Ultimamente ho capito che non puoi essere una brava persona e allo stesso tempo un ottimo giornalista, le due cose sono semplicemente incompatibili. A farti scegliere normalmente trovi la famiglia, la morale e la coscienza. Alla prima devi rinunciare ogni volta che esci per un lavoro, perché se vuoi fare bene il tuo ti tocca allontanarti da casa: dare brutte notizie - devo partire, starò via qualche giorno, non ne ho davvero voglia, ci prenderemo del tempo per noi - diventa una professione. La morale invece è tutto ciò che fai di sbagliato per restituire un servizio giusto, che a volte è facile e al contempo degradante come picchiare uno che caga. Altre volte ancora ti tocca scendere a compromessi, oppure sei portato a soprassedere perché hai già ben chiari i problemi che potrebbero causarti le tue parole, cosa che succede anche quando si litiga. La coscienza infine è come la morale, ma più che agli altri è una questione che devi sbrigare da te, roba a cui ti sottoponi da solo. Io ho sempre provato a stare nel mezzo, a fare due turni, a non essere mai un uomo troppo giusto o un giornalista impeccabile. Perché lo faccio? Curiosità e attitudine, ma anche inerzia. Perché scrivere? Per ricordare, è così da sempre perché gli scritti stanno semplicemente lì. A volte questa cosa può spaventarti, ma un buon maestro ti insegnerà che accettare gli errori è il modo migliore per farne meno. Il mio maestro è più concreto, dice fottitene, vai avanti. A questo punto chiedo scusa a chi leggerà aspettandosi qualcosa che non sia un atto di egoismo: scrivere è sempre e soltanto un atto di egoismo.
Nel lungo percorso per ottenere l’accredito permanente al paddock della MotoGP, che vale tutta la stagione ed è secondo soltanto a quello di chi in circuito lavora davvero (meccanici, manager, piloti) sono stato a volte vicino e altre lontanissimo dal riuscirci, in breve è stato un elastico stancante: non sai come andrà il tuo anno, come ti dovrai organizzare, cosa sarà. Ogni tanto guardo valigie su Amazon, più raramente ostelli a Lagos, un paesello sul mare vicino a Portimão decisamente più economico. Guardo i voli e faccio improbabili calcoli sui costi, sulle date. C’è questa Samsonite gialla che mi tenta, combinazione perfetta tra l’essere un bell’oggetto e una cosa utile. Sono ossessionato dagli oggetti, anche se un po’ meno da quando abbiamo avuto un weimaraner che ne ha distrutti una buona parte riportando le cose all’essere soltanto cose. Un giorno questo cane, Lasko, abbiamo dovuto darlo via. Lo abbiamo fatto quattro volte - non si trovava qualcuno in grado di reggerlo, così ci veniva restituito - ed è stato come prendersi a pugnalate nei piedi.
Quando viene accettata la richiesta di accredito sono sospeso tra euforia e paura, che è dove mi capitano più spesso dei piccoli sprazzi di vera estasi. Ballo in casa, il mio ballo della gioia è una storpiatura delle arti marziali (che non conosco) in cui simulo mosse di Kung-fu, Shaolin, cose che forse potrebbero funzionare su TikToK. Ad ogni modo pensare a mia moglie e ai nostri due figli mi suscita un po' di angoscia. Tutte le storie di chi vive il paddock, infatti, finiscono a sbattere contro gli stessi muri, perché devi rinunciare a un pezzetto della tua famiglia e non sai mai come andrà a finire: potresti ritrovarti a cinquant’anni solo, con una vita incasinata e un lavoro che ormai non ti lascia alternative. Puoi risolvere questo problema in due modi: uno è guadagnare cifre considerevoli, l’altro è non avere una famiglia. Un mio collega che è anche un po’ un amico dice che scrivere di corse sul serio, quindi andandoci, è niente più di un cul-de-sac, una trappola. Io e mia moglie abbiamo litigato più volte per questo, così quando è arrivata la conferma via mail la seconda persona a cui ho pensato è lei, la mia donna, che contro ogni mio più cupo pronostico l’ha presa con grande sportività: meglio così, meglio l’accredito, che se ti avessero detto di no avresti combinato chissà quali casini per andarci lo stesso. Nei quasi nove anni passati in coppia abbiamo quasi stabilito che dei due lei è quella intelligente.
La sera prima di partire per il Portogallo sono un po’ teso, perché più che pensare al weekend sto pensando a tutta la stagione. Penso a mia madre, lei mi ha spiegato tutto quando a 19 anni ho deciso di partire, da solo e con 600 euro in banca, per l’Australia. Alla fine di quell’estate ne avevo da parte più del doppio ma quando arrivò una multa per essere fuggito da una paletta della stradale causa mancanza di copertura assicurativa falsificai il bollettino alle poste e investii quel denaro in un volo di sola andata per Melbourne. Meglio, no? I problemi, riconducibili all’agenzia delle entrate, sarebbero arrivati solo anni più tardi e fuggire, tutto sommato, si rivelò una scelta corretta. Comunque, per quanto fosse amareggiata dalla mia partenza, anche mia madre capiva che stavo rispondendo alla chiamata del viaggio, così mentre vagavo per la casa come la pallina di un flipper in cerca di cose - che mi serve adesso? cosa sto scordando? - Lei mi diede la risposta più semplice: devi avere dei soldi e un passaporto, tutto il resto puoi procurartelo più tardi. Questo pensiero mi ha sempre messo una strana tranquillità addosso.
La partenza
È mercoledì 22 marzo, sveglia ore 3.50. Esco di casa e ho già il vento nella schiena, pronto al primo di quattro voli prenotati la settimana prima. Al Marco Polo di Venezia mi concedo una russian shower, che in italiano vuol dire riempirsi di un profumo dozzinale al duty-free con buona pace dei passeggeri di fianco. EasyJet to Charles De Gaulle, s’il vous plait. L’A320 da Venezia a Parigi atterra in anticipo e viene coperto di applausi, evidentemente la pandemia ha causato qualche passo indietro nella lenta e complessa evoluzione del turista italico. Fortunatamente, la struttura intitolata al signor De Gaulle è l’utero degli aeroporti: free Wi-Fi, intere tavolate libere, sala fumatori all’aperto. Tres bien, enchanté.
Prendo il secondo volo di giornata, Parigi - Faro. Atterro e mi sento l’agente Cooper di Twin Peaks mentre registra messaggi per la sua Diane: Ciao Diane, Faro sembra Tenerife con questo clima favoloso e le palme, almeno finché non esci dall’aeroporto e arrivi alla stazione. Lì diventa Tirana, e non parlo del centro. Palazzi dimenticati, architettura anni sessanta e abusi edilizi costituiscono buona parte della cittadina che, però, affaccia sul mare e ti investe con un profumo d’aria salmastra in grado di farti rivalutare completamente l’urbanistica. Ho fame, quindi entro da Ponto e ordino pulled pork e una Super Boch, birra preferita dai local. È un momento poetico a 5,70 euro. Una sosta da Ponto, che ha una parte del bagno in mezzo ai tavoli, è fortemente consigliata.
L’arrivo del treno qui è un evento sociale. La gente lo aspetta con trepidazione, attenta a eventuali colpi di scena che prontamente si manifestano con le porte che aprono prima dell’arrivo dando il via all’assalto ai vagoni: c’è della poesia, siamo a metà fra la metro rossa di una volta e quelle carrozze Trenitalia anni novanta con quell'odore tutto loro ormai scomparso. Il viaggio procede lento ma permette di assaporare il paesaggio. Penso: cazzo, ho preso un bus, due aerei, una corriera e ora un treno per andare a raccontare una storia. A scriverla, ecco. Roba ruvida, vera. Mi chiedo se ne sarò all’altezza e, subito dopo, come farò a tornare ad una vita normale una volta arrivato a casa. Sul fatto che ne possa valerne o meno la pena mi sono già risposto. Arrivo in ostello attorno alle 19, ed è come tornare indietro di dodici anni alla mia vita da viaggiatore nell’outback australiano: ogni ostello è sempre come casa e viaggiando da soli è quasi meglio di un hotel. Ad accogliermi una vecchia Ford con sedili Sparco parcheggiata davanti all'ingresso, il padrone di casa in canottiera e degli improbabili coinquilini.
Il primo giorno in pista
È il giovedì di gara, il mio arrivo in circuito. Finché non ritiro il pass, trovando il mio nome sulla lista scritto a penna in fondo ad un foglio infinito di nominativi ordinati dentro quadratini excel, non sono davvero tranquillo. Eppure succede, hanno la mia busta. “Bravo, ho fatto anche io così”, mi dice Giovanni, un giornalista che fa questo mestiere da una vita. Sugli uomini che corrono dietro alle moto tornerò più avanti, sappiate che trattasi di una categoria di esseri umani tanto peculiare quanto lo sono i piloti. Giovanni è un tipo a cui daresti un'età indefinita tra i quaranta e i cinquant'anni, perennemente abbronzato, spesso sembra alla ricerca del primo caffé al mattino e cammina sempre di fretta come se stesse ascoltando una canzone tutta sua, con tutte le probabilità un rock anni Settanta. Mi ha parlato così dopo essere venuto a sapere che queste trasferte sono completamente autogestite, sia in termini economici che sul versante organizzativo, perché vero che viaggiare è più una questione di denaro che di coraggio, ma per fare questa cosa servono anche le palle e lui evidentemente lo sa bene. Di questo paddock sa bene un sacco di cose. Entrare in sala stampa con questa collanina arancione e il blocchetto di metallo in cima alla tessera è un po’ come farsi ammettere al Berghain di Berlino: devi essere abbastanza pazzo da volerlo, piacere agli organizzatori che scelgono a chi concedere l’ingresso attraverso oscuri meccanismi e, soprattutto, aver avuto qualche botta di culo. Tutti lì dentro ne anno avute almeno un paio e chi fa finta di no mente a sé stesso. Mi dico, mentre fumo guardando la piscina ornamentale sotto la sala stampa, che questi viaggi diventeranno una droga e che una volta tornato a casa sarà difficilissimo ritrovare lo stesso entusiasmo: la scrivania e gli articoli sono sempre difficili da gestire quando hai visto di meglio. Ergo, un giornalista capace deve esserlo anche a non perdere l’entusiasmo, a trovare la sua motivazione.
