Quando si parla di Matteo Messina Denaro si parla – di fatto – di uno dei dieci ricercati più pericolosi del mondo. Si parla della mafia post Totò Riina, delle stragi che hanno caratterizzato gli anni ‘90 e dei nuovi paradigmi delle criminalità organizzata. Eppure, quando si parla di lui mi viene in mente altro: penso alla legge di Lavoisier, quella regola della fisica secondo la quale nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma. Perché Matteo Messina Denaro non c’è, eppure c’è. E non è importante sapere dov’è, se è vivo, se è ancora il capo. Perché è dappertutto, ma con forme diverse.
L’Isola di Matteo, il nuovo podcast di Matteo Caccia (Audible Original) racconta la quotidianità di Giacomo Di Girolamo, un giornalista che ogni giorno dalle frequenze di Radio Rmc 101 racconta la Sicilia e dedica a Matteo Messina Denaro una rubrica quotidiana: Dove sei Matteo? In cui parla col latitante, gli dà del tu, lo sfida, lo cerca, lo aspetta. L’Isola di Matteo è prima di tutto la storia di Giacomo, ma per il concetto di Lavoisier è al tempo stesso la storia di Messina Denaro. La storia di Cosa nostra che non si crea e non si distrugge, ma resistendo si trasforma nello spazio-tempo.
Con la storica voce di Radio24, autore anche di altre serie podcast di successo, abbiamo fatto una lunga chiacchierata per capire meglio L’Isola di Matteo e perché per parlare di mafia e Matteo Messina Denaro non è strettamente necessario parlare di mafia e Matteo Messina Denaro.
Prima una domanda generale: credi che i podcast e la loro serialità si stiano ritagliando un posto di riguardo nella narrazione giornalistica?
Non so se sono la persona giusta per rispondere, perché io sono un autore e non un giornalista. Io di fatto non conduco inchieste, ma racconto storie. Nei miei lavori non c’è la ricerca di una verità attraverso il racconto dei fatti. Io – piuttosto - sto addosso alle persone. L’isola di Matteo non è solo la storia di Matteo Messina Denaro, ma è anche la storia, la vita e la professione del giornalista siciliano Giacomo Di Girolamo, ed è raccontando lui che sullo sfondo vediamo passare le immagini recenti e passate della mafia.
La storia al centro e non la ricerca di una verità…
Per me la storia non è un fine, ma il mezzo per raccontare qualcosa dell’essere umano. Tutte le storie che racconto sono storie di vita. Alcune sono straordinarie altre sono quotidiane, ma ho imparato che in ognuna c’è qualcosa che parla anche a me.
Mentre ascoltavo L’isola di Matteo ho pensato a questa definizione “Podcast on the road”, ti ci ritrovi?
È un’espressione che sento mia e l’idea è stata quella sin da subito. Volevo che il risultato finale fosse un podcast di movimento, anche perché in questo caso non abbiamo una storia con una potente narrazione orizzontale. Non ci sono un inizio e una fine riconoscibili, che poi se vuoi questo è rappresentativo della storia della mafia e del suo essere reticolare, fatta di fili che si intrecciano e alcuni magari finiscono con la morte di un capoclan, ma poi da lì ne partono altri che vanno a finire chissà dove. Insomma, proprio perché sapevo che non sarebbe stata una narrazione lineare ho deciso di accendere il microfono all’aeroporto e di non spegnerlo più per una settimana.
Come hai incontrato Giacomo?
Tenevo un workshop sui podcast a Ferrara per il festival di Internazionale. C’erano giornalisti, editori, ascoltatori di Radio24 e c’era anche questo ragazzo siciliano che alla fine si è fatto avanti e mi è venuto a salutare. Mi ha raccontato chi era e cosa faceva col suo solito understatement. Solo dopo ho scoperto, ad esempio, che tutti i suoi libri erano editi da Il Saggiatore o Laterza. Quel giorno Giacomo mi chiese se un podcast su Mattia Messina Denaro poteva funzionare e io gli dissi di sì. La cosa finì lì. Qualche mese dopo ci risentimmo perché usai nel mio programma una sua storia, quella della custode del palazzo della redazione che non gli parla più.
In che senso non gli parla più?
Quando a Giacomo inviarono delle lettere anonime la custode avendole ritirate venne convocata in automatico in questura. Da quel giorno smise di parlargli. E questa cosa è incredibile. Quando sono andato giù le passavamo davanti e Giacomo diceva: vedi? Niente? Come se non esistessi.
E lei?
Non ci guardava nemmeno in faccia.
Quando hai capito che il podcast si poteva fare?
All’improvviso. Era in effetti tutto davanti a me dovevo solo metterlo a fuoco. Siamo partiti il 15 giugno insieme a Luca Micheli e siamo stati via per una settimana. Giacomo ci ha preparato un tour, avevamo un po’ di appuntamenti fissati e poi abbiamo girato random.
A un certo punto in una puntata non riesci a capire cosa sta succedendo perché sebbene tu chieda a Giacomo di parlarti di Matteo Messina Denaro lui ti parla sempre di altro. Ad esempio, ti racconta di alcuni cani rubati.
Con l’esempio dei cani rubati hai centrato il punto. Si tratta di un piccolo esempio che dice tanto. Succede che a una collega di Giacomo rubano dei cani di razza e lei sa benissimo che il modo per recuperarli non è passare per Giacomo o per una denuncia, ma serve percorrere un’altra strada. Lei che di certo non è una criminale è consapevole di come funziona quel sistema. E questo esempio per me è più illuminante del racconto di come Matteo Messina Denaro vada a studiare il posizionamento delle bombe a via dei Georgofili, perché mi dice molto di più. L’altro giorno rileggevo una mia e mi chiedevano se secondo me Messina Denaro avrebbe ascoltato il mio podcast.
E tu?
A me è venuto spontaneo dire che io faccio fatica a pensare che ci sia un uomo nascosto in Sicilia in questo momento e fatico a immaginarlo mentre ascolta un podcast, ma anche mentre si sta mangiando delle melanzane alla parmigiana, come racconta Giacomo.
Cioè?
Non perché non sia plausibile che lui sia ancora in Sicilia o semplicemente che lui sia ancora vivo e latitante, ma perché per me Matteo Messina Denaro è un’allegoria. Non è importante paradossalmente sapere dov’è, se è ancora vivo o se è ancora il capo. Perché lui è dappertutto. E te ne accorgi nella signora a cui chiedono un riscatto per farle riavere i cani. E lei accetta. O te ne accorgi quando scopri che ci sono donne che cucinano una porzione di parmigiana in più, la mettono in un tupperware e lo danno a qualcuno, che lo dà a qualcun altro, che lo dà a qualcun altro e alla fine quel piatto arriva a Messina Denaro. È in queste cose che si sviluppa il racconto reticolare della mafia e capisci che è ovunque. Faccio una precisazione a cui tengo molto perché non voglio sembrare arrogante o irrispettoso: i parenti delle persone uccise da lui e dai suoi sodali ovviamente ci tengono a sapere dov’è e che lo si cerchi e ci mancherebbe. Però dal punto di vista narrativo a me non interessa.
Ci sono due momenti in particolare che hanno catturato la mia attenzione. Il primo è quando Giacomo dice che raccontare la mafia è visto come un qualcosa di bizzarro, quasi naif.
Tema fondamentale, anche questo. A un tratto lui mi racconta di questa riunione di condominio in cui chiede con insistenza che gli venga aggiustato il citofono, perché quando suonano al piano di sotto risponde lui e quando suonano a lui risponde la vicina dal piano di sotto. Dopo l’ennesima richiesta l’amministratore gli dice: vabbè tanto si sa che lei è uno stravagante.
Cosa significa esattamente?
In quel momento Giacomo ha un’illuminazione. Essere curioso e fare domande, rompere le palle per cercare la verità ti fa diventare un personaggio stravagante. E questo è il metodo che la mafia, ma non solo, mette in atto per sminuire te e il tuo lavoro.
Tu gli chiedi se ha la sensazione che se non fosse il solo a fare quel lavoro sarebbe diverso.
E lui mi risponde di sì. Che se ci fossero altri giornali o radio o tv la sua non sarebbe più un’attività bizzarra, ma sarebbe la normalità. Questo è un tema importante che non riguarda solo la mafia, ma anche altro: penso alla violenza sulle donne o alla questione di genere… tu che racconti devi sempre trovare il modo giusto per evitare di sembrare naif perché se lo sembri la comunicazione è chiusa, non sei preso sul serio e si passa oltre.
Un’altra cosa che dice Giacomo è che il giornalismo antimafia non esiste, che significa esattamente questa frase?
La trovo molto vera e dice qualcosa sulla situazione della stampa e del giornalismo che hanno sempre bisogno di definizioni. Giacomo a un certo punto racconta: mi dicono che sono un giornalista resistente e resiliente, ma io sono solo un giornalista residente. Io vivo qui e qui ho queste cose da raccontare. Non esiste giornalismo di resistenza, ma persone che fanno domande.
Parlate di un concetto interessante che è il “Paradigma mafioso” e cioè che la mafia sul territorio risolve problemi e armonizza le disuguaglianze. A un certo punti tu dici “mafia socialista”, una battuta ovviamente ma di fatto è un meccanismo rodato. Lo hai notato questo “socialismo”?
No. Noi eravamo come in un acquario con una guida che ci portava in giro e ci mostrava cose. Giacomo è stato il nostro Virgilio e nei suoi racconti è costante questo tema come è costante il tentativo di smantellare un altro paradigma legato al giornalismo. Penso a quando arrivano troupe da fuori che fanno venti interviste, chiedono venti volte cosa si pensa di Messina Denaro e in 19 dicono che è un criminale, poi c’è quell’uno che ti dice che ha fatto cose buone ed è lui che finisce in onda.
Torniamo sul paradigma mafioso.
Esiste e funziona. Perché è un sistema di controllo ma anche di protezione. Un vero e proprio stato sociale. Il nostro è un Paese spaccato in due che viaggia a differenti velocità: il nord e il sud. Lo capisci dalle macchine che vedi in giro, dai cani randagi per le strade; il sud è un luogo sfruttato e tra le opzioni che la gente ha per sopravvivere c’è anche l’ingresso in un clan mafioso che ti consente di vivere una vita dignitosa, ti dà protezione, ti garantisce un orizzonte.
Giacomo dice una frase inquietante a un certo punto: Devi preoccuparti quando fai incazzare i piccoli, non grandi… Questa cosa mi ha messo addosso una profonda ansia.
Anche a me. Noi siamo andati in un bar a prendere un caffè e chi ci ha servito era cortese e disponibile, ma era uno di cui Giacomo aveva scritto, denunciando. Un tizio che faceva estorsioni e bruciava le macchine perché non gli permettevano di mettere i tavolini del bar fuori. Lì capisci che ha ragione Giacomo, perché queste persone lui le vede tutti i giorni e magari non gli sparano un colpo in testa, però sanno dove parcheggia, dove vive, sanno che ha dei figli, un gatto… quando sei lì capisci perfettamente cosa intende Giacomo quando dice che la mafia i grandi omicidi non li commette più. Non è più il capo mafioso che ti fa saltare in aria, ma è un tizio del bar qualsiasi che può diventare una minaccia.
C’è un certo Calogero Giambalvo, ex consigliere comunale di Castelvetrano, che si vantava di aver incontrato Matteo Messina Denaro. Viene intercettato, indagato e poi ammette di essersi inventato tutto. Un incontro con Matteo Messina Denaro, pure se millantato ti dà visibilità, aumenta la tua narrazione. Banalmente… ti fa guadagnare punti.
È così ed è strano pensarlo. Senti questa notizia e pensi: vedi? Sono tutti mafiosi. Ma poi scopri che è tutta un’altra storia e non solo non sono tutti mafiosi, ma addirittura c’è quello che vorrebbe esserlo e non ci riesce e allora deve accreditarsi agli altri dicendo: oh io l’ho incontrato. Come se fosse Cristiano Ronaldo o il Presidente della Repubblica. E torniamo al punto centrale del tutto: è veramente importante che Matteo Messina Denaro sia vivo? La risposta è no, perché tanto lui vive nei racconti degli altri e questo lo rende un essere mitologico.
Ma come si cerca qualcuno che latita da 28 anni? Se non lo hai trovato in tre decadi forse non lo troverai mai, però c’è. O comunque c’è la sua rete che lavora. Allora forse il modo migliore per cercarlo è raccontarlo come fa Giacomo, quotidianamente, dalla radio ricordando chi è e cosa fa…
Sicuramente e si torna al tema dell’allegoria che sta in quel racconto quotidiano di Giacomo, che dev’essere capace di catturare l’attenzione del ragazzino a cui magari non frega nulla di Messina Denaro, ma magari ascoltando una, due, tre volte inizia a capire quanto tutta la nostra vita sia intrisa di questa cosa, che non è il boss latitante, ma è cosa nostra, è l’atteggiamento mafioso. Tutti i giorni Giacomo racconta un po’ di Messina Denaro e goccia dopo goccia, costruisce qualcosa, scava un segno.