Nel giorno delle iniziative che si tengono a Palermo per il ricordo di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli uomini della scorta a 29 anni dalla strage di Capaci, si è aperta con l’inno di Mameli la cerimonia nel porto alla presenza di Maria Falcone, sorella del giudice ucciso e del ministro dell'istruzione Patrizio Bianchi. Il Ministro dell'Interno Luciana Lamorgese, accompagnata dal Capo della Polizia Lamberto Giannini, ha invece deposto una corona d'alloro alla Stele commemorativa di Capaci, sull'autostrada Palermo-Mazara del Vallo, mentre il capo dello Stato Sergio Mattarella nell'Aula Bunker dell'Ucciardone, insieme al capo della Polizia Lamberto Giannini, ha deposto una corona d'alloro nell'Ufficio scorte della caserma Lungaro, presso la lapide che ricorda i Caduti degli attentati di Capaci e via D'Amelio.
Per celebrare questo anniversario così significativo, abbiamo raggiunto telefonicamente chi quel giorno, non solo era presente, ma faceva parte della cerchia più ristretta di amicizie e colleghi sia di Giovanni Falcone che di Paolo Borsellino. Ci riferiamo a Giuseppe Ayala, ex Sostituto procuratore della Repubblica, che coadiuvò a lungo il pool antimafia, fu in seguito pubblico ministero al primo Maxiprocesso, diventando poi Consigliere di Cassazione e in seguito, poco prima della morte dei due magistrati, venne eletto alla Camera tra le fila del Partito Repubblicano.
Ayala, sono passati 29 anni dalla strage di Capaci. Per lei cosa rappresenta ogni 23 maggio da 29 anni a questa parte?
I sentimenti sono sempre gli stessi, anzi, a causa del fatto che invecchio e quindi sono sempre più fragile, il 23 maggio è una giornata sempre più triste, sempre più angosciosa.
Con Giovanni Falcone non eravate soltanto colleghi, ma anche grandi amici.
Il legame che mi ha unito a Falcone era di amicizia nel senso più nobile, a parte il lavoro insieme. Io dico sempre che è un uomo che ha cambiato la mia vita due volte.
Come mai?
La prima volta, quando mi ha caricato di responsabilità, di fiducia, di stima, mi ha messo in condizione di dare il meglio di me stesso per non deluderlo. E credo di esserci riuscito. La seconda quando se ne è andato il 23 maggio 1992… e continua a mancare la sua presenza, non c’è niente da fare.
Sulla strage in cui perse la vita Falcone, così come quella in cui morì Paolo Borsellino 57 giorni dopo, ci sono ancora delle verità che non sono emerse?
Ricordo il commento che Giovanni mi fece la stessa mattina in cui scampò all’attentato all’Addaura il 21 giugno del 89. Dopo che lo scortarono in ufficio, mi telefonò dicendomi di passare a trovarlo. Quando arrivai, era passata forse un’ora dal tentativo di attentato, mi raccontò quello che era successo, della borsa con 25 candelotti di dinamite e disse la famosa frase, dove parlò di “menti raffinatissime capaci di orientare anche le scelte di Cosa nostra”. Quindi si riferiva a realtà estranee alla mafia, a pezzi deviati dello Stato.
E lei è ancora convinto che sia quella la parte mancante di verità?
Giovanni era un uomo e tutti gli uomini possono sbagliare, ma se quella sua diagnosi era giusta penso che valga anche per le stragi del 1992, sia per il 23 maggio nella strage di Capaci che per il 19 luglio di Via D’Amelio. Da questo ad accertarlo giudiziariamente non sarà facile, soprattutto dopo molti anni.
Eppure, rivelazioni recenti del collaboratore di giustizia Maurizio Avola, contenute nel libro di Michele Santoro, sembrano smentire influenze esterne a Cosa nostra.
Sarà compito dei colleghi che si occupa delle indagini, non vorrei rubargli il mestiere. Per esperienza personale so che con i collaboratori di giustizia bisogna stare molto attenti. Queste rivelazioni vanno prese con le pinze. Da quello che ho saputo dai colleghi di Caltanissetta, però, hanno molte riserve sulla genuinità di questo collaboratore.