Otto anni alla guida di una delle testate femminili più seguite e riconosciute nel mondo della moda e del lifestyle, Cosmopolitan, un libro che racconta la moda tra musica e caos, una pandemia che ha rimesso tutto in discussione e un approccio alla vita curioso, da viaggiatrice, che inciampa nelle cose ma che non accetta di rimanere per terra a subire passivamente gli eventi.
Francesca Delogu ci racconta il suo ultimo libro Il mio analista è un basso elettrico e non si dice turbata (almeno lei) dalla dipartita di Alessandro Michele alla guida di Gucci. Che ha un potenziale d’artista ma per il momento non è Jackson Pollock: "Basta dargli dell'artista incompreso. Il suo è semplicemente un cerchio che si chiude". Perché chi oggi grida al genio, e allo scandalo per l'addio improvviso, è lo stesso che meno di dieci anni fa titolava "Alessandro chi?" davanti alla scelta rivoluzionaria di Gucci di assumerlo come guida del brand. Che cosa farà adesso? E chi sceglierà di assumere Gucci al suo posto? Delogu ci dice la sua su questo periodo di cambiamento assoluto nel mondo della moda.
Dopo otto anni alla guida di Cosmopolitan è nato il libro Il mio analista è un basso elettrico. Com’è arrivato questo saggio?
Come tante cose della mia vita anche questo libro è arrivato per caso. Quando l’editore ha visto che ero uscita da Cosmopolitan mi ha contattata per scrivere questo libro. All’inizio doveva essere qualcosa di più vicino a un saggio sulle testate femminili, poi diventato qualcosa di più personale, quasi psicoanalitico. Mi chiedevo chi potesse essere interessato a quello che avevo da dire, poi alla fine ho trovato un taglio che potesse raccontare di più. Anche il titolo è arrivato per caso, un titolo che è una parte per il tutto, ovvero che al suo interno racconta una parte di quello che il lettore troverà ma che allo stesso tempo espire "il resto". Nel libro oltre al basso ci sono altri due strumenti importanti della mia vita: il pianoforte e la tromba, strumenti che oltre ad avermi accompagnata per gran parte della mia esistenza, sono stati anche un mezzo per raccontare il caos e molte situazioni manageriali in cui mi sono trovata negli e che appunto ho raccontato.
Che cosa ha voluto raccontare con questo lavoro?
È una sorta di grido contro la perfezione, contro l’ansia che abbiamo tutti, anche molti miei colleghi, di essere perfetti. Un desiderio utopico ovviamente e che ci porta ad inseguire dei modelli impossibili. Attraverso questo libro spero di poter tirare fuori, di poter esprimere il lato punk all’interno di tutti noi e di dare il là per iniziare ad amare anche il nostro lato perdente. La musica in questo ti aiuta: nella musica sbagli sempre eppure vai avanti. Nella vita invece non è così , soprattutto nel lavoro.
Secondo lei la moda ha qualche responsabilità in questa ossessiva ricerca della perfezione?
No, non credo che la moda abbia questa responsabilità. Anche perché nella moda c’è tutto e di tutto. È proprio un nostro modo di vedere le cose e il mondo. La moda è anche molto giocosa e vivendola da dentro ti rendi anche conto di quanto sia un enorme business con delle dinamiche molto complesse. Le pressioni alla fine partono da dentro di noi, perché siamo noi i primi sabotatori di noi stessi. Siamo noi a scegliere di guardare un unico punto di vista, quello di solito che non ci sta bene. Non lo dico per gratificare un mondo che non mi interessa più gratificare, ma perché effettivamente le offerte dei designer sono infinite e siamo noi a scegliere puntualmente quello che non ci sta bene o che ci convinciamo che non ci stia bene per come viene proposto.
Se il resto del pianeta immagina il fashion system è impossibile non pensare a Il diavolo veste Prada. Quando c’è di vero in quella narrazione?
Quel film ha uno storytelling che ci piace, che vuoi condividere. È sicuramente una storia che acchiappa, quella malignità ti rimane impressa. Ma oggi come oggi un approccio del genere non può esistere. Poteva esistere in mondi molto ricchi, in realtà strutturate come quella che viene raccontata nel film, ma ormai le redazioni sono piccole e ridotte all’osso, la figura di un unico direttore che tiranneggia sugli altri non è credibile. Oltre a Il diavolo veste Prada andrebbe ricordato anche The bold type, una serie che centrava molto anche con il mondo di Cosmopolitan, una realtà dove succedono cose molto divertenti. Come effettivamente era la mia vita in quella redazione.
