Twitter, questa mattina. In prima posizione, tra i trending topic, c’è un hashtag sponsorizzato da CapelliPantene: #HairHasNoGender. Il link porta a un tweet, postato dallo stesso account, che recita: “Non importa chi sei, che capelli hai o desideri. Pantene ti sostiene #HairHasNoGender. Tutti hanno diritto ad esprimere la propria identità. Con la comunità LGBTQI+ esploriamo il potere dei capelli nell'esprimere l'identità e l'importanza del sostegno. #CapelliPantene". Al suo interno un video che ritrae una donna su una scogliera. In sottofondo la sua voce: “Io sono nata trans. Ho capito che il mio capello è importante. Perché in questo capello, ci sono le mie origini”.
LGBTQI+, capelli, origini: forse è giunto il momento di aprire un dibattito sulle campagne pubblicitarie e sui progetti imprenditoriali basati su temi socialmente rilevanti.
In principio fu Toscani
Certo, non si inventa mai nulla di nuovo, a questo mondo. Pantene cerca di vendere, oggi, i suoi prodotti per capelli, incentrando la propria comunicazione su un messaggio un po’ confuso che comprende questioni relative all’identità sessuale e a quella culturale e territoriale, ma risale addirittura al 1986 l’insediamento di Oliviero Toscani in casa Benetton, per l’avvio di una collaborazione che ha portato a un numero infinito di campagne basate su temi quali: il razzismo, la lotta contro la diffusione dell’AIDS, la condanna al conflitto nei Balcani e molti altri ancora. Per il vero, anche all’epoca, quelle pubblicità destarono molte polemiche, ma non rappresentavano l’espressione di una comunità di “catechisti della rete” che, nel 2020, passa la giornata a puntare il dito contro chiunque, perdendo così di vista la luna, distante giusto un palmo dal proprio naso.
Ora però c’abbiamo Freeda
Per dire, Freeda. Freeda, per chi non lo sapesse, è uno dei progetti editoriali di maggior successo degli ultimi anni. I suoi contenuti sono nati e sviluppati per essere distribuiti esclusivamente sui suoi canali social (Facebook e Instagram) e il filo conduttore che lega ognuno di essi è una sorta di sedicente forma di femminismo 2.0. Molto è stato detto e scritto al riguardo: Freeda fa incazzare le femministe più integraliste perché è stato fondato da due uomini e sfrutta il lavoro di un team composto per la maggior parte da donne, per far arricchire pochi finanziatori (tra i quali stando alle cronache, Ginevra Elkann e Luigi Berlusconi). Ma dal punto di vista imprenditoriale Freeda è e resta un piccolo gioiello partorito da una mente certamente geniale.
Tre sono, infatti, i pillar attorno ai quali è costruita la comunicazione dell’intero progetto: Personal style, Female Achievement e Sisterhood. Che vuol dire? Partiamo dal primo: Personal style significa che Freeda riconosce dignità allo stile di ognuno (ognuna). Tu hai il tuo stile e se il tuo stile ti rispecchia per noi è ok, ci piaci, vai bene così, puoi far parte della community. Female Achievement: il raggiungimento del successo in chiave femminile. Già ma che successo? Se io ho un negozio di fiori, che va pure male, vicino a Cerignola, posso essere ugualmente una Freeda-girl? Indovinate qual è la risposta: certo che sì, mia cara, perché il successo è il tuo successo, quello che conta davvero per te, quello che ti dà gioia, soddisfazione, la tua famiglia (non ci importa che il negozio va male) o la tua libertà (non ci importa della famiglia), non quello che è imposto da questa società fondata sul patriarcato e sulla competizione perenne. Sisterhood, sorellanza. Nessuno giudica nessuno, nel giro di Freeda: siamo tutte sorelle, ci supportiamo, facciamo come fanno gli uomini, ma dalla parte del giusto.
Cos’ha di geniale tutto questo? Freeda è iper inclusiva, o meglio, onnicomprensiva. Qualsiasi cosa voi dobbiate vendere, potrete farlo attraverso le pagine di Freeda. Dai vestiti del fast fashion, alle Porsche, dentro Freeda c’è posto per tutti, perché, hey, siamo tutte sorelle, nessuno giudica nessuno, e quello che importa è il female achievement (ma il tuo personale). Le tre colonne su cui è costruita la comunicazione di Freeda, i tre pillar appunto, sono un’arma di seduzione irresistibile per qualsiasi sponsor. Il giudizio è sempre sospeso, lo è nei confronti di tutto, tranne di chi, in questo appiattimento, non si riconosce. Tanto di cappello, quindi, per chi ha saputo sedersi a un tavolino e mettere giù, nero su bianco, una strategia tanto efficace e i cui esiti, in termini di successo commerciale, parlano da soli.
Il punto, dunque, non è Freeda ma chi lo legge. Perché se sei una di quelle persone che scrive i sostantivi con l’asterisco per non offendere nessuno, se fai puntualmente tue le campagne di crocifissione che giornalmente prendono piede al bar di Twitter, se perdi tempo a scrivere a MOW, per dire che è da maschilisti pubblicare un maschile (ma, ne siamo certi, a iO Donna non hai mai scritto), beh, amic* mio, forse è il caso che tu ti chieda se sia giusto utilizzare un argomento di rilevanza sociale come espediente per la costruzione di una narrazione il cui fine ultimo è la vendita di spazi pubblicitari.
