciale nella storia del gruppo. Ma c’è una nota positiva: “Il fatturato dei negozi diretti è cresciuto in media del 7%”, segno che il consolidamento – in gergo aziendale: chiudere dove si perde, investire dove si guadagna – sta pagando.
E le vendite complessive? Tengono. Il gruppo ha chiuso l’anno con ricavi per 916,9 milioni di euro, contro 1,098 miliardi del 2023. Un calo, certo, ma contenuto, specie se si considera che “la produzione industriale del settore tessile è calata del 10,8% nell’ultimo biennio” (Il Messaggero). Anche la posizione finanziaria netta migliora: da -460 a -411 milioni. Sforza ha usato 90 dei 260 milioni messi a disposizione da Edizione, la holding di famiglia presieduta da Alessandro Benetton. Ne serviranno altri “30-50 per completare il percorso”, precisa il Corriere.

Il piano del nuovo ceo si articola su cinque pilastri – “rilancio del brand, potenziamento dei canali digitali, riduzione del costo del prodotto finito senza rinunciare alla qualità, razionalizzazione della rete e taglio dei costi generali” – e si fonda su un cambio di paradigma produttivo: stop agli stabilimenti in Tunisia, Croazia e Serbia; produzione esternalizzata e ciclo più breve (da 12 a 6 mesi), come spiegato da Il Messaggero.
Villa Minelli, ex cuore pulsante dell’azienda, è stata svuotata. Tutto ora ruota attorno al polo di Castrette di Villorba. Una mossa che ha “consentito una gestione più sinergica ed efficiente”, osserva sempre Il Messaggero, e che ricorda un principio semplice ma spesso ignorato: quando la casa brucia, si spengono gli incendi, poi si ristruttura.
Resta da capire se questo risanamento sia davvero un rilancio o solo un’agonia meglio gestita. In Corea del Sud – uno dei mercati più vivaci del gruppo – sono state lanciate le nuove collezioni Sisley K e Bbold, esperimenti che mescolano minimalismo asiatico e branding occidentale. È un segnale, forse, che il marchio sta cercando una nuova anima. Eppure, il dubbio resta. Benetton può davvero tornare a essere quello che era, o siamo davanti a un’elegante decostruzione, un lungo addio in technicolor? Sforza punta al pareggio di bilancio entro il 2026. Il tempo dirà se la sua è una sinfonia di resurrezione o l’ultimo, lucido accordo di chi sa che i maglioni, prima o poi, passano di moda.