Dopo otto anni di Cosmopolitan direi che possiamo farle qualche domanda sul caso “Alessandro Michele vs Gucci”. È vero che è stato mandato via perché non vendeva?
Questo non posso saperlo, quello che immagino possa essere successo è che sia accaduta la stessa cosa successa con Tom Ford quando ha rilanciato un brand ormai impolverato come Gucci, rendendo tutto più minimal e più sexy rivoluzionando sia il brand che i fatturati. Ad un certo punto però è finita anche quella collaborazione, perché ricordiamoci che Gucci è quotata, e deve quindi rendere conto a degli investitori. E così come è finita con Tom Ford, è finita anche l’era di Alessandro Michele come in realtà è giusto che sia, tra l’altro credo di comune accordo. Non supporto più di tanto la tesi riportata dai titoli dei giornali cioè che di fronte a pesanti segni meno nei fatturati lo stilista sia stato mandato via a calci.
Che cosa intende?
Ho letto online commenti come: “Era un artista non gli hanno lasciato fare quello che ha voluto”. Mi spiace dirlo ma quella non è arte, al massimo quella è arte al servizio di un brand, che deve tenere conto di una serie di cose come la vestibilità e la vendibilità. Per me sei un artista se sei Pollock, non so se lavori per una big company quotata in borsa. Puoi anche avere un quoziente d’artista ma sei comunque un artista al servizio di un prodotto , di una maison enorme del gruppo Kering.
E ora che succede? Dove andrà?
Me lo sono chiesta, e la risposta che mi sono data è che forse la cosa migliore sarebbe rimanere fermo. Rimanere nell’ombra. Non me lo vedo da nessuna parte; qualunque nuovo progetto su altri brand in questo momento lo vedrei troppo come un “guccizzare” un’altra casa di moda. Il suo è uno stile davvero molto riconoscibile e la cosa migliore adesso sarebbe fare decantare il tutto. Occuparsi di tutt’altro e indirizzare la sua creatività in qualcosa di completamente diverso, come ha fatto Tom Ford del resto. Oppure aprire una sua linea ed essere finalmente libero di esprimersi come vuole lontano dalle logiche di business in cui ha vissuto fino ad oggi. Non me la sento di partecipare a questo toto Alessandro Michele. Me lo vedo a fare le eremita sull'Himalaya.
E Gucci su chi punterà?
Secondo me potrebbe prevedere una sorta di stilista meno fancy, meno immaginifico rispetto a Michele, che traghetti lentamente il brand verso il futuro, sfrondando le cose più estreme , quelle che hanno eccessivamente l’impronta “dell’art director uscente”. Forse una persona più sobria e meno appariscente. Dopo il super carismatico ed empatico “Wojtyla della moda” la maison ha bisogno di un designer più “Ratzinger”, anche perché il mondo adesso è ferito da questo cambiamento, c’è bisogno di qualcuno che raffreddi il momento. Ricordiamo inoltre a tutti quelli che ora dicono che la maison ha tradito Alessandro Michele, che è la stessa azienda che ha visto in lui il talento iniziale e che quando si è insediato alla sua guida, i giornali titolavano con “Alessandro chi?“.
Nel frattempo Raf Simons ha scelto di chiudere il suo storico brand. Si dedicherà soltanto a Prada?
Chissà, è un rumors che si sta sentendo negli ultimi giorni. Forse sì, si dedicherà di più a Prada. Può essere che per la sua azienda si sia chiusa un’epoca. Ci sono sempre molte ragioni legate alla chiusura di un brand e appunto di un’epoca, non è mai una sola. Però si, potrebbe concentrarsi di più su Prada. Dopo la pandemia c’è stata una grande spallata in cui tutti abbiamo rivisto la nostra vita chiedendoci “quali cose vogliamo portare avanti nel futuro?”. Forse lui ha deciso di investire le sue energie solo su quello che potenzialmente poteva dargli più soddisfazione, lasciando indietro il resto.