Lui e Giovanni Falcone seduti sui gradini di piazza Navona, a Roma, come due vecchi amici. Massimo Giletti allora lavorava per Mixer di Gianni Minoli, questa scena se la porta dentro e la voce, quando ne parla, gli trema. Giletti è in una fase riflessiva, sembra quasi esausto: sta per finire la stagione di Non è l’Arena, dove spesso si è trovato a portare avanti casi da solo, quando non li affrontava nessuno o quando gli altri smettevano di occuparsene: Palamara, Genovese, il figlio di Grillo, le mascherine di Arcuri, l’omicidio di Piscitelli che serve a capire e tracciare la criminalità romana, tutte vicende estenuanti, ogni domenica 5 ore di diretta, ogni domenica uno scoop, una notizia esclusiva da approfondire. Però, comunque, il 10 giugno su La7 esce il suo documentario Abbattiamoli: Giletti è sceso di nuovo in strada, in Sicilia, a raccontare la mafia. Però, intanto, Brusca è stato liberato. E allora, in questa chiacchierata con Massimo Giletti, è necessario tornare (anche) a quei gradini.
Giletti, cos’è Abbattiamoli?
«È un racconto dei misteri che ancora aspettano una risposta, dalla mancata perquisizione del covo di Riina, alla mancata cattura di Provenzano. Un racconto che faccio andando sui luoghi di cui parlo e tirando fuori elementi che non erano mai stati presi in considerazione».
Faremo vedere come fu ritrovato il covo di Riina 18 giorni dopo la sua cattura: completamente devastato e la cassaforte di colore verde aperta
Di Brusca qual è la tua opinione?
«Guarda, quando frequentavo l’università a Torino il professore di diritto penale mi disse: lei è troppo passionale, la legge non ha nulla a che fare con la morale, è qualcosa di diverso. È faticoso accettare che un uomo come Brusca, reo confesso di 150 omicidi, che sostiene di aver premuto il pulsante che ha fatto saltare in aria Falcone e la sua scorta, che ha sciolto nell’acido il piccolo Di Matteo, possa tornare libero, ma lo è per effetto di una legge sui collaboratori di giustizia voluta proprio da Falcone e che ha permesso di aprire una spaccatura all’interno della mafia. Perché per esempio nessuno parla della storia di Bruno Calcedonio di Mazzara del Vallo, autore di omicidi da ergastolo, che però ha usufruito dei benefici della stessa legge e ora è fuori? Più che parlare di Brusca perché non si parla della sentenza della Consulta che rischia di far liberare mafiosi non pentiti che stanno in silenzio da anni?».
Prima hai citato due episodi, la mancata perquisizione al covo di Riina e il mancato arresto a Provenzano. In entrambi è coinvolto Mario Mori, il generale dei Ros, il reparto operativo speciale dei Carabinieri, per molti il responsabile di queste due mancanze…
«Io mi attengo sempre alle carte. E sulle carte la mancata perquisizione del covo dove per anni è stato nascosto Totò Riina viene giustificata, proprio dal generale Mori, con il concetto: “I miei uomini erano stressati e stanchi”. Ora va bene tutto, ma gli uomini del Ros, preparati come sono, soffrono di stress solo dopo sette ore? Perché nel documentario diremo una cosa mai uscita e cioè che i Ros smisero di controllare il covo di via Bernini 54 solo dopo sette ore… E di questa iniziativa perché non sono stati avvisati i magistrati? Mori a queste domande non risponde e il suo atteggiamento mi lascia perplesso».
Fu perquisito solo 18 giorni dopo…
«Tutti i pentiti, anche Nino Giuffrè e Brusca, hanno raccontato che in quel covo c’era una cassaforte, che nel documentario faremo vedere e che era di colore verde, in cui Totò Riina pare conservasse documenti che non sono mai saltati fuori… E poi in Abbattiamoli c’è la testimonianza dell’allora maggiore Domenico Balsamo, che quando perquisii Riina racconta che addosso gli trovarono circa 250 pizzini con nomi e cognomi. Immaginate cosa poteva esserci dento quella cassaforte. Io ho una piccola chicca: faremo vedere come fu trovato l’interno della villa in cui si nascondeva di Totò Riina quando i carabinieri ci entrarono. La cassaforte era aperta e tutto era stato completamente devastato. Poi farò ascoltare le registrazioni dell’unico interrogatorio di Riina con il capo della procura di Caltanissetta, il dottor Lari, in cui ci sono dei passaggi molto forti sui servizi segreti».
È stato lo stesso Riina, intercettato mentre parlava in carcere con Alberto Lorusso, a dire palesemente che se fossero venuti fuori quei documenti sarebbe caduto lo Stato.
«Anche il capitano De Donno, uomo di Mori al Ros, confermò la stessa cosa, almeno così disse ad Attilio Bolzoni di Repubblica e Saverio Lodato de L’Unità, due giornalisti immensi. A processo ovviamente smentì. Inoltre, come dicevamo prima, Mori dà risposte poco chiare anche sul perché non venne catturato Provenzano nel covo di proprietà di Antonino Ignazio La Barbera. A portarceli fu Luigi Ilardo, capomafia della provincia di Caltanissetta che aveva cominciato a collaborare».
Finito malissimo anche lui.
«I carabinieri dovevano intervenire durante quell’incontro ma i Ros non entreranno mai in azione e successivamente Ilardo fu ammazzato. Esistono fotografie, e io in Abbattiamoli le farò vedere, che ritraggono Ilardo salire su una Jeep guidata da un’autista di Provenzano per andare lì. Ilardo aspetta otto ore. E la giustificazione di Mori quale fu? “C’erano le pecore e i pastori, abbiamo ritenuto di non intervenire”. I dubbi sono quantomeno legittimi… Nel documentario, porto Luana, la figlia di Ilardo, lì per la prima volta. E Luana si commuove, si guarda intorno e dice: “Ma qua non c’è niente, potevano intervenire, perché non l’hanno fatto? I Ros, che sono l’elite dei Carabinieri, come potevano avere paura delle pecore e dei pastori?”.
La tua idea?
«Ripeto, io sto ai documenti, e prendo nota del fatto che dopo quella mancata operazione Ilardo viene portato a Roma ed è costretto a svelare che dietro Oriente, il nickname che gli era stato dato sotto copertura, c’era lui. E chi aveva davanti? Quattro persone, tra cui il generale Mori e il procuratore Giuseppe Tinebra. Purtroppo passarono pochi qualche giorno e viene ucciso».
Non sfugge il particolare che il nome di Giuseppe Tinebra è tornato pure in questi giorni come uno dei vertici della loggia Ungheria, l’associazione segreta emersa dai racconti dell’avvocato Amara e che sta provocando un terremoto all’interno della Magistratura.
«Oggi parlare di chi non c’è più è sbagliato, perché non può difendersi. Però è vero, molti nomi che c’erano allora, tornano anche adesso. Ma non basta, ci vogliono i riscontri. Io ho avuto la fortuna di passare del tempo con Falcone e mi ricorderò per sempre una chiacchierata fatta con lui sulle scale di piazza Navona. Mi porto dentro la sua frase: “Tutto quello che una persona dice, anche la cosa più terribile, è credibile solo se hai un riscontro”.
Farò ascoltare le registrazioni dell’unico interrogatorio di Riina con il capo della procura di Caltanissetta, in cui ci sono dei passaggi molto forti sui servizi segreti
Dove è finita Cosa Nostra? È possibile che una organizzazione così forte non esista più?
«Oggi la mafia non è sparita, si è immersa. Totò Riina voleva le stragi, Bernardo Provenzano voleva agire sotto traccia. Sempre nei colloqui con Lorusso, Riina dice che Matteo Messina Denaro era un bravo ragazzo ma che poi ha cominciato a pensare alle pale eoliche e ai soldi. La mafia ora è ovunque: sta nelle banche, in Svizzera, a Milano, gestisce flussi di miliardi di euro… Posso dirti che il viaggio per realizzare il mio documentario mi ha fatto venire in mente una frase di Pirandello: “In Sicilia ho conosciuto tante maschere e pochi volti”. Io stesso sono entrato in un labirinto dove ci sono sempre frammenti di verità, mezze confessioni, in cui tutto si confonde. Non è un caso che il documentario comincia dal cretto di Burri, un’opera di land art realizzata da Alberto Burri, un labirinto che sorge dove c’era la città di Gibellina, che il terremoto del Belice ha spazzato via, tra Trapani e Palermo».
Un labirinto in cui si è persa Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, che proprio su La7, si è chiesta: perché il capo della Procura di Palermo Pietro Giammanco non dice a mio padre dell’arrivo del tritolo per ammazzarlo? E perché solo nel 2009 i pm Russo e Camassa raccontano nuche nel giugno 1992 Borsellino gli confessò che la Procura di Palermo era un covo di vipere? Tutte domande senza risposta…
«Parliamoci chiaro, per anni c’è stato un depistaggio voluto da parte dei vertici deviati delle istituzioni palermitane. Cè una parte dello Stato che non ha fatto lo Stato. Perché non lo ha fatto? Non lo so. Attenzione: Riina si lasciò scappare un “al governo mi hanno chiesto i morti”. Mi hanno chiesto “chi”? Non penso che Riina si facesse imporre le regole da qualcun altro, ma alcuni interventi non sono mai stati chiariti. E se provi a farlo entri in meandri senza una via di uscita».
Brusca è in luogo segreto, in libertà vigilata. Quanta voglia avresti di andarci a parlare?
«Tanta, ma anche prima avrei voluto, Brusca è più di un killer…».
Sai dove lo nascondono adesso?
Ci pensa. Resta in silenzio due secondi. «No, non lo so».
Riprendendo la frase di Pirandello: Matteo Messina Denaro, adesso, è solo una maschera?
«No… Lui e Giuseppe Graviano sono i veri due fratelli, erano gli uomini scelti da Toto Riina per eliminare all’interno della mafia siciliana chi non era d’accordo con la sua visione. Ma poi, come dicevo, hanno cambiato direzione. Loro due sono uomini di peso, ed è Matteo Messina Denaro che comanda. Lo racconta molto bene in Abbattiamoli Salvatore Baiardo, che ha gestito la latitanza dei fratelli Graviano nel nord Italia. Quando gli dico di parlare di Messina Denaro, mi fa: “No, non ne parliamo assolutamente. Facciamo finta di credere a chi dice che sia morto”. Dopo che gli faccio quel nome, il suo sguardo, cambia in modo brusco, diventa teso. Ecco perché è importante fare le interviste faccia a faccia».
Hai usato la parola fratelli. A caso oppure no? Così si definiscono i massoni...
«Matteo Messina denaro è il collante tra servizi segreti deviati e massoneria, così è emerso nei processi, è ovvio. Anche perché nel trapanese la presenza della loggia massonica è molto forte. Non è solo un nome, un volto. Il suo fantasma fa ancora paura».
Sotto, l'intervista a Massimo Giletti di Gianni Minoli, suo maestro