Fondazione Vodafone e #ChiedoPerUnAmica
L’ultimo stadio della vanità, sui social, passa oggi per le campagne di sensibilizzazione a qualsivoglia tema approvato dal regime della rete. Gli argomenti ok sono: ambiente, identità di genere, identità culturale (si dice così? è giusto? mancano asterischi?), femminismo, varie ed eventuali. #ChiedoPerUnAmica è uno degli hashtag più ostentati negli ultimi giorni da chi cerca a tutti i costi di convincerci di essere influencer presso sé stess*. Passato sulle prime inosservato, ha suscitato la mia attenzione per un curioso legame, apparentemente di carattere commerciale. Ogni post in cui veniva pubblicizzato si concludeva con la richiesta di condivisione con la menzione dell’account @vodafoneit. La Fondazione Vodafone, infatti, in vista della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, che si terrà domani, 25 novembre 2020, ha lanciato una campagna contraddistinta, per l’appunto, dall’hashtag #ChiedoPerUnAmica, attraverso la quale ogni donna è chiamata a condividere il proprio pensiero in merito a ciò che rappresenti una prevaricazione all’interno di un rapporto.
Toh, Freeda per Fondazione Vodafone
L’ennesima captatio benevolentiae finalizzata, questa volta, a vendere più schede prepagate? Sì e no. Fondazione Vodafone è stata fondata nel 2002, con l’obiettivo, come si legge sulle pagine del sito di Vodafone a essa dedicate, “di creare una struttura autonoma dedicata ad attività di solidarietà sociale a favore della comunità e in particolare dei soggetti in situazioni disagiate”. Perché Vodafone si prende la briga di creare una fondazione che si occupi di queste tematiche? Si tratta di un’attività che rientra nel più generico concetto di responsabilità sociale d’impresa, che ricomprende tutte quelle attività che un’azienda pone in essere affinché il proprio business si inserisca in un circolo virtuoso in grado di produrre benefici per l’intera società. Della serie: facciamo utili, ok, ma cerchiamo di farli in maniera responsabile e reimmettiamo una parte di queste risorse in circolo con lo scopo di dare risposte a domande su temi socialmente rilevanti. È in quest’ottica che Vodafone, tramite la sua Fondazione (o viceversa), ha rilasciato, nei mesi scorsi, BRIGHT SKY, un’app che consente alle donne oggetto di maltrattamenti di richiedere aiuto, ottenere informazioni, consigli, di valutare i rischi e di mettersi in contatto con le forze dell’ordine. È qualcosa di concretamente utile? Lo è. È utile anche a Vodafone per migliorare (qualora ce ne sia bisogno) la propria immagine in termini comunicativi? Lo è. Le donazioni che Vodafone effettua nei confronti della Fondazione Vodafone hanno degli impatti anche da un punto di vista fiscale sui bilanci della stessa Vodafone? Probabilmente sì. #ChiedoPerUnAmica è una campagna che sfrutta il tema della lotta alla violenza sulle donne per fini commerciali? In parte sembrerebbe di sì, quantomeno nella misura in cui essa viene fatta convergere sui canali social di Vodafone Italia, luoghi “virtuali” ovviamente concepiti per portare un vantaggio, in termini di vendite, alla stessa Vodafone.
Pantene ci riprova
Diverso dal caso della Fondazione Vodafone è quello di Pantene, al via, un anno dopo, con una nuova campagna contraddistinta dall’hashtag #HairHasNoGender.
Diverso perché a farsi promotrice di una iniziativa volta a sensibilizzare l’opinione pubblica non è, in questo caso, una fondazione ma un’azienda vera e propria, e, a supporto di questa iniziativa, non si è inserita, a quanto è dato sapere, nessun altra azione che possa rendere comunque apprezzabile lo sfruttamento commerciale di temi di questo genere.
Parliamo di nuova campagna perché un tentativo, con lo stesso hashtag, era stato fatto già nel novembre dello scorso anno, con altr* testimonial e con esiti piuttosto discutibili. Basta farsi un giro, a questo proposito, tra i commenti che molti utenti hanno pubblicato sotto al video più visualizzato, tra quelli prodotti da Pantene e che vi riportiamo qui sotto (per vederli, cliccate sul titolo, in alto a sinistra, all’interno del video: verrete reindirizzati alla pagina YouTube in cui è pubblicato).
C’era bisogno di riprovarci un anno dopo? Forse no. Ma soprattutto, c’è e ci sarà ancora bisogno, in futuro, di campagne così? Perché, al solito, il problema non è di chi le propone. Dopo tutto, noi siamo qui a parlare di loro e dubito fortemente che Pantene possa preoccuparsi del benché minimo danno reputazionale per quanto andiamo dicendo. Il problema, come per Freeda, è di chi recepisce questi messaggi e di come li elabora. Cosa si direbbe di un’azienda che, partendo dal tema del razzismo, costruisse un nuovo media o un prodotto di qualsiasi tipo, in grado di vendere e generare profitto? Possiamo fare soldi sulla pelle di chi viene discriminato? E perché sul femminismo sì, invece? E chi decide quali temi possano essere usati per scopi commerciali e quali no? Una bella campagna sui diritti dei padri separati non la vogliamo fare? E sui migranti? Un bel servizio da Lampedusa, dai. Amici influencer, attivisti e indignati di professione, cerco di spiegarvelo nella maniera per voi più comprensibile: se continuate a supportare iniziative di questo tipo, se non la smettete di usare questo tipo di argomenti come clave contro chi la pensa diversamente da voi, se non cominciate a considerare che anche in relazione a temi apparentemente sensati, possa essere necessario un confronto, un punto di vista differente, finirete per fare la fine di chi, questo approccio, in tutt’altra maniera, lo sfrutta da anni. Se non la piantate diventerete come Matteo Salvini.
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