Il 15 settembre del 2001 il mondo è letteralmente sottosopra. Non sono passate nemmeno 96 ore e in televisione, a qualsiasi ora del giorno e della notte, puoi star certo che su qualche canale troverai la sequenza dei due aerei che attraversano lo skyline di Manhattan ed entrano nelle Torri Gemelle. La conta dei morti sotto le macerie del World Trade Center e del Pentagono deve ancora iniziare.
Ci sono delle stime, delle ipotesi; ma la verità, un numero, qualcosa che possa far diventare reale e pure pragmatico quel senso di spaesamento collettivo ancora non c’è. Manca. Per adesso c’è solo polvere e insicurezza. Detriti e paura. Il 15 settembre del 2001 piove su circuito di Lausitzring nello stato di Brandeburgo. Si tiene in Germania la tappa europea del campionato Cart, un acronimo che sta per Championship Auto Racing Teams, una tipologia di gare che fino a qualche anno prima – complice anche un noto videogioco venduto il tutto il mondo – erano conosciute soltanto come IndyCar.
L’Indy (o Cart) è quasi esclusivamente un affare americano e salvo rare occasioni in cui – spesso per motivi di sponsor - si esce dal suolo nazionale e si va a correre altrove. Al Lausitzring per esempio dove quel 15 settembre va in scena una gara decisamente strana. A causa del maltempo non si svolgono le qualifiche e la griglia di partenza viene stabilita seguendo la classifica generale. Piove, non si corrono le qualifiche e Alex Zanardi capisce che quel giorno partirà dall’ultima fila. Poco male però. Come spesso succede queste gare sono aperte a spettacolo e sorpassi e a tredici giri dalla conclusione Zanardi è primo e sembra anche in grado di restare in quella posizione fino alla comparsa della bandiera a scacchi. Poi però succede qualcosa, quel qualcosa che conosciamo tutti. Qualcuno ai box commette un errore e lo richiama.
La sosta – inutile – dura poco e la monoposto del pilota romagnolo riparte spedita. Mentre rientra in pista perde improvvisamente il controllo della vettura che va in testacoda e si mette di traverso. Una prima automobile, guidata da Patrick Carpentier, lo riesce a schivare. La stessa manovra non riesce ad Alex Tagliani. L’impatto è a “T”, le due macchine si scontrano perpendicolarmente. La Reynard Honda di Zanardi si spacca a metà. In quella anteriore restano le gambe del pilota. Nell’altra il resto del corpo. Le condizioni del pilota appaiono subito disperate. I medici cercano di fermare l’emorragia. Il rischio di morte per dissanguamento è altissimo. Viene caricato sull’elicottero e trasportato in ospedale dove stanno già preparando la sala operatoria. Si dice che il cappellano della pista, prima del decollo, fece in tempo a impartirgli anche un’estrema unzione.
Questa è la fotografia che si trova davanti chi quel 15 settembre sta guardando il gran premio in televisione. Il terribile incidente di Zanardi è entrato nelle case di milioni di persone in diretta Tv, ed è stato l’ennesimo momento di orrore “live” di quel 2001 iniziato con l’omicidio di Novi Ligure. Erika e Omar diventano presto e per tutti i nomi di due mostri adolescenti, fidanzatini capaci di uccidere barbaramente la mamma e il fratellino di lei. Non sono il vicino che salutava sempre, ma sono molto di più: sono i figli di quel vicino che ci dicono che l’orrore può essere ovunque. Dietro ogni angolo e dentro ogni anima. Si inaugura con loro l’epoca dei plastici di porta a porta. A marzo i talebani entrano negli orari di prima fascia dei notiziari televisivi perché stanno distruggendo le statue preislamiche di Bamiyan in Afghanistan. Una guerra iconoclasta in nome del loro dio. A luglio viviamo la morte di Carlo Giuliani e anche in questo caso tutto avviene sotto l’occhio delle telecamere che trasformano un estintore e una mano che esce dalla camionetta dei carabinieri brandendo una pistola in dei simboli di cui non avremmo voluto avere bisogno. Si sente uno sparo e nella nostra mente resta l’immagine di un ragazzo incappucciato sull’asfalto e una macchia di sangue che lentamente si ingrandisce. In quei mesi iniziamo a capire che la morte non è più un tabù e diventa qualcosa di mostrabile.
Qualche ora dopo, dentro la scuola Diaz succederà l’impensabile per uno stato democratico. E anche lì ci saranno le telecamere a documentare la mattanza. L’11 settembre rappresenta forse l’emblema di questo nuovo mondo. Il crollo delle Torri Gemelle, l’esplosione al Pentagono e quel quarto aereo diretto chissà dove che precipita in un campo. I Boeing che penetrano nelle Torri, gli uomini e le donne che si gettano nel vuoto, una folla spaventata di cittadini che abbandona Manhattan a piedi come se fosse la più banale evacuazione di una metropoli dentro un action movie di Serie B. Iniziano i video di Bin Laden che lancia comunicati farneticanti e autoprodotti. Il 2001 è stato – per tutti quelli che lo hanno potuto vivere con una certa consapevolezza – un anno incredibilmente forte e duro. Violento e spietato. Una cicatrice lunga quasi dodici mesi senza la quale oggi saremmo tutti molto diversi. Fate un esperimento. Provate a pensare alle vostre vite prima del 2001 e dopo il 2001. O ancora. Provate a pensare alle vostre vite senza il 2001. Sarebbe tutto uguale? La risposta è no.
E poi c’è l’incidente di Zanardi che non sembra aggiungere nulla di nuovo a questo triste canovaccio di eventi e con la morte in diretta che è destinata a restare il marchio di fabbrica del 2001. Ma poi succede altro. Zanardi si mette di traverso con la morte come la sua Honda poche ore prima si era messa di traverso sulla pista. E così decide di non seguire quel solco degli eventi già tracciati. Decide che non è quello il momento giusto per morire. Resiste, torna indietro, chissà forse si gioca la fiche dell’estrema unzione ai dadi con Dio e vince un bonus vita. Passa per il coma, tante trasfusioni, molte operazioni, ma ce la fa. Tre mesi dopo è a Bologna per la consegna dei caschi d'oro di Autosprint. Ha delle protesi provvisorie e si alza in piedi. Piangono tutti e lui come se nulla fosse sorride e dice: "Mi tremano le gambe". Anche quel momento avviene in diretta Tv. Ma è l’inizio di un'altra storia.