Il buonumore si trascina per tutta la giornata che ha preso il via con il noleggio dello scooter, un Suzuki Address 125 col galleggiante della benzina rotto che potrò riportare a secco. Mentre scrivo questi appunti sul telefono, seduto ad un tavolino con a fianco il tendone della Rookies Cup, passano i signori di Sky che si fermano a salutare. Guido, tra gli uomini più brillanti che conosca, vorrebbe buttare in piscina i giornalisti (non tutti) e mima una sorta di mossa di wrestling con un’ironia che non si impara, mentre Rosario mi prende da parte per un’ora buona dispensando consigli su come vivere il paddock. Anche lui appare più giovane di quanto sia in realtà, probabilmente perché fa questo mestiere da quando era poco più che ventenne. Rosario parla tanto con tutti, e gira da solo tra i camion dimostrando quell'interesse nelle persone - molte persone - che probabilmente è ciò che gli permette di tirare avanti in questo casino: “Mi sarebbe piaciuto, al posto tuo, che qualcuno avesse fatto lo stesso con me”. Ha ragione, il mondo delle corse è elitario e tendenzialmente chiuso in sé stesso.
Verso le 16 i piloti si riuniscono sul rettilineo per scattare le foto che segneranno la stagione, con Bagnaia davanti e tutti gli altri in ordine di arrivo. È un bel momento, c’è una grande intensità. Non so mai dove posso davvero arrivare, perché ogni momento ha le sue procedure che tutti sembrano conoscere perfettamente: se entro mi sbattete fuori? Se non lo faccio perdo un’occasione? Nel dubbio mi ficco in griglia di partenza in mezzo alla gente che chiacchiera e l'effetto assomiglia a quando, per caso, ti ritrovi ad festa in cui conosci una persona soltanto, diciamo un matrimonio di cui sei il +1 di qualcuno in cui però non ci sono bevande alcoliche incluse. Un pilota ad un certo punto dice ad un altro quella cosa che segno subito sul telefono: “Siamo i piloti più forti del mondo e dobbiamo fare TikTok, Instagram…ma che cazzo, dài”. La verità? i piloti vorrebbero solo correre più forte degli altri e mandare in culo il resto del mondo, ma questo è solo quello che credono: se corressero da soli finirebbero per annoiarsi. Il pubblico, le attenzioni e il casino sono venuti a mancare un paio d’anni fa con la pandemia e la tristezza di quel periodo la percepivi nell’aria. Loro però in circuito restano delle divinità in terra. Superuomini biologicamente migliori di tutti gli altri - anche degli ex piloti - costantemente richiesti dal pozzo senza fondo dei media, che il più delle volte risultano poco graditi. C’è sempre una netta distinzione tra chi è pilota e chi invece no: puoi essere un dio minore o il più grande di tutti, ma sei sempre ad altro livello rispetto agli altri.
Ora sto scrivendo nel patio dell’ostello ma è tardi, sono le due. A quest’ora il mio alloggio condiviso è silenzioso, tuttavia resto a scrivere perché so che entrando in camera troverò il muratore portoghese a dormire con la torcia del telefono accesa e un russare imponente. C’è poi un ragazzo gay che la prima sera si è speso in mutande per aiutarmi ad aprire un armadietto; un colombiano che ha reso l’ostello casa sua; un sessantenne canadese in vacanza che ha stretto amicizia con un ex alcolista irlandese alto circa due metri e poi, da ieri, ci sono io. È il mio secondo giorno in Portogallo e sto godendo forte, sono nell’onda, domani accendono le moto e si entra nel tubo. Ecco perché devo dormire.
Il venerdì che mi ha commosso
Venerdì mattina ho avuto un clamoroso incidente, che non è stato certo il più spettacolare tra quelli avuti con un mezzo altrui (una componente determinante a rendere l’evento più memorabile e doloroso) ma è certamente il più grave in termini fisici. Ne ricordo un paio: salgo su di una Yamaha R-125 prestatami da un amico a cui l’aveva regalata il padre, probabilmente per staccarlo dai videogiochi e condurlo ai giochi dei grandi. Ho 15 anni e non potrei guidarla, ma lo convinco a prendere il mio Aprilia SR e a lasciarmi la sua moto per un tratto di lungomare. Tolgo due marce, la moto sale di giri, passa un gatto, forse è un cane. Ok, non so nemmeno oggi cosa sia successo, era la prima volta in vita mia che salivo su di una moto e l’ho lanciata dopo duecento metri. Lei se ne fa altrettanti strisciando di pancia sull’asfalto per poi incastrarsi sotto ad una Mercedes Classe S parcheggiata davanti all’hotel più famoso, costoso e brillante della città. Un cameriere con i sacchi neri della spazzatura in mano sloga la mascella e chiama immediatamente i Carabinieri, al che fortunatamente l’adrenalina ci spinge a scambiarci i vestiti per non mostrare ai gentili signori in blu le ferite che mi ero procurato e dire che alla guida c’era il legittimo proprietario. Poco più tardi, assieme agli agenti, cerchiamo di alzare di peso la Mercedes per tirare fuori la moto completamente andata. Fu un duro colpo, ci misi settimane per trovare il coraggio di dirlo a mia madre.
Un altro incidente degno di nota tre anni più tardi: c’è questa ragazza che punto da un po’, lei si è appena lasciata col suo ragazzo. Una sera d’estate, in riviera, finiamo a spettacolarizzare il nostro amore in giro per le strade, così la appoggio col culo sul bancone di un locale, poi per terra sull’asfalto con la gente che applaude. Sembrava un film, probabilmente un brutto musical anni Ottanta. Quando decidiamo di andare a concludere la serata da qualche altra parte io la moto ce l’ho, un bel monocilindrico 600 depotenziato a libretto, ma ho parcheggiato lontano e non sono in condizioni di guidare. Ripieghiamo sul suo Scarabeo turchese e a quel punto ehy, sono un professionista e questo affare lo guido io. Lei siede dietro, mi abbraccia e partiamo. Qui di metri ne avremo fatti forse cento prima di tuffarci sull’asfalto di una grossa rotonda con le fontane al centro: dopo la Classe S, il mio talento nel lancio fa rotolare il motorino ai piedi di una pattuglia di vigili che non devono nemmeno faticare con la paletta per fermarci. Mi fanno un alcol test mentre la ragazza piange, insulta la mia intera dinastia e piange ancora, completamente sopraffatta. La situazione è tragicomica, ma pare che l’alcol test sia rotto. Per non lasciare nulla al caso i vigili chiamano i Carabinieri che arrivano con un altra macchinetta per testare i miei polmoni: rotta anche quella. Probabilmente devono aver chiuso entrambi gli occhi mettendosi una mano sulla coscienza. Inutile dire che con la ragazza, Elisa, ci siamo rivisti solo giorni più tardi per andare a recuperare, assieme al padre di lei, il motorino a trenta chilometri da lì, dove l’aveva portato un costosissimo carro attrezzi. La sera dell’incidente invece, il mio amico Ivan detto il folle mi accompagnò a mangiare un kebab che preparai da me, tagliando la carne con il rasoio elettrico, in seguito ad una lunga contrattazione col paninaro. Fu una serata di lacrime, abrasioni cutanee, soldi sprecati e risate.
Questo però è il Portogallo, sono ormai un buon padre di famiglia che non combina cazzate e così tutto è più cupo. Un pilota direbbe che “si è chiusa davanti”, nel mio caso ho dato una pinzata troppo allegra col freno anteriore sul brecciolino, con il Suzuki Address che a 90 Km/h si è ribellato producendo il mio debutto nel salto in alto.
Mentre raggiungo la sala stampa con un’ora abbondante di ritardo penso a come è andata capisco di aver ripreso conoscenza solo mentre stavo guidando lo scooter verso destinazione ignota, nello specifico nel momento in cui mi è caduto l’occhio sulla mano destra: sangue, tanto. Lì ho deciso di fermarmi in una piazzola, per poi rendendomi conto di non ricordare assolutamente nulla: chi sono, dove, perché. Ho il pass al collo, ma niente. Poi trovo una lunga serie di note vocali registrate sul telefono in cui mi chiedo cosa sia successo. Fanno impressione, perché cominciano tutte allo stesso modo: “Sono caduto, ho dato una gran botta, non ricordo niente”. Altre fanno così: “Ho ascoltato gli altri vocali, non ricordo niente, porca puttana”. Ne ho diciotto in tutto. I vocali sono delle 9:40, il mio arrivo in circuito era previsto per le 9 e questo significa che ho passato una buona mezz’ora nella più totale incoscienza, steso per terra come un morto. I signori portoghesi che mi hanno rianimato - o almeno così mi sembra di ricordare - devono essersi presi un bello spavento e vorrei poter rivedere la scena.
Ho una brutta ferita alla mano e un gran dolore al fianco destro, dalla spalla al costato. Quello che mi fa sentire meglio è l’idea di essere in ripresa, che per quanto lenta sembra costante. Ho avuto una brutta commozione celebrale ma non credo di avere dei versamenti di sangue. Lentamente sto ritrovando la coscienza, le idee e le priorità. Quando sei in stato di shock sei troppo spaesato per averne paura, ma c’è una fase di transizione in cui ti rendi conto di non sapere nulla. Di non ricordare nulla. Beh, una volta ritrovato un primo lembo di coscienza ho telefonato a mia moglie che mi ha fatto promettere una visita al pronto soccorso, e ora che stanno cominciando le prime prove libere della stagione della MotoGP decido di andarci.
È buffo: lavori per anni per essere lì in quel momento, anni a produrre vertiginosi tuffi verso l’ignoto di una carriera atipica e il primo giorno con le moto in pista, nel primo turno di prove della prima gara della stagione, lo passi in clinica con un’espressione assente sul volto e fastidiosi giramenti di testa. Mi mettono in piedi, posizione crocifisso: ora tocca la punta del naso con una mano. Ora l’altra. Stai su un piede solo. Ok, ma fallo ad occhi chiusi. Sono in sei, bravi, rapidi, preparatissimi: se proprio decidi di farti male, un circuito non è il posto peggiore in cui capitare.
È stata un’emozione forte, o almeno lo è adesso che sto ritrovando il mio spirito. Quando non ti ricordi più nulla sei vulnerabile e a tratti ti senti l’uomo più fragile del pianeta e quindi indifeso, sbagliato, un po’ tocco e decisamente chiuso in te stesso. Tutti difetti del nostro essere persone, i lati del nostro carattere più meschini, escono assieme circondandoti come dei buttafuori in discoteca per riempirti di schiaffi.
Comincio a provare del fastidio, la testa pesante e la bocca dello stomaco che minaccia di aprire la sua diga ai succhi gastrici. Spero che mi passi perché queste sensazioni, che comporterebbero una visita più attenta in ospedale e chissà quali rotture di coglioni, io non posso permettermele, non voglio averci a che fare. Merda, vorrei conoscere i rischi del prendere sotto gamba la cosa, probabilmente l’ignoranza ha ucciso sempre più della vecchiaia. È cominciato così il mio venerdì all’Autodromo di Portimão, Algarve.
Ore 12:50, faccio quella cazzata scrivendo ‘trauma cranico’ su Google. Merda, merda, merda. Torno a scrivere di moto. Ho buon parte di quei sintomi: nausea, giramenti di testa, stanchezza. Ogni tanto si aggiungono dei dolori ossei, ma niente di così fastidioso da convincermi ad andarmene. Scrivo tre pezzi, francamente non saprei garantire nulla sulla qualità. Mia moglie Giulia chiede, con grande stile e un’incrollabile forza, se mi ricordo di avere due figli ("sai che scena se torni a casa convinto di trovarmi da sola”) , mentre il direttore vuole sapere per bene tutta la storia perché si sente in qualche modo responsabile. La redazione è come una squadra e la nostra è piccola, agguerrita e famigliare. Se impari ad essere un problema solo quando ti è esclusivamente necessario, loro sono sempre lì per te. Se ne approfitti, prima o poi ti manderanno a farti fottere. Quando mi decido ad andare al centro medico i responsabili mi chiedono se sono un pilota, io in jeans e dolcevita cerco di fare il simpatico: “così chic al massimo un pilota francese, no?”. Diverse ore più tardi, quando ho realizzato che nel farmi questa domanda volevano solo sincerarsi che non fossi ancora sotto shock, la mia autostima è leggermente calata, ma è stato comunque divertente. Nel frattempo in pista è stata una giornata feroce, che non ha mancato di ricordarmi come tutto sia relativo: il povero Pol Espargarò ha perso la moto sullo scollino della curva 10 ed è quasi morto. In sala stampa è calato il gelo, perché nessuno è in grado di abituarsi a quella roba e così, di colpo, la botta che ho dato con lo scooter è una limata alle unghie. La verità è che stare vicino ai piloti ti fa vedere le cose da una prospettiva diversa, ti insegna sempre qualcosa. Sono più bravi di come li vedi dallo schermo, rischiano di più, sono pure più umani.
È quasi mezzanotte, sono in ostello. La cena a base di Bacalhau con Paolo e Daniele è stata piacevole, ma ero troppo stanco. Anche Paolo e Daniele, come Giovanni, sono giornalisti seri e, ognuno mi dà una mano come può, a modo suo: “È una legge del giornalismo”, mi dicono. “I colleghi giovani si aiutano”. Vorrei sdebitarmi in qualche modo, ma probabilmente questa filosofia prevede che io aiuti altri e non loro. Col primo ho un rapporto speciale, il secondo l'ho appena conosciuto e non credo lo rivedrò molto presto.
Ora che è passata la mezzanotte è ufficialmente il 25 marzo, il che significa che ho appena compiuto trent’anni, così per la prima volta in vita mia mi ritrovo senza l’ansia delle celebrazioni, una grande costante della mia esistenza. È tutto il giorno che mi chiedono come stai, come va la testa. Io penso solo: cazzo, è una bella storia. Voglio scriverla, anzi, ora che forse avrò problemi di memoria devo scriverla, non ho nessuna intenzione di passare il sabato di gara del mio trentesimo compleanno a fare una risonanza magnetica. Così, andando a letto dopo una birra celebrativa nel patio, scopro che il sessantenne canadese ha lasciato il posto a due madrileni che passano la nottata a scoreggiare forte, cosa che ci accompagna fino alla mattina quando mi raccontano di essere due tifosi di Marc Marquez venuti in moto. Neanche il loro amore per il rischio giustifica questa bizzarra propensione a cagarsi addosso in piena notte.
