Dolly Sloan scrisse: Sempre poveri, ma insieme.
Credo non esista altro modo per descrivere il desiderio di noi, i figli dei lavoratori marittimi, che crescono con un arto fantasma a livello emotivo. I bambini che crescono per la maggior parte del tempo con un genitore solo, dal carattere ipertrofico perché da uno deve farsi due, quando l’altro è lontano.
Mi chiamo Maria Eleonora Capurro Mollard e sono la figlia, ho un fratello più grande, del Comandante di Marina Mercantile Angelo Andrea Capurro.
Mio padre è morto il 13 aprile a bordo della nave mercantile M/N Ital Libera di Italia Marittima, compagnia che fa parte del gruppo Evergreen (avete presento l’incidente nel canale di Suez dell’Ever Given? Ecco).
Il corpo di Angelo si trova ancora nella cella frigorifera dell’imbarcazione, tra pezzi di carne e scarti di pesce. Dopo che le autorità di Singapore hanno rifiutato di fare attraccare la Ital Libera, la nave al momento si trova a qualche miglio dal porto di Jakarta, in Indonesia.
La mia famiglia e io stiamo vivendo un incubo di proporzioni kafkiane. Inutili i suggerimenti di ordine logistico e legale fornite dai nostri legali e da noi, sia alle autorità che alla compagnia: prendere il canale di Suez e arrivare al primo porto utile italiano nel giro di pochi giorni; richiedere il supporto di navi militari americane o meno (essendo quel punto dell’Oceano Indiano parecchio frequentato da pirati i militari sono lì ad affiancare le altre navi come supporto); mandare personale sanitario a bordo, con una bara,e mettere in sicurezza il corpo con tutte le dovute precauzioni e rimandarlo qui, da noi, in Italia.
L’ambasciata italiana a Jakarta passa la palla alla Farnesina, la Farnesina non si sa a chi, e noi con le mani letteralmente legate perché non possiamo andare noi a riprendercelo, anche a nuoto nei momenti di massima disperazione, o con ogni mezzo legale possibile in quelli di lucidità.
Mio padre, immunodepresso, non è stato vaccinato prima di partire, non gli hanno fatto fare la quarantena prima di imbarcare, isolandolo in un albergo di Durban, e ha affrontato un viaggio della speranza da Trieste a Roma per arrivare in Sudafrica. Il 27 marzo alle 6:27 del mattino prese il Frecciarossa Trieste-Roma con altro personale imbarcante, a Fiumicino ci rimase ben tre ore tra controlli e attese. Salì sul volo della Qatar Airways con destinazione Doha (Qatar). Dopo una notte in piedi (non c'era un posto dove sedersi) imbarcò su un volo della stessa linea aerea con destinazione Johannesburg, e dopo un'altra attesa prese l'ultimo volo per Durban. Salì a bordo della nave Ital Libera il 28 marzo. La nave (battente bandiera italiana) parti il 1° aprile per arrivare a Singapore il 16 aprile. Il 2 aprile cominciò ad avere sintomi (tosse, dolori al petto, fatica a respirare, dolori fortissimi agli arti, sonnolenza ecc.). Il nostro medico che interpellammo, preoccupati, rimase perplesso dal constatare che a bordo delle navi mercantili non c’è un medico. Il medico era mio padre che ogni tot di anni doveva fare corsi di aggiornamento di pronto soccorso, ma a che pro se la farmacia delle navi è scarsa e per avere un defibrillatore abbiamo dovuto sfiancare l’armatore? Avvisata la compagnia, benché per il codice della navigazione il primo ufficiale dovesse sollevare mio padre dall’incarico, chiamare l’elisoccorso e prendere il comando della nave, le nostre richieste di soccorso furono minimizzate, se non ignorate, provando a ‘rassicurarci’ con un test rapido e imbrattato col bianchetto. Temevamo avesse contratto il Covid (in volo? Durante lo scalo? O a bordo?) certezza che arriverà solo dopo un esame autoptico, al momento impossibile visto che ancora il suo corpo non è con noi. Fino alla fine mio padre ha cercato di vivere, mettendosi a piangere al telefono con mia madre perché la carne che c’era a bordo era così dura che non si tagliava manco col coltello e che lui, per la disperazione, aveva provato a strappare a morsi prendendola con le mani. Gli unici mezzi che abbiamo noi famigliari di marittimi è il telefono, che ha un altissimo prezzo, e le mail. Gli scambi di mail con mia padre sono sempre stati a livelli febbricitanti, tranne che in quei giorni di aprile in cui non apriva le nostre mail, ho una estensione installata su gmail, e dalle due telefonate al giorno degli altri imbarchi, eravamo passati a una chiamata ogni due giorni perché non riusciva a respirare.
Al momento c’è una causa penale in corso per quello che i legali, e qualunque persona dotata di intelletto e coscienza, definiscono omissione di soccorso. Se mio padre fosse morto di Covid significherebbe che, in questi giorni, al largo del porto di Jakarta potrebbe esserci un focolaio. Ma non ci è dato di sapere, nulla. Che sia stato fatto meno di zero per salvarlo se ne occuperà la procura, ora a noi, famiglia Capurro Mollard, interessa riavere il corpo di Angelo Andrea Capurro a casa, nella sua Italia che tanto amava.
Mio fratello ha lanciato una campagna su GoFundMe per sostenere le spese che ci hanno preventivato, sia l’ambasciata che la procura, per l’autopsia e il trasporto del corpo di mio padre. Ogni spesa verrà registrata, ogni operazione verrà resa cristallina e ciò che rimarrà, se riusciremo a raggiungere l’obiettivo, andrà in beneficenza. Mi sono imbarcata tante volte con mio padre da che ho memoria e, almeno nella mia limitata esperienza, difficilmente ho riscontrato una categoria più dimenticata dei lavoratori marittimi. La solitudine dignitosa, i bei posti visti in lontananza - per poche ore - dai porti che hanno tutti, fidatevi, tutti l’odore di catrame, le vite degli altri e delle famiglie che vanno avanti senza di loro, maltrattati al pari delle merci che ogni giorno compriamo su internet.
Eppure sono loro che muovono più dell’90% dell’economia mondiale o no?
Non è che in questa pantagruelica fame di avere tutto e subito ci siamo dimenticati di qualcuno? Se per noi che stiamo a terra la vita corre a dei ritmi di accelerazionismo scellerato, per chi vive in mare il tempo è stirato fino all’inverosimile quanto l’anima delle persone i cui occhi si riempiono di orizzonti infiniti, di cubicoli che vengono chiamate cabine, di scarti etichettati come cibo, di posti esotici che, molto spesso, sono fantasmi di città dilaniante da guerre (ricordo ancora quando vidi con mio padre Beirut nel ‘95, ancora devastata dalla guerra civile), oppure mostri perfetti, ma senz’anima, che ci ostiniamo a chiamare futuro, come Dubai o Singapore.
Non sarà arrivato il momento di dire basta?