Questa mattina mi sono alzata presto. Ho fatto colazione con del buon latte fresco, direttamente dalla Val di Susa: ma con questo non voglio dire che il latte di Pizzo Calabro sia cattivo, anzi. Ho molti amici a Pizzo Calabro e quando ci vado bevo sempre tutto ciò che mi offrono senza distinzioni. Dopo il pasto più importante della giornata (senza offesa per chi lo salta e va direttamente all’ora di pranzo, non voglio dire sia giusto solo come faccio io) sono uscita di casa verso la macchina. C’è il sole, fa caldo: penso a quando potrò andare in spiaggia ad abbronzarmi e veder finalmente diventare un po’ nera la mia pelle. Perdonatemi, non intendo certo insinuare che le popolazioni con scura pigmentazione cutanea siano solo capaci di stare al sole: che poi, i paesi dove abitano essendo all’equatore sono esposti ai raggi solari per la maggior parte del giorno ma vabbè, lungi dal voler insinuare che le nuvole o la pioggia allora non servono a niente. Per par condicio, quando sarò in spiaggia, starò un po’ al sole e un po’ all’ombra: lascerò un braccio sotto l’ombrellone, così non farò torto agli scandinavi.
Avvicinandomi al parcheggio, scopro che la macchina posteggiata dietro la mia è molto, troppo vicina impedendomi di uscire: farò tardi al lavoro, devo suonare il clacson. Peee Peee: premo per attirare l’attenzione. Mi guardo intorno, non vedