Quando ero bambino, durante i colorati anni Novanta, non capivo perché in Italia si parlasse in continuazione della Rai. Era ovunque. Sui giornali, in bocca ai politici, nelle interrogazioni parlamentari, nei tg. In litigio continuo con le “altre” televisioni, quelle di Silvio e più tardi quella di Cairo. I cittadini erano incastrati in un braccio di ferro inscalfibile tra l’intrattenimento pubblico e quello privato. Sembrava che la stabilità della Rai fosse più importante del Paese stesso. Ho capito il punto solo in tempi relativamente recenti: non è che lo sembrasse, era proprio così.
La Rai, in effetti, rappresentava la sanità della democrazia al suo livello più alto. Era di fatto l’informazione libera, la più importante bandiera del principio democratico, sorretta esclusivamente da sovvenzioni statali e soprattutto da pubblicità, a sua volta pagata dallo shopping di milioni di persone. Noi, nel turbinio di un mondo ottimisticamente pre-Internet e pre-11 settembre, non eravamo in grado di guardare attentamente la visione macro e comprendere lo snodo fondamentale: il consumismo non è un fenomeno parallelo alla democrazia ma ne è intrinseco.
Non c’era solo Rai, ovviamente. Per decenni, vendendo spazi pubblicitari, i diversi media pubblici e privati hanno fatto da garanti per una concorrenzialità di mercato solida e duratura. A loro volta, i cittadini hanno sempre sovvenzionato l’informazione semplicemente comprando i prodotti. L’informazione, a sua volta, è come detto la base per quello che intendiamo per democrazia. Questo equilibrio per decenni è stato implicito e granitico: i grandi giornali, le grandi testate, le televisioni hanno sempre avuto la possibilità di offrire il servizio di un’informazione sana (che lo abbiano sempre fatto è un altro paio di maniche) grazie alla vendita degli spazi pubblicitari e alla presenza dei cittadini disposti a comprare. Insomma, i media a sorreggere il mercato, il mercato a sorreggere i media.
Questa era la descrizione dei dinosauri che eravamo fino al meteorite al silicio che ci ha spazzati via verso la fine degli anni Novanta, con l’arrivo di Dio Internet.
C’è stato un tempo, ben prima, in cui un nerd “divoraJava” con un cappellino a visiera nel suo scantinato scuro aveva immaginato il futuro della tecnologia come un vasto spazio sterminato da riempire con libere informazioni che avrebbero portato di un gradino più in su i diritti del mondo occidentale. Sappiamo bene che poi qualcosa è andato storto.
A una ventina di anni dalla sua diffusione su larga scala, Internet è un bel casino. Non solo i contributi del web si sono rivelati stupidi o pornografici più spesso di quanto ci sarebbe piaciuto pensare, ma anche il concetto di “liberi” ha decisamente mostrato la corda. Ecco il luogo dove passiamo la maggior parte del nostro tempo: un cyberspazio condiviso, interamente colonizzato non da nazioni ma da aziende. Una imitazione della vita che ha bypassato senza nessuna difficoltà i costrutti dello Stato di diritto, per creare una specie di paradiso del libero mercato che troppo non venisse oppresso dal fastidioso e vigile occhio delle istituzioni democratiche.
Oltre alle belle gatte da pelare di campi come musica o cinema (che cercano nuove linfe e flussi monetari nello streaming), il web in pochi anni ha messo duramente in discussione quell’equilibrio considerato inossidabile tra media, il servizio dell’informazione, la pubblicità e i principi di stabilità democratica. Ed è paradossale perché forse viviamo nel momento in cui di pubblicità siamo più immersi. È ovunque, sui banner in metro, tra le mail, tra un post e l’altro dei social network che frequentiamo, è negli articoli che leggiamo: talvolta è l’oggetto degli stessi articoli. Il punto è che però la gran maggioranza di questa pubblicità crea introiti che solo in minima parte sorreggono le testate dell’informazione. La maggioranza di questi soldi vanno a comprare la nuova tavola da surf volante di mister Mark Metaverse, o qualche stanza relax a forma di igloo per i dipendenti di Google. Le aziende non investono più in pubblicità su una molteplicità di operatori differenziati, ma appena su due o tre mega compagnie. Meglio una sponsorizzata su Instagram che una campagna su La Stampa. Meglio una pubblicità su YouTube che una su RaiTre. I grandi operatori dei Big Data hanno costruito il loro impero divorando la pubblicità con nonchalance, specialmente Zuckerberg. La inglobano proprio per via della natura tentacolare delle loro piattaforme: impossibile per una azienda “esistere” in luoghi che non siano offerti da Google, da Facebook o da Instagram. Se ci sono piazze digitali dove pubblicizzarsi, oggi, sono quelle e non le testate dell’informazione. I giganti del web formano un unico grande editore che accorpa tutti gli altri.
Nel mondo dell’advertising c’è un discreto subbuglio su queste tematiche. L’anno scorso la pandemia ha accelerato quello che era un processo inevitabile e secondo alcune stime per la prima volta il 50% del mercato pubblicitario si è spostato su Internet.
“All’interno di questa percentuale bisogna considerare che l’80 o 90% degli investimenti pubblicitari sono in mano a pochi soggetti internazionali come Google e Facebook. Il che è un grande problema”: queste parole sono del modenese Claudio Varetto, presidente di Federpubblicità, associazione sindacale di operatori del settore nata nel 1989. Negli ultimi anni Varetto è molto critico sull’evoluzione di questi temi.