Il sabato della sprint race
Quando li vedi arrivare in curva 1, ingobbiti sul serbatoio con la gamba destra ad accarezzare l’aria mentre il motore grugnisce con lo stessa ferocia di un drago incastrato nel traforo del Monte Bianco, staresti a guardarli tutto il giorno. Io non so se ci si possa abituare, per il momento ho visto una buona dozzina di gare dal vivo e non mi è ancora successo. Se ti piacciono le corse lo devi vedere coi tuoi occhi, perché la televisione a trasmettere questo non ci arriva: i piloti sono dei magnifici ballerini e in quel momento perdoni tutto a tutti. Sono fenomeni dal primo all’ultimo, niente di meno, e questo è sempre il primo pensiero che mi investe ogni volta che li guardo dal vivo. Nel frattempo sono tornato a farmi medicare, secondo i dottori del paddock non c’è bisogno di fare grossi esami alla testa. Chiedo loro anche di come stava Pol quando è arrivato, di come procede il weekend, degli altri infortuni.
La cosa che mi piace davvero dell’essere alle gare sono le persone, mi potrei descrivere come un Francis Begbie che pur avendo rinunciato alla violenza continua a farsi di gente. Per uno come me le giornate lì dentro dovrebbero durare il doppio e basarsi sulle pubbliche relazioni: come fai ad ascoltare tutti i piloti, a scrivere sei articoli al giorno, quando puoi andare a parlare con chi fa questo e quello, chi ha visto quello e quell’altro? È gente che ha storie larghe e gustose questa, ed è come sedersi al bar del paese sapendo però che tutto quello che ti racconteranno è almeno in parte vero. Un esempio: ci sono un pilota, un rapper italiano che riempie i palazzetti e una terza persona di cui non farò il nome che se ne vanno in tre su di un motorino, senza casco e in monoruota, inseguiti da un uomo dell’IRTA che gli intima di fermarsi. Bello, no? E poi dicono che si stava meglio negli anni Settanta: col cazzo, io non c’ero negli anni Settanta e qui sto divinamente. Il sabato è una delle occasioni in cui posso sfruttare al meglio il mio nuovo pass, per esempio entrando nella corsia dei box mentre i piloti si preparano ad uscire per schierarsi in griglia di partenza. Lo faccio seguendo Paolo Ianieri, Gazzetta dello Sport. È alto, magro, occhi azzurri e un'enorme passione per le corse che gli permette di sopportare una vita che, inevitabilmente, dopo lunghi anni di pellegrinaggio diventa pesante. Lui, che ha visto l'umanità attorno ai circuiti di tutto il mondo, si sveglia alle cinque, sei di mattina per fare le foto al mare, agli animali, roba naturalista. In questo momento si fa largo tra le stradine del paddoc correndo col taccuino in una mano e la macchina fotografica nell’altra. Paolo, che qualcuno chiama Yanez, è così amante della natura che ha sviluppato un grande relativismo, motivo per cui gli piace tenere un basso profilo quando parla di sé. A me ha appena fatto l'ennesimo regalo, perché se non hai qualcuno che ti spieghi come fare in quei momenti rischi di combinare un casino, o magari passi da freak in vacanza perdendo la tua già scarsa credibilità. Prima della gara sprint entriamo nel box dalla porta sul retro come fosse un bar americano: succede tutto in fretta, in un attimo ti trovi dentro a questi garage dell’iperspazio e devi essere anche tu, che sei lì soltanto a vedere, veloce con la testa e altrettanto con le gambe, pronto a spostarti se necessario cercando al contempo di risultare invisibile o quantomeno lontano da ogni possibile scocciatura. Nel retrobox ci sono componenti meccaniche mai viste, dentro sono attenti e la tensione è altissima. Non si cazzeggia, è la MotoGP. Massimo Rivola saluta Paolo e ci chiede se sono suo figlio: risate. C’è poi un momento, grande testimone della simbiosi tra squadra e pilota, in cui quest’ultimo si alza dalla poltroncina da gamer in cui passa diverse ore ogni weekend e sale sulla moto che nel frattempo qualcuno accende con la pistola. È un’unione sacra e in quella camminata del pilota c’è tanta violenza, un po’ di poesia e un filo di paura. O almeno è quello che arriva a me. Lì ho capito che le corse sono il prodotto della scienza, la tecnica insomma, e dell’anima, che si fondono restituendoci un risultato sempre diverso. Per questo non ci annoiano.
Sarò onesto: i giornalisti le gare le vedono dalla televisione e che da casa spesso e volentieri capisci meglio. Dalla sala stampa vedi con un po’ di anticipo e se sei seduto al posto giusto puoi girare la testa per un’anteprima sul gioco delle scie sul rettilineo, ma osservare la corsa da bordo pista non conviene mai troppo. Non se stai lavorando. Così guardo i monitor dei tempi, a fianco scorrono le inquadrature della regia internazionale e nelle cuffie ascolto il commento di Sky che arriva sul mio computer con qualche secondo di ritardo. Nel frattempo arriva anche Alberto, uno dei founder di MOW, ceniamo assieme ad un evento Tissot all’interno del paddock assieme Carlo Pernat che ha portato il suo pilota ad un accordo di sponsorizzazione triennale per gli orologi. Alberto: eleganza da milanese d'adozione, un enorme buon senso, ironia, occhiali tondi, barba ma non capelli. È l'amico che ti guarda con un sopracciglio alzato e lo stesso sorriso di chi ha già capito come andrà a finire se stai bevendo un gin tonic di troppo, quello che ti dirà quasi sempre quello che pensa senza mai affondare il coltello troppo in fondo. Carlo Pernat: ha 74 anni ma continua ad avere una mente affilata, è svelto come un cobra e quando parla riesce a farti arrivare esattamente il suo messaggio, qualunque esso sia. Dirò una cosa un po’ sessista forse, ma quel vecchio manager genovese ha frequentato così tante donne nella sua vita che ha imparato alla perfezione come darti un’idea facendoti credere che sia roba tua. Il suo business è farla girare, per dirla alla Jovanotti. A Portimão ho imparato una regola importante di questo mondo: ogni tanto fatti un giro nel paddock - una o due vasche come fosse il corso cittadino al sabato sera - perché tante cose accadono lì, se stai in sala stampa semplicemente ti precludi qualche occasione e a conti fatti puoi avere più risultati con un caffè al momento giusto che in un’ora passata a scrivere davanti al computer. Il dramma chiaramente è che non sai quando accadrà. Questo è, come ogni pensiero sufficientemente generalista, applicabile a buona parte della nostra esistenza. Se non ti metti nelle condizioni di cercare, o quantomeno di sbattere addosso a qualcosa, cosa pensi di trovare? Nada.
La prima domenica di MotoGP
Il weekend di gara funziona così: più le cose diventano interessanti e più sei stanco, tenere il ritmo non è mai semplicissimo perché non puoi andare a letto presto se fai il giornalista. Puoi fare il meccanico magari, ma se ti convinci di voler raccontare storie devi prima viverle e per farlo ti serve tempo. Così la domenica le energie cominciano a calare. La mattina presto vado a riportare lo scooter col culo stretto, è da un paio di giorni che sono pronto al tracollo economico. La visiera del casco si è spaccata in due, la fiancata è piena di grattate. Quando con venti minuti di ritardo arriva il responsabile aprendo il negozio provo a restituirlo come niente fosse, ma lui chiaramente impiega un attimo a rendersi conto dei danni e cominciamo a discutere sul valore di questi nuovi autografi sullo scooter. Quando la contrattazione viene fatta con chi ne ha la cultura diventa un piacere sottile, un flirt, un tango ad elevata tensione erotica tra sconosciuti, ed è per questo che se ti rifiuti di contrattare - o semplicemente non ne hai lo spirito - ti meriti il sovrapprezzo. Così in un paio di minuti ci accordiamo su centoventi euro di risarcimento a fronte di un deposito di duecentocinquanta. Ero arrivato come si arriva al patibolo, convinto di scordarmeli tutti e pagare anche qualcosa in più, quindi me ne esco dal noleggio con una camminata da cowboy e un elogio del Portogallo nel cuore.
Torniamo alle corse. Quando sei in circuito ci sono almeno un paio di cose che devi vedere e una di queste è la partenza, o meglio qualche momento prima. Non importa se dal rettilineo si vede male il resto del circuito - in alcuni tracciati è così, in altri meno - c’è un momento che vale sempre il prezzo del biglietto con vista sulla partenza ed è quando, qualche minuto prima che si spengano i semafori, anche l’ultimo degli altri - quelli che non corrono - salutano i piloti e scappano con una corsetta isterica fuori dal rettilineo. Ecco, in quei momenti c’è tutta una vita: ci sono le aspettative e la voglia di fare il culo agli altri, c’è quel pensiero - la morte - che tutti ricacciano dentro come un fragoroso rutto durante la messa di natale, c’è l’ambizione di entrare nella storia e ci sono le strategie preparate per questa guerra ad alta velocità. I piloti sono da soli davvero in quel momento, ed è ormai troppo tardi per cambiare idea, per spaventarsi o cose simili. Ecco perché quello del pilota di moto non è soltanto uno sport individuale ma è proprio un mestiere per uomini soli, in cui devi pulirti il sedere da te. Una didascalia di tutto questo me la restituisce De André nel Testamento, con l’ultima strofa: “Cari fratelli dell’altra sponda / Cantammo in coro giù sulla terra / Amammo in cento l’identica donna / partimmo in mille per la stessa guerra”. A questo punto il Faber fa un’impercettibile pausa, cambia tono e chiude ripetendo questa rima: “Questo ricordo non vi consoli / quando si muore si muore soli”.
