Al momento c’è solo un magistrato che esce bene dallo scandalo della presunta loggia Ungheria e della sicura bufera che sta investendo i vertici dell’autorità giudiziaria italiana: è Nino Di Matteo. Lo hanno riconosciuto anche l’ex segretario dell’Anm Luca Palamara (non certo vicino a Di Matteo) e uno tra i suoi critici più agguerriti, il direttore del Riformista Piero Sansonetti: “Onestamente – ha dichiarato Sansonetti in un’intervista a Libero – devo dire che Di Matteo è l’unico che si è ben comportato nella vicenda Amara; senza di lui questa storia non sarebbe pubblica”. È stato infatti il pm antimafia palermitano di lungo corso, entrato un anno e mezzo fa nel Consiglio superiore della magistratura, a portare alla luce per la prima volta il gigantesco pasticcio, rivelandolo al plenum del Csm.
“Nei mesi scorsi – ha detto in quell’occasione Di Matteo – ho ricevuto un plico anonimo, recapitatomi tramite spedizione postale, contenente una copia informale e priva di sottoscrizioni di interrogatorio di un indagato risalante al dicembre 2019 innanzi a un’autorità giudiziaria. Nella lettera anonima che accompagnava il documento quel verbale veniva ripetutamente indicato come segreto. Nel contesto dell’interrogatorio, l’indagato menzionava, in forma evidentemente diffamatoria se non calunniosa e come tale accertabile, circostanze relative a un consigliere di questo organo (Sebastiano Ardita, ndr). Ho contattato l’autorità giudiziaria di Perugia alla quale ho riferito compiutamente il fatto, specificando tra l’altro il timore che tali dichiarazioni e il connesso dossieraggio anonimo potessero collegarsi a un tentativo di condizionamento dell’attività del Consiglio”.
Per Di Matteo si tratta di un nuovo acuto in una carriera che, comunque la si guardi, non si può dire che non sia stata ricca di episodi. Una carriera dedicata soprattutto all’antimafia, circostanza che gli ha fatto guadagnare il poco invidiabile titolo di magistrato più scortato d’Italia: questo perché ha subito ripetute minacce da parte di boss mafiosi, persino intercettate nelle parole di nientepopodimeno che Totò Riina, sentito dire al suo compagno di passeggiate in carcere di voler far fare a Di Matteo “la fine del tonno”, come Giovanni Falcone.
Sessant’anni appena compiuti, nella magistratura dal 1991, Di Matteo si è concentrato in massima parte sulle indagini relative alle stragi di mafia del 1992. Appena arrivato come pubblico ministero alla Procura di Caltanissetta, per Di Matteo ci fu letteralmente un battesimo del fuoco: si trovò a dover far fronte alle inchieste sugli attentati che tra maggio e luglio del 1992 uccisero Giovanni Falcone (e sua moglie Francesca Morvillo), Paolo Borsellino e gli agenti delle relative scorte. È partita allora da parte di Di Matteo, sotto scorta dal 1993, la caccia alla verità. Una caccia con risultati alterni, che non è riuscita a delineare un quadro completo e a volte ha portato a esiti contraddittori. I critici puntano il dito per esempio sull’approccio avuto nei confronti del presunto pentito (rivelatosi poi non credibile) Scarantino, figura associata a quello che si ritiene a tutti gli effetti un depistaggio sulla strage di via D’Amelio.
“Proprio a proposito del depistaggio – ha ricordato Giovanni Bianconi sul Corriere riguardo a Di Matteo – è stato ascoltato come testimone sia dai colleghi che ancora oggi indagano su quell’oscura manovra, sia dal Csm (quando non ne faceva parte), rivendicando il ruolo marginale avuto nella fase in cui il falso pentito Scarantino costruì il castello di bugie (ritrattate, poi confermate, poi nuovamente ritrattate), e di aver fondato le sue ricostruzioni giudiziarie su ben altre e più solide prove. Sempre esortando sé stesso e i colleghi ad andare avanti nella ricerca della verità, anche la più scomoda, su eventuali intrecci inconfessabili fra mafia, apparati istituzionali ed eventuali «mandanti occulti» di stragi e delitti eccellenti. Anche per questo, per il suo costante impegno nelle indagini sui segreti più segreti di Cosa Nostra, proseguito quando da Caltanissetta è arrivato alla Procura di Palermo (prima nel pool guidato dall’allora procuratore aggiunto Giuseppe Pignatone, poi spostandosi su posizioni diverse all’interno dello stesso ufficio per via dei contrasti sulla conduzione dell’indagine a carico dell’ex governatore della Regione Totò Cuffaro), Nino Di Matteo ha subito costanti minacce”.
È mentre conduceva prima l’indagine e poi il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia insieme ad altri colleghi che è diventato il magistrato più scortato d’Italia, “nonché il simbolo da attaccare per chi riteneva quel processo una costruzione meta-giuridica, un’invenzione o una caccia alle streghe, anche dopo le condanne in primo grado che hanno accolto le tesi dell’accusa”.
Poi c’è stato un accostamento al Movimento 5 Stelle: prima delle elezioni del 2018 si è cominciato a fare il nome del pm come possibile ministro della giustizia di un governo a trazione grillina, come possibile capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria e altre cose, nessuna delle quali però si è concretizzata. Lasciata Palermo, Di Matteo è approdato prima alla Procura nazionale antimafia (venendo però rimosso dal pool sulle stragi in seguito a un’intervista televisiva sulla strage di Capaci) e poi, con le elezioni suppletive seguite allo scandalo Palamara, al Csm, candidato sostenuto dalla corrente di “Autonomia e indipendenza” guidata da Piercamillo Davigo, dalla quale però si è subito smarcato, come dimostra anche il voto a favore della decadenza dal Consiglio superiore dell’ex pm di Mani Pulite in relazione al suo pensionamento.
“Il suo mantra – si legge nella parte più tenera di un ritratto assai poco lusinghiero di Di Matteo apparso sul Riformista – consiste nel suo essere un «isolato» e sul fatto di stare sulle scatole più o meno a tutti. Questo lo fa sentire forte, vuol dire che è il migliore. Che è fuori, soprattutto. Fuori da ogni intrallazzo, da ogni mercimonio, da ogni oscena trattativa”.
La più recente azione di Di Matteo, quella sul caso della presunta loggia Ungheria, sembra però aver messo d’accordo tutti (o quasi). Al contempo, le lodi a Di Matteo incorporano disapprovazione o perlomeno dubbi nei confronti del comportamento degli altri al vertice del sistema: “È la seconda volta in un anno – il commento di Paolo Mieli su Di Matteo – che salva la magistratura. Non che non me lo sarei aspettato. Però è l’unico”.
Per Sandra Amurri Di Matteo “ha un senso delle istituzioni, un senso della legge e del rigore incredibili. Dunque si è comportato di conseguenza, cosa che non possiamo dire del resto degli attori, di nessun altro”.
“È notorio – il punto di vista di Luca Palamara – che in alcune occasioni siamo stati su posizioni diverse e contrapposte, ma Di Matteo dimostra ancora una volta che chi non fa parte delle correnti riesce ad avere una visuale diversa da quella degli altri e può diventare quindi un valore aggiunto in un mondo, quello di cui ho fatto parte, che cerca di autoproteggersi e autoconservarsi. Lui ha voluto andare fino in fondo e andare a vedere la verità”.
I pareri sulla carriera e al limite anche sulla persona del magistrato possono essere in qualche misura divergenti, ma sarebbe difficile negare il fatto che se non ci fosse stato Di Matteo probabilmente i verbali delle dichiarazioni di Amara oggi sarebbero ancora parcheggiati in qualche cassetto, in attesa di non si sa bene cosa.