La prima cosa che mi viene in mente, arrivando in viale Piave, è che la sfilata di Dolce & Gabbana per la Milano Fashion Week si tiene in quello che una volta era il cinema Metropol, dove un milione di anni fa devo aver visto “Balla coi Lupi” con mia zia. Ci penso senza nessun rimpianto: visto quanto fanno schifo i film di oggi, che i cinema siano andati in malora lo ritengo nell’ordine delle cose.
La strada è chiusa, il traffico impazzito, l’ultimo tratto a piedi con mia moglie – Alessia Kant – che mi insulta perché vado troppo veloce.
“Se non rallenti mi rompo un tacco, cazzo!”. Se avessi visto al liceo una sua foto scattata oggi con sopra scritto “questa sarà tua moglie” mi sarei risparmiato due decenni di analisi.
Davanti alla “location”, anzi, “allo spazio”, come dicono i giusti, una transenna lunga come il fiume Stige divide il mondo in due: di qui quelli con l’invito, di là l’inferno dei dannati col telefonino in mano, un muro umano che emette grida e rantoli ogni volta che avvista qualcuno di famoso.
Altra riflessione: la fama oggi è una cosa complicata. Guardate una sfilata qualsiasi fino agli anni dieci di questo secolo, e riconoscerete tutti o quasi gli occupanti delle prime file. Provateci oggi: se avete una socialità minimamente normale, non riconoscerete quasi nessuno. Attori koreani, cantanti k-pop, tik toker americane, restare al passo con l’who’s who è esso stesso un lavoro a tempo pieno, la prova provata che Andy Warhol non aveva capito nulla, nel futuro non abbiamo tutti un quarto d’ora di notorietà: siamo tutti famosi, ma solo per i quindici stronzi che ci seguono sui social. Quando arriviamo nella zona calda, le ragazzine aguzzano gli occhi, trattengono il respiro puntandoci addosso gli ordigni elettronici; poi una fa “Naah, questi non sono un cazzo di nessuno” e dirigono i loro sguardi altrove.
A proposito di mia moglie. Sei mesi fa sapeva a malapena chi fossero, Dolce & Gabbana (o Dolceggabbana, come diciamo noi che anche se siamo andati via dalla Barona, la Barona non è mai uscita dal nostro corpo).
Per me, sono una malattia, da quando sul finire degli anni ’90 vidi Dumbo – non l’elefantino, Dumbo il graffitaro, la cui tag chiunque è cresciuto a Milano conosce e che per me, a quei tempi, era l’equivalente del Mullah Omar per un talebano – saltare su un palco con addosso l’iconica canotta bianca con sopra scritto D&G, tanto che la prima volta che ho guadagnato dei soldi (nel 2001, tre milioni di stipendio mensile come conduttore di Italia Uno) sono andato in boutique a comprarmi una maglietta, 500 mila lire del vecchio conio. E da allora ci sono sempre ritornato, perché Dolce & Gabbana è uno degli ultimi brand nel settore della moda a rappresentare un culto, chi lo compra, generalmente, compra solo loro e degli altri, di tutti gli altri, se ne frega. Non avrai altri influencer al di fuori di Stefano e Domenico.
Invece, come dicevo, mia moglie della moda se n’è sempre fregata, eppure da quando l’ho portata alla sfilata dello scorso giugno è stata contagiata e adesso conosce meglio di me le collezioni, i materiali, i prezzi, gli abbinamenti.
La cosa mi sorprende. Alessia ha due lauree, un master, un dottorato di ricerca: l’Istat la metterebbe ai vertici di qualunque piramide socio-culturale; eppure, la malattia l’ha corrotta in pochi mesi, il tempo di un autunno-inverno.
Certo, la bellezza dei vestiti: dalla pandemia in poi, i due stilisti non hanno sbagliato un abito, e il loro nuovo motto – less is more – che fa da linea-guida allo sviluppo di ogni nuova collezione rappresenta perfettamente lo spirito del tempo di questi tempi disgraziati. Se il futuro che ci attende è questo, non resta altro da fare che tornare alle radici, ed è per questo che Dolce & Gabbana, negli ultimi anni, hanno riproposto i loro capi storici in edizione re-edition, con tanto di etichetta vintage appiccicata con sopra scritto l’anno di produzione originale: tornare indietro è l’unico modo per andare avanti.
Ma c’è qualcosa che va oltre l’abito, per quanto rigorosamente #fattoamano, qualcosa di più profondo. Nell’epoca dell’inclusione di facciata, delle chiacchiere sull’uguaglianza, Dolce & Gabbana resta un mondo dentro al mondo, orgogliosamente esclusivo.
Insomma: il fulcro è la transenna, metafora della certezza di essere – per una volta - parte di qualcosa per pochi, e di esserlo senza dover chiedere scusa a nessuno. Unapologetic, come dicono gli americani.
Nel 2013, quando il processo di finta democratizzazione sociale cui sopra incominciava, Dolce & Gabbana, dopo aver chiuso la seconda linea cheap D&G, si lanciavano nella scommessa folle di Alta Moda e Alta Sartoria, la loro personale visione dell’Haute Couture in un momento in cui l’Haute Couture andava scomparendo persino a Parigi. Dieci anni dopo, non solo Alta Moda e Alta Sartoria sono un successo (tra chi se lo può permettere, of course), ma lo stesso prêt-à-porter non è arretrato di un millimetro.
I vestiti, pur nel loro ritorno all’essenziale, restano inaccessibili alle masse.
Ed è inutile sgranare gli occhi, è inutile fare gli ipocriti: nel secolo della riproducibilità digitale, dove le AI ci riprodurranno anche l’anima per poi venderla a poco, tutti vorremmo essere unici, tutti vorremmo sentirci insostituibili. Non si spiegherebbe, altrimenti, perché il marketing di ogni settore faccia riferimento ossessivo al “su misura”, al servizio “personalizzato”, all’ufficio – qualunque ufficio - che in realtà è “una piccola boutique” dove si lavora solo in una logica “tailor made”.
Siamo tutti inclusivi a parole, ma sappiamo benissimo che la felicità è il più esclusivo dei club: e il mondo Dolce & Gabbana serve esattamente a quello, a dare quel brivido, quella sensazione fuggente. Per un attimo, io solo.
Con mezz’ora di ritardo inizia la sfilata, introdotta come di consueto dalle note della Cavalleria Rusticana, un concentrato di italianità iperbolica che altrove risulterebbe stucchevole e qui invece risulta struggente. Poi escono i vestiti: bellissimi, perfetti, esclusivi.
È triste ridurre la propria identità a un consumo? Certo. Ma è ben più triste definirla sulla base di un’ideologia ipocrita. E qui, almeno, l’unica ideologia che conta è la bellezza.