L’abbiamo detto tutti qualche migliaio di volte almeno: la moto non è solo un pezzo di ferro. E’ chiaro a chi ce l’ha, è chiaro a chi non ce l’ha mai avuta anche se non potrà mai capire. Verità assoluta, ma anche luogo comune. Perché in moto, con la moto, sulla moto e per la moto abbiamo probabilmente vissuto emozioni di ogni tipo: la moto per fuggire, la moto per staccare, la moto pure per amare, abbracciare, distaccarsi e, addirittura, per conoscersi. Non per conoscere gli altri, o non solo, ma per conoscere se stessi. L’evasione, la libertà, il contatto e pure il rischio, l’adrenalina, il gioco dei grandi. Insomma: tutte quelle cose lì che è inutile stare a elencare e che ognuno di noi coniuga nella propria vita a modo suo, compresi quelli che cambiano le scarpette alla bimba e le fanno il bagnetto (ma diamoci una regolata, per favore).
Ho amato le moto probabilmente dal giorno stesso in cui ne ho vista una, figuriamoci quando ho potuto guidarle, crescendo con un nonno che aveva la stessa passione per tutto ciò che prevedesse movimento e velocità. Di moto ultimamente ci vivo pure. Di moto e di parole. No, la moto non è solo un pezzo di ferro. E’ la più banale delle frasi: banale almeno quanto è vera. E’ il più comune dei luoghi comuni per chi va su due ruote in strada, in furistrada, nel traffico o sui passi, soli o in mezzo agli altri. Oppure soli in mezzo agli altri, come nella natura stessa dell’essere motociclista. Sarà che è quasi Natale, sarà che di tempo per farsi domande ce ne è un po’ di più adesso che si fanno i conti con norme, DPCM, DL, vacciniche attese e distanze imposte, sarà che anche quando si ha qualche minuto per pensare è la moto a prendersi i pensieri, ma c’è una domanda che s’è fatta insistente: ma che cazzo significa che la moto non è solo un pezzo di ferro? Cioè, è chiaro che non è solo un pezzo di ferro, ma ripetere e ripetersi ciò che la moto non è non sarà mica un modo per nascondere l’incapacità di definirla?
La risposta più bella l’ho ascoltata ieri sera, facendo un’azione che non faccio mai: accendere la tv. C’era lo speciale sul viaggio di Marika, una puntata de Le Iene tutta dedicata all’esperienza on the road in Sardegna di una ragazza con tanti limiti fisici e altrettanti illimitati sogni. Una storia straordinaria, di potente dolcezza e rara umanità, che vi avevamo già raccontato, ma che ieri sera è stata mostrata anche nel dietro le quinte, nella costruzione, nel lavoro, tanto, e nelle persone, meravigliose, che hanno portato a prenderselo, quel sogno. Perché sognare non basta mica se poi l’ostinazione, quella capace di essere anche ossessione, non la si trova. E’ stata una di quelle volte che davanti alla tv ti scopri pure con la lacrima che ha voglia di uscire, travolto da emozioni, scene o parole che in qualche modo hanno fatto parte anche della tua vita, pur nell’assoluta diversità delle storie personali, degli impulsi individuali, delle possibilità di ognuno. “Quando vado in moto mi sento normale” – ha detto Marika, spiegando probabilmente meglio di chiunque altro ciò che fino ad oggi abbiamo sintetizzato, tutti, con una frase impostata a negazione: “la moto non è solo un pezzo di ferro”.
Ci sentiamo normali, Marika come tutti noi. Che non significa “normali rispetto agli altri”, ma normali rispetto a noi stessi. In una parola sola: umani. Con tutti i limiti, in qualche caso anche fisici, le difficoltà, i capricci, i tagli differenti, le paure e persino le perversioni. Tutto insieme dentro a una parola che quel tutto sembra negarlo: normali. Accettarsi quasi cinicamente, correggersi dove si può, adattarsi dove si deve e dare gas sempre e comunque, trovando il giusto equilibrio in base a ciò che la vita ci mette davanti: terra, asfalto, cordoli o ostacoli. Come con la moto, esattamente come la moto, che diventa un mezzo per capirsi senza fermarsi. Per capirsi da dentro e verso fuori, nell’intimo solitario come nell’essere parte di qualcosa di più grande. Mettendo in moto la vita e senza la retromarcia, con la prima in giù, tutte le altre su e, come cantava Vecchioni, forti di “quell’orgoglio smisurato di essere solo uomini”. Perché alla fine di tutto l’umanità è il vero miracolo, anche se sta per terra, facile facile, ma dove non siamo abituati a cercare, così impegnati, anche per estrazione culturale, ad aspettare il miracolo in cielo e dal cielo. Grazie Marika!
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