“Smettetela di chiamarli pentiti, pochissimi sono veramente pentiti. Sono collaboratori di giustizia, persone che stipulano un contratto con lo Stato, ma senza di loro non avremmo potuto fermare lo stragismo di mafia”: a parlare è Alfonso Sabella, per anni magistrato inquirente a Palermo, all’epoca del pool antimafia guidato da Giancarlo Caselli. Sabelli è stato invitato a Quarta Repubblica su Rete 4 per parlare del caso Brusca. Perché? Perché era stato lui a catturarlo. Per Sabella quelli che chiamiamo pentiti non sono pentiti, ma sono (stati?) comunque utili: “Senza i collaboratori non sapremmo nemmeno chi è Giovanni Brusca. Io ho utilizzato tutti gli strumenti a disposizione, ma la ciccia me l’hanno sempre data i collaboratori di giustizia. Brusca, cosa che tutti dimenticano, è stato assolto in primo grado al maxiprocesso, fu condannato in secondo grado grazie alle dichiarazioni di Marino Mannoia che arrivarono proprio in contemporanea con l’adozione della legge sui collaboratori di giustizia”. Una legge, sottolinea il magistrato, arrivata “perché lo Stato aveva capito che con gli strumenti ordinari non sarebbe mai stato in grado di contrastare adeguatamente la mafia (Falcone se n’era reso conto per primo) e conseguentemente si è scelto come in tanti altri Paesi di adottare una legislazione premiale per i collaboratori di giustizia”.
Una legge che però dopo la notizia della scarcerazione di Brusca vari politici hanno annunciato di voler cambiare: “Attenzione – avverte Sabella – a buttare oggi bambino e acqua sporca. Forse il problema non è tanto la legge, quanto l’applicazione che ne abbiamo fatto nel tempo”. La Procura di Palermo per esempio non ha mai utilizzato Scarantino: “La seconda volta che lo vidi – il racconto del magistrato da Nicola Porro – gli dissi «se lei è un mafioso, io sono un fisico nucleare, arrivederci e grazie». E me ne sono andato”.
In ogni caso Sabella invita i politici a non prendere per i fondelli gli italiani: “Se oggi si modifica la legge, l’attenuante continuerà ad applicarsi per tutti i delitti commessi fino a questo momento, quindi gli effetti li vedremo tra 25 anni. Non pigliamo in giro il Paese dicendo che i Brusca non escono più. No, i Brusca continueranno a uscire per almeno 25 anni.”.
Brusca è anche colui che per ammissione del diretto interessato ha segnato la più grande sconfitta professionale e personale di Sabella: “Brusca per me era l’icona del male. La morte del piccolo Di Matteo è qualcosa che ancora oggi mi toglie il sonno. Gli errori che potremmo aver fatto durante le indagini, il fatto di non essere riusciti a salvare la vita a quel bambino. Quel 20 maggio del 1996 fu una liberazione, un grande trionfo dello Stato”.
Un’altra svolta fu l’avvio della collaborazione, tre giorni dopo la cattura: “Brusca l’avevamo affidato a un gruppo particolare della polizia penitenziaria. Mi chiama il dirigente di quel gruppo sul telefono crypto che avevo in ufficio e pronuncia le testuali parole, non le dimenticherò mai: «Comandi dottore, il bambino ha bisogno d’affetto, comandi». E mette giù il telefono. Era un codice. Il bambino era Giovanni Brusca, affidato alla protezione loro, e chiedeva l’affetto nostro, chiedeva di parlare con i magistrati. Il primo pensiero che ho avuto è stato «ma io quando lo incontro come faccio a stringergli la mano?» L’uomo Alfonso Sabella quella mano non l’avrebbe mai voluta stringere, non l’avrebbe mai stretta. Il magistrato Alfonso Sabella quella mano l’ha stretta, ma stringendo quella mano noi abbiamo cancellato dalla storia d’Italia lo stragismo corleonese. Ricordiamoci cosa avevano fatto gli stragisti corleonesi. A Brusca abbiamo trovato 10 lanciamissili terra-aria a Giambascio (oltre a due lanciagranate anticarro, una trentina di granate e cariche supplementari di lancio, ndr), più di 400 kalashnikov, quintali e quintali di esplosivo, io sono venuto a dissotterrare a Formello vicino a Roma 200 chili di Semtex che dovevano mettere davanti alla Torre di Pisa. Senza i collaboratori di giustizia tutto questo l’avremmo potuto fare? Oggi se siamo a questo livello nella lotta alla mafia lo dobbiamo anche, anche, alla legge sui collaboratori di giustizia”.