“La pubblicità – aggiunge Varetto – sovvenziona i media. Le grandi testate assistono impotenti ad un mercato che si sposta all’estero e assumono un ruolo marginale di fronte ai colossi digitali, principali operatori così anche di media e pubblicità. E questi equilibri influiscono anche sulla deontologia, in un mercato in cui a fare da padrone sono soprattutto i click. Nei media il codice di autodisciplina ha sempre funzionato dialogando tra editori italiani. Non c’è lo stesso dialogo con i grossi colossi. Devono intervenire i governi”.
Essì, i governi. Gli stessi che, a ogni nuovo insediamento, entrano nel servizio pubblico e ribaltano furiosamente tappezzerie, mobilie, dirigenti e protetti, convinti che faccia ancora la differenza
Nel contesto descritto, la Rai sembra un vecchio zio scemo, di quel ramo nemmeno tanto frequentato della famiglia, che ogni tanto dice la sua. “Ma te lo ricordi zio Rai?”. “Ah sì, che fa ora?”. Questo vecchio zio cerca, con un po’ di tenerezza, di mantenere l’antico rigore della sua posizione e spesso viene ancora descritto come l’eminenza grigia del potere; invece trema di paura.
Mentre la Rai litiga in pubblica piazza con i Berlusconi di domani, Fedez per esempio, assistiamo impietriti allo sgretolamento delle fondamenta democratiche e noi con lei. Il servizio pubblico, insomma lo Stato, si piega difatti al grande Blob inglobatore, riversando i suoi contenuti dentro a questa specie di banco dei Meta pegni, che compra a poco e vende a tanto. In passato a dire il vero un po’ di maldestra resistenza attiva si era pure tentata: qualche anno fa la Rai litigò vistosamente con YouTube, rescindendo nel 2014 l’accordo che legava i due marchi. In una visione complessiva, la Rai ne usciva come reazionaria e fu lei a rimetterci in credibilità. Oggi però qualcosa è cambiato, e forse nuove soluzioni che vadano in quella direzione andrebbero messe sul tavolo.
Lo strapotere delle aziende private al di sopra alle nazioni è il temporale che si addensa nel cielo della nostra Storia. Lo abbiamo visto con i vaccini. Una indagine del luglio 2021 di Oxfam e Emergency ha stimato che le case farmaceutiche abbiano fatto pagare ai vari Stati fino a ventiquattro volte il costo di produzione dei farmaci in tempo di pandemia globale. Qualcuno lo chiama libero mercato, qualcuno potrebbe chiamarla estorsione: questione di terminologia.
Le super company del mondo, in primis quelle che controllano i flussi digitali, stanno diventando più potenti delle Nazioni e le leggi di domanda e offerta stanno diventando leggi del più forte sul più debole.
Lo Stato e più in generale gli Stati devono elaborare nuove strategie contro il potere dei giganti del silicio. In questo contesto, cosa ci sarebbe di assurdo se uno Stato considerasse sé stesso come un attore concorrenziale nella guerra del web?
Quando Berlusconi fece grandi le sue reti, la televisione pubblica dovette cambiare, mostrare gli artigli e impostare una linea editoriale che gareggiasse. Ora le tristissime pagine della Rai su Facebook e Instagram ricordano a tutti noi che la nostra cosa pubblica è succube a Meta e non viceversa. L’impressione è che lo Stato di diritto la cyberwar dei media non la voglia nemmeno combattere. Che getti la spugna così, immediatamente, senza salire sul ring, senza nemmeno passare in spogliatoio. Senza alcuna visione sul futuro che non comprenda l’imminente disgregazione delle istituzioni democratiche, divorate da un tripudio di famelici algoritmi.
Non lo avremmo mai creduto possibile ma, se il mondo si sta trasformando in Matrix, organismi come la Rai rappresentano i ribelli. E anche se allo stato attuale nessuno sembra avere molta voglia di combattere, noi sogniamo, puntiamo a difendere la nostra Zion: se il futuro della democrazia risiedesse nei social network di Stato? Un’idea quasi ossimorica, un concetto che fa ridere. Però l’unica vera strategia per misurarsi alla pari.
Certo, l’idea che qualcuno possa iscriversi a un social della Rai al posto di Instagram ad oggi è inconcepibile. Se pensiamo a simili esempi recenti, questo proposito si presenta da subito irriducibilmente fallimentare. Abbiamo ancora sotto gli occhi la devastante operazione di ItsArt, italianissima “Netflix della cultura” (dal nome inglese, primo segnale di una follia sciagurata) voluta da Dario Franceschini, che racchiude produzioni musicali, cinematografiche e teatrali. Il solo logo, che sembra disegnato da uno studente non troppo in gamba del liceo artistico, è la porta su un mondo di sfiga inqualificabile. Una specie di RaiPlay (che pur già esiste e si difende bene) ma con prezzi assurdi. Per contenuti, alcuni legalmente fruibili gratuitamente altrove, che attirano un pubblico che a occhio deve essere già morto da un pezzo. La prova che quando il settore pubblico cerca di competere nel web con quelli che lo fanno per profitto, il paragone è ancora impietoso.
Eppure non tutto è perduto. Se l’idea di un social network di Stato che attiri utenti offrendo un’alternativa ai poteri monopolistici può far sorridere noi, non è detto che non possa avere senso in futuro. È così assurdo il pensiero che le generazioni di domani si trovino a vivere da cittadini e soggetti narrativi di un inossidabile binomio tra pubblico e privato sul web, come accadeva a noi da bambini alla tv?
L’unica strada per il mantenimento di una società giusta che impedisca l’evoluzione di forme di cyberdittature private è che gli Stati pensino a sé stessi non come pedine nella scacchiera digitale, ma come giocatori. Magari, in Italia, non dando la mossa a Franceschini.