Tubolare, realizzata a mano, duecentocinque grammi, cimosato, SBAM. Se hai un profilo Instagram ci sono buone possibilità che tu queste parole le abbia già sentite. A pronunciarle con la stessa sacralità di un sacerdote a messa (con oltre 150 mila seguaci nel momento in cui scriviamo) è Emanuele Tumidei, fondatore del marchio di abbigliamento Menadito che puntualmente, ogni giorno da ormai diversi mesi, dà in pasto al suo pubblico una cerimonia di vestizione attraverso l’account @life.file. Emanuele fa schioccare l’elastico dei calzini, tiene il microfono sui lacci delle scarpe per farne sentire il suono, fa la stessa cosa quando la cintura - che può essere in pelle realizzata a mano, ma anche una corda da ferramenta - viene fatta scorrere tra i passanti dei pantaloni, spesso dei baggy o dei Medicina. Le clip finiscono quasi sempre con cinque spruzzate di essenza, un cappello o una collanina realizzata a mano. Il risultato può essere piacevole o meno e ci sono buone probabilità che replicare le sue scelte richieda un certo coraggio, ma non è questo il punto: il punto, piuttosto, è che sai come comincia ma non hai idea di come andrà a finire. Lui impone ritmo ai video con sguardi fissi, pose plastiche, qualche battuta. Se il suo account è ormai esploso è perché questi video sono ipnotici, un guilty pleasure che in qualche modo finisce per condizionarti: un giorno, senza accorgertene, potresti ritrovarti davanti allo specchio a scegliere vestiti con più attenzione del solito. Così ci siamo organizzati con lui per una lunga chiacchierata: eccola. E sbam.
Partiamo con una domanda lunga e complicata: cosa ti ha portato ad essere la persona che sei oggi in termini di stile?
“Sicuramente un sacco di influenze, di contaminazioni, a partire dalle mie passioni: io ho sempre suonato e l’ho fatto per tantissimi anni, ed anche se ora non lo faccio da un po’ l’amore per la musica è sempre fortissimo. Poi sono appassionato di arti figurative: fotografia, video, pittura. Io dipingo… Tutte queste cose mi hanno sempre attirato e hanno finito per lasciarmi qualcosa dentro. Poi ho studi tecnici, anche legati al mondo del design - che ho studiato a Milano - e gestisco un’azienda di mobili: nella vita ‘reale’ gestisco un’azienda famigliare da tanti anni sul mercato che produce e vende in tutto il mondo, una realtà consolidata e storica con tutti i pregi e i difetti che puoi immaginare di cui sono la terza generazione. Un giorno è nata questa sfida nel mondo della moda e dell’abbigliamento ma in realtà per me è un diversivo, qualcosa che mi rappresenta molto perché unisce tutto il mio linguaggio”.
Che musica fai? Perché a vederti potresti fare hip-hop, ma anche country.
“Nel gruppo che avevo io, che si chiama Margot, facevamo un folk unito all’umorismo, al reggae, qualche influenza ska e sicuramente qualche deriva verso il mondo hip-hop”.
E l’azienda?
“Si chiama Tumidei, è un’azienda di sistemi per l’arredo che produce in house, certificata qualità-ambiente-sicurezza ed FSC, con una grande attenzione alla sostenibilità. Commercializziamo in tutto il mondo tramite un grosso gruppo di distribuzione internazionale in oltre 250 punti vendita nel mondo ed altrettanti sul territorio italiano.”
Tra novembre 2022 e febbraio 2023 hai cominciato a fare video su Instagram in cui mostravi i tuoi outfit, roba ragionata in cui spiegavi come e perché vestirsi in un certo modo. Poi hai cominciato a ridurre, a tagliare: qual è stata la bussola che ti ha portato a questi reel?
“È stato un percorso, perché in realtà anche come content creator nasco molto prima, paradossalmente all’inizio facevo video su YouTube con un canalino che non seguiva praticamente nessuno. All’inizio con life.file su Instagram facevo contenuti legati ai viaggi, sperimentavo. Poi ho fatto anche la gavetta sul campo tra servizi fotografici, matrimoni e shooting. L’idea con questi video era quella di creare qualcosa di non troppo impegnativo in termini di riprese e montaggio, perché volevo avere una continuità legata al mio brand, all’abbigliamento… L’unica cosa che potevo fare era renderlo personale, metterci del mio: il mio carattere, le mie battutine…”
Lo shop Menadito è esploso quando hai cominciato a fare grossi numeri coi video?
“Si tratta sempre di una realtà piccola, ma se considero da dove venivamo è stato un incremento esponenziale tutto concentrato in un brevissimo tempo: non siamo neanche preparati e pronti per far fronte a così tante richieste! Da un lato è una cosa bella perché il nostro concetto è sempre stato quello di non produrre in eccesso evitando gli sprechi, motivo per cui lavoriamo su ordinazione, su misura e su richiesta, tutto per dare un po’ una mano al settore dell’abbigliamento. Poi è chiaro che il capo che inquina meno è quello non prodotto, ma alla fine cerchiamo sempre di buttare un occhio a questo”.
Ti ricordi il momento in cui hai fatto il primo grande salto in termini di popolarità?
“Per qualche motivo un paio di video sono capitati davanti a tutti, quindi anche a chi contenuti del genere li odia: mi sono trovato davanti ad una cosa enorme, magari poi c’è chi rimane soltanto stregato da questa routine, da questo rituale. Io non mi sono inventato niente, ma tutte queste piccole cose hanno fatto sì che l’algoritmo spingesse molto i miei video”.
Sei tra i pochi a dimostrare quanto gli hater siano fondamentali per avere successo. Ora tanta gente posta commenti un po’ bastardi sotto i tuoi video per prendere il like, senza essere davvero cattiva. Però magari è più complicato di così: tu come vivi questo rapporto con chi ti scrive?
“Questa è una realtà che ha due facce. Io sono il fan numero uno di quelli che ti prendono un po’ in giro con simpatia e creatività, perché comunque la risata te la strappano. Quello che fa lo sfottò simpatico o quello che ti imita ci sta, vale tutto, sono le famose regole del gioco. Solo che anche in questo caso c’è una parte di bullismo digitale e violenza verbale, quella cattiveria che non condivido e chiaramente non appoggio. Mi preoccupa non solo per me - io ho la mia sicurezza, la mia stabilità, il mio lavoro e la mia famiglia - ma avendo dei figli il mio occhio è sempre rivolto a loro, che magari non si mettono in gioco per paura di scontrarsi con queste dinamiche. A me questa cosa dispiace tremendamente e non ne capisco il motivo. In tanti mi scrivono per supportarmi ed è bello che per certe cose ci sia ancora indignazione”.
Se tua figlia cominciasse a fare video cosa le diresti?
“Beh, è anche una questione di visibilità: quando avevo diecimila follower mi scrivevano solo cose positive, era gente a cui piaceva quello che proponevo. Nel momento in cui è andata in pasto a tutti è arrivato anche qualche hater, o magari gente che vuole tirarti giù. Noi abbiamo la logica che appena sali un pochino la gente vuole tirarti giù, tenerti lì. A mia figlia direi che c’è anche questo e di non considerarlo perché non è il mondo reale, almeno in termini di dinamiche con il prossimo”.
A stupire dei tuoi video forse è il fatto che rispetto a tanti altri creator tu metta un po’ di cultura nel mezzo, non stai starnazzando in video imponendo il tuo tormentone. E poi per come ti comporti e per le cose che racconti riesci a trasmettere il fatto che non lo fai per necessità lavorativa. Quanto ti piace effettivamente farlo?
“Ah, a me piace molto e lo faccio per mia disciplina, volevo avere una mia routine che mi permettesse anche di crescere con il mio stile personale. Poi ho cercato di farlo con educazione, rispetto e tutto quello che vorrei che gli altri avessero nei confronti degli altri. Perché magari anche da chi non fa quello che ci interessa possiamo imparare o rubare qualcosina”.
Il tuo outfit perfetto?
“Difficile, i fondamentali! Io dico sempre che facciamo e vendiamo degli stracci: non facciamo operazioni a cuore aperto e non abbiamo la cura contro il cancro, bisogna dare alle cose il valore che hanno. Poi ci piacciono, ci aiutano ad esprimerci… va bene tutto. Io mi vesto in base all’umore, alla giornata, agli impegni che ho”.
Quanto ci metti a vestirti la mattina?
“Poco, alla fine mi viene abbastanza naturale. Un po’ di creatività innata ci deve essere”.
Quanto spendi in vestiti?
“Ora molto poco! Ho aperto un negozio di abbigliamento proprio perché Michael ed io (il socio, ndr.) siamo due compratori seriali e spendevamo davvero tanto in vestiti. Così abbiamo pensato di fare un nostro brand in modo da evitare la bancarotta ed essere noi i nostri primi e migliori clienti. Comunque ecco, in realtà non spendo moltissimo, anche se è piuttosto relativo… ma devo dire che non ci sto troppo attento. Per il resto a me piace molto acquistare in negozio, incontrare persone ancora mi regala tanto. Poi ogni tanto c’è anche l’online, soprattutto per i gruppi di grande distribuzione: la camicetta di Zara, roba del genere”.
Quante scarpe hai nell’armadio?
“Me l’hanno chiesto in tanti… ma non ho un numero, non lo saprei dire. Non tantissime però, vedo della gente che ha armadi di scarpe, io ne ho una buona parete e altra roba al piano di sotto, ma non troppe. Magari le conterò”.
La tua vera malattia? Camicie, cappelli…
“Scarpe e cappelli la fanno da padrone. Accessori che non posso evitare, se trovo qualcosa che mi piace non riesco a passare oltre. Poi in realtà non lo mostro tanto per scelta ma sono un grande patito di orologi”.
Infatti ora indossi un Bulgari Octo Finissimo, un pezzo da appassionati.
“Hai l’occhio attento. Il fatto di non mostrarlo è una scelta, volevo distaccarmi un po’ da questo concetto legato molto al denaro perché mi riporterebbe a una cosa che non vorrei trasmettere. Lo stile non è necessariamente una roba da ricchi”.
E una moto ce l’hai?
“Sempre! Adesso da quando ho figli ci vado meno, ho ancora qualche Harley in garage ma non altro. Al tempo ero un patito di sportive, però non le ho mai comprate: dalle nostre parti in zone come il Mugello o il Muraglione più di un amico che ci ha lasciato le penne. Però in passato facevo campionati di trial, invece parlando di auto sono patito di mezzi alla Fast and Furious”.
Quindi una bella Supra tutta truccata?
“Esatto, quelle robe lì mi fanno impazzire. Per anni ho avuto questa Hyundai Genesis Coupé, che non è certo una macchina di pregio e forse in Italia l’hanno venduta soltanto a me, però aveva un 3.8 V6 sotto al cofano, era piccolina con la trazione posteriore… la usavo per driftare. Ora ho un pick-up gigantesco che uso per caricare la roba”.
Cosa pensi degli stylist alla Nick Cerioni, o comunque di questo stile fluido che vediamo soprattutto nell’industria musicale, che sembra sospesa tra gli anni Ottanta e il vecchio guardaroba di Renato Zero?
“A prescindere dal fatto che quel tipo di outfit può piacere o meno, a me annoia questa direzione univoca, che è un po’ quello che succede nella moda in generale. Personalmente ho sempre cercato di distaccarmene, perché credo che ognuno debba indossare quello che lo rappresenta senza stare dietro a queste mode del momento. I vestiti sono per natura nel nostro quotidiano, se ci vestiamo in un certo modo solo perché l’hanno detto gli altri stiamo mettendo un’armatura che non è nostra: non ce ne rendiamo conto, ma questa cosa alla lunga finisce per cambiarci”.
Cosa intendi?
“Se ti vesti come senti di voler fare anche nell’inconscio pensi ‘oggi sono io veramente, oggi posso dire queste cose perché sono io’. E sembra banale, ma in realtà non lo è affatto. Magari in riunione ci tratteniamo perché non siamo a nostro agio, oppure al contrario siamo così sicuri di noi stessi da poter parlare come vorremmo. Se hai qualcosa che non ti rappresenta addosso come fai a farla quella roba lì? A sentirti te stesso?”
Ok, proviamo a fare i Menadito Awards per lo stile. Partiamo da un cantante: chi ha uno stile che ti piace?
“Ah, è difficile. I cantanti sono fatti tutti con lo stampino… chi è che esce un po’ dal seminato? Mi viene in mente tutto il panorama rock, o magari - che non c’entra niente - un Damiano del Maneskin. Lui è figo nonostante si ispiri a stili passati, comunque si identifica in quello stile e si differenzia molto dal resto degli artisti italiani. Poi oh, anche quello è diventato di moda”.
Il politico - o la politica - di cui ammiri lo stile?
“Perché, ne esiste qualcuno? Anche loro sono uniformati”.
Un personaggio pubblico? Qui vale tutto.
“Faccio fatica a dirlo, non sto così attento allo stile altrui”.
Ok, chiudiamo: chi è il brand ambassador perfetto per Menadito?
“Sembra assurdo, ma siamo io e il mio socio. Anche perché chi più di noi ci crede, chi meglio di noi ci può rappresentare? Delegare la nostra comunicazione sarebbe come delegare la nostra voce a qualcun altro. Tu faresti mai parlare qualcuno al tuo posto? Io no. Io mi espongo, mi metto a rischio e dico cose che possono non piacere, però me ne assumo la responsabilità. Questo sono io”.