Sabella invita poi a ricordare la faccia di Carlo Azeglio Ciampi che arriva in piazza della Signoria quando la mafia aveva messo la bomba alla più grande pinacoteca del mondo: “Era la notte della Repubblica. Era un momento in cui la mafia stava facendo allo Stato una guerra da paura. Avevano messo le bombe a San Giovanni in Laterano e a San Giorgio in Velabro, i morti a Milano alla Galleria d’arte moderna. La Torre di Pisa volevano far saltare in aria questi signori. Questo stragismo non esiste più anche grazie alla collaborazione di Brusca. Brusca mi ha dato un’indicazione che poi mi sarebbe stata utile per arrestare Vito Vitale, l’ultimo dei corleonesi stragisti di quel gruppo. Mi ha dato indicazioni utilissime per arrestare Pietro Aglieri, il numero due di Cosa Nostra in quel momento”.
Se quella stagione è chiusa, non si può voltare pagina anche riguardo a questa legge? “Ma la mafia – argomenta al riguardo Sabella – non è mica scomparsa. È scomparsa la mafia 3.0, quella che sfidava lo Stato. La mafia 4.0, quella che invece ha capito che probabilmente è più facile comprarselo lo Stato, credo che sia ancora presente. E io non me la sento di dire che questo è un Paese libero dalla mafia. Quello che dico sempre quando vado a parlare nelle scuole è «Ragazzi, la mia generazione ha fallito, ora tocca a voi. Noi non siamo riusciti a consegnarvi un Paese libero da mafia, da corruzione e da malaffare. Ora il compito tocca a voi». E credo che la legge sui collaboratori di giustizia sia uno strumento ancora oggi indispensabile”.
Secondo Sgarbi, che trova scandalosi i benefit anche economici che si accompagnano alla collaborazione, per avere la collaborazione di un mafioso basterebbe promettergli di togliere il 41 bis. “Non credo – la posizione di Sabelli al riguardo – sia appetibile per spingere qualcuno a collaborare. Ovviamente si è fatta una riflessione per dare qualche beneficio che vada oltre”. Questo nonostante il magistrato consideri il 41 bis una misura gravosissima, che per Sabella andrebbe allentata non tanto in caso di pentimento, quanto in caso di situazioni limite: “Il 41 bis è uno strumento indispensabile nel contrasto alle mafie. È vero che viola dei diritti fondamentale dell’individuo in maniera pesantissima: i tuoi familiari non li abbracci più, li vedi soltanto con un vetro divisore, invece di fare 4-6 colloqui al mese ne fai solo uno, puoi ricevere solo un pacco al mese, hai tutta una serie di limitazioni nell’attività all’aperto, stai nei gruppi di socialità e vedi 4-5 persone sempre. Perché tutto questo che è quasi a livello della tortura di Stato? Tenere all’ergastolo una persona in queste condizioni, è inutile che ci nascondiamo dietro a un dito. Ha una sua logica nella misura in cui tu devi tutelare altri beni costituzionalmente almeno di pari livello, che sono l’ordine e la sicurezza pubblica. Avevamo esperienze e dati oggettivi di boss che dall’interno del carcere continuavano a dare ordini di morte. Il 41 bis ha una sua ratio nel momento in cui protegge il resto, ma quando si tratta di Provenzano, un vegetale accertato da tutte le perizie, o di un Raffaele Cutolo che ormai non contava più un tubo all’interno dell’organizzazione da almeno una quindicina d’anni abbandonante, perché applicare questa norma? Un errore gravissimo poi l’abbiamo fatto quando l’abbiamo estesa a pedofili e corruttori: che c’azzecca?”
Sabella, non negando che nel rapporto con i collaboratori o presunti tali ci siano stati errori e ingenuità (“tu non ti puoi mettere davanti a un collaboratore di giustizia facendogli capire quello che tu vuoi sapere. Devi sempre prenderla alla lontana, perché tu hai bisogno di una prova genuina, non di una prova taroccata, perché se no arrivi al dibattimento e hai fallito”), pone però un quesito più radicale: “Siamo sicuri che nelle direzioni distrettuali antimafia ci siano i migliori magistrati possibili? O ci sono i più rappresentativi? Quelli diciamo più amati dalle correnti? Siamo sicuri?”
E a detta di Sabella la deriva correntizia avrebbe minato anche la sua carriera, nonostante l’arresto di Brusca: “Io sono stato ammazzato dalle correnti della magistratura. Mi hanno distrutto la vita. Autonomia e indipendenza sono un dovere che abbiamo noi magistrati, non un diritto. E io non accetto di sacrificare la mia autonomia e indipendenza nemmeno rispetto ad altri magistrati”.