"Nel Parmigiano Reggiano c'è solo latte, sale e caglio. L'unico additivo è Renatino, che lavora qui da quando aveva 18 anni, tutti i giorni, 365 giorni all'anno". Apriti cielo, i social non perdonano il nuovo spot, schierandosi dalla parte del casaro, che nei trenta secondi di clip (diretta dal regista Paolo Genovese) ammette di lavorare tutto l'anno, senza fermarsi mai, ed essere pure felice così. Il patatràc è subito servito, si accusa Parmigiano Reggiano di celebrare lo sfruttamento dei lavoratori. La bufera sul web va avanti per le lunghe, con conseguente dietrofront del consorzio (che ha disposto ritiro e riediting dello spot) e scuse pubbliche di Stefano Fresi, tra i protagonisti della campagna pubblicitaria.
La fragorosa questione, sollevata su Facebook da Christian Raimo (scrittore e politico romano), in realtà è una polemica pure a scoppio ritardato, in quanto la pubblicità incriminata (che fa parte di un mediometraggio, gli Amigos) è stata pubblicata a settembre, quindi stagionata già di tre mesi. Ma tant'è, gli habitué dei social seguono solo la corrente, attaccandosi alla disputa di turno, tanto per arraffare qualche like che possa gonfiare il loro ridondante ego. Siamo onesti, i diritti dei lavoratori sono quesito tutt'altro che banale, un argomento che dovrebbe perforare la sfera del facile consenso e farsi un giro nella vita reale. È indubbio che nello spot di Genovese, la figura del formaggiaio sia solo una metafora cinematografica, un'iperbole che rappresenta al meglio la lavorazione del Parmigiano, lavorato veramente ogni giorno, per seguire il ciclo produttivo che lo caratterizza, riproducendo così l'impegno costante che serve per trasformare del semplice latte, sale e caglio in un prodotto d'eccellenza, esportato in tutto il mondo. Se vogliamo dirla proprio tutta, tra l'altro, l'esagerazione usata dal regista, quel tanto contestato "lavorare 365 giorni all'anno", è un semplice modo di dire, adottato diffusamente in ambito colloquiale, alla stregua di un "lavorare giorno e notte" e altre espressioni simili.
Da quando siamo diventati così fiscali da attaccarci avidamente alle parole di una finzione, senza vedere più in là del nostro naso? Invece di incazzarci tanto per una réclame, indigniamoci piuttosto per questioni reali, come la disoccupazione giovanile, l'età pensionistica avanzata, gli abusi del caporalato, giusto per cominciare ad apparecchiare il tavolo dei problemi vari, che continuano con percentuali in crescita di morti e infortuni sul lavoro e aziende made in Italy che chiudono, delocalizzando altrove la produzione per abbassare i costi, più altri cavoli amari. Certo, potrebbero pure essere fatti correlati, se la pubblicità, tanto crocifissa, servisse veramente a farci cacciare la testa fuori dal sacco. Il punto invece è che sui social tutto si limita al singolo caso sensazionale (in questo caso anche fittizio), senza poi andare a fondo e analizzare le basi del guaio. Di sicuro, una volta sgonfiata la storyline di Renatino, nessuno parlerà più del vero e grave disagio associato. Va detto anche che se usassimo lo stesso spirito battagliero nella vita, rinunciando a contratti da fame, lavoro in nero, e denunciando i datori di lavoro che sfruttano i dipendenti, invece di limitarci alla rivolta del cinguettio fine a sé stesso, il Belpaese sarebbe certamente un posto più degno.
Del resto, è facile incazzarsi sui social svaccati sul divano con cellulare e PC in grembo, e accettare poi passivamente un lavoro a importo zero. Una storia che fa sorridere amaramente ogni Renatino vivente, forse più soddisfatto di tutti noi messi insieme. In fondo il mastro casaro sceglie consapevolmente un’esistenza diversa (non è sottointeso che sia semplice), ben lontana dallo stile di vita del fighetto con aperitivo annesso e weekend low cost in qualche capitale europea. Quindi, invece che preoccuparci di come campa lui, insegniamo alle nuove generazioni (ricordando ai boomer) che certi prodotti e lavori necessitano di sacrificio perenne. Nello specifico, la professione discussa è la stessa da “millemila anni”, e la maggior parte dei caseifici è ancora a conduzione familiare, per cui l'ora della siesta non scocca quasi mai. Di conseguenza, chi sceglie una della attività più remunerate del settore primario, accetta di adattarsi a una vita impostata su altre priorità. È probabile che tra un like e un selfie a buffo, molti di noi abbiano perso il contatto col reale, ignorando di buon grado com'è vivere in campagna, e mettendo pure alla berlina il lavoro dell'artigiano, che dovrebbe invece essere preservato. Perciò, sì, liberiamolo, sempre #freeRenatino, ma dalle vostre polemiche del cazzo.