Fortunatamente c’è sempre qualcuno che le vince le gare, così in un modo o nell’altro alla fine è una festa, un casino e una sequela di emozioni in cui è bello esserci. D’altronde un altro ottimo motivo per essere alle corse è che chi le vive non si prende mai completamente sul serio, il che non è solo un segno d’intelligenza universale ma è pure l’unico modo per sopravvivere lì dentro. La cosa interessante è che la regola riguarda tutti: dai dirigenti che investono milioni di euro affidandoli a dei ventenni che dormono col dito sul grilletto ai piloti stessi, personaggi ai quali è ormai chiaro che per vincere sul serio devi divertirti. A tal proposito a fine giornata, ogni giornata, puoi incontrare i piloti per qualche domanda, un punto di vista e la polemica del giorno. Loro si presentano con un addetto stampa e parlano finché quest’ultimo decide che si può fare, solitamente un quarto d’ora. A Portimão, se sei fuori dal podio, ti devi accontentare di una piccola scrivania nel sottoscala della sala conferenze, il che è a dir poco ridicolo considerando il glamour che viene percepito dall’esterno. Dopo la gara mi fermo a chiacchierare un po’ in giro, guardo il paddock svuotarsi. Tutto succede con una rapidità spaventosa, attorno alle 17 i camion sono già fuori dal circuito e tu vorresti che si fermassero di più, che ci fossero dei test o qualcosa di simile per perdere tempo in chiacchiere. Paolo, che la mattina mi ha portato in circuito in auto, lavora in sala stampa fino a tardi, così non avendo alcun mezzo di trasporto mi accollo a due giornalisti inviati da CdS e Rai. Due amabili figli di puttana che esprimono una perfetta combinazione tra la malizia tipicamente romana e l’astuzia richiesta dal mestiere. Loro la parola giornalista ce l’hanno tatuata sull’uccello e la accarezzano spesso: sanno come gestire gli incarichi, quali accettare e quali no, chi vuole fotterli, chi farà carriera, chi si è bruciato. Sanno anche dove andare a cena e con chi parlare, da quali persone andare e cosa chiedere, ma, più di tutto il resto, sanno riconoscere di aver dato un giudizio sbagliato su questa o quell’altra situazione. Mi offrono una cena squisita, confermando la loro teoria sul fatto che i giovani vanno aiutati.
Oltretutto, incredibile ma vero, in Portogallo si può mangiare bene, una novità per me che ci avevo passato due settimane tra cibo sommerso d’olio e ottime materie prime violentate da cuochi annoiati. Per il resto Portimão è stata una grossa delusione: sulla carta doveva essere una sorta di riviera romagnola ed in effetti è così, ma a marzo la riviera ha ben poco da raccontare e questo paese non fa eccezione: la sera le strade sono deserte, i negozi chiudono presto. C’è, in generale, poca agitazione fuori dal circuito e anche nel paddock c’è ben poco da fare, anche se la prima è sempre la prima. Pare, tuttavia, che a Jerez andrà meglio, o almeno così dicono i romani, che consigliano di evitare l’Austria e l’Inghilterra e si dimostrano realmente dispiaciuti - esattamente come lo era stato il mio direttore - per la cancellazione del Gran Premio della Repubblica Ceca dal calendario della MotoGP.
Lunedì mattina mi sveglio presto, lascio le chiavi della camera, mi incammino verso la stazione del treno. È l’alba e mi aspettano due ore per l’aeroporto, uno scalo a Londra con sosta lunga e infine l’arrivo a Venezia verso sera. Durante il viaggio in treno, che deve assomigliare per forza ad uno di quelli per Tozeur, mi collego alla riunione di redazione che ogni giorno riunisce bestialità, scorrettezze, battute di cattivo gusto e in generale tutto ciò che sarebbe oggetto di denuncia da parte della pubblica piazza. Le riunioni di MOW sembrano condotte in uno spogliatoio di quarta categoria, eppure è lì che ogni mattina tiriamo fuori le nostre idee. È possibile che in un momento di silenzio qualcuno domandi: “Ma voi vi scopereste Giorgia Meloni?” e qualcun altro, ricollegandosi prontamente al tema di qualche minuto prima, potrebbe chiedere chiarimenti sull’eventuale utilizzo di uno strap-on da parte del Presidente del Consiglio, o interrogarsi su come monetizzare al meglio il relativo filmato prodotto all’insaputa del Primo Ministro. Così, quando una ragazza coi capelli tinti di rosso si avvicina al mio posto dicendo qualcosa che non capisco per via delle cuffie mi sento istintivamente in colpa. La situazione peggiora quando si presenta in italiano e dice di sapere tutto di me, poi migliora quando racconta di essere una grande appassionata che segue sempre il giornale.
È un po’ imbarazzata, anzi a dire il vero lo siamo tutti e due, così la presento ai colleghi che hanno assistito alla scena in diretta e finita la riunione vado a parlarle. Ha viaggiato da Lecce a Portimão con un amico, forse il fidanzato, solo per vedere la gara di MotoGP, perché la prima è sempre la prima e lei dice di vivere di questa roba. È un bel momento, parliamo di corse e condividiamo un Uber fino all’aeroporto. Queste, signori, sono le gare. E me ne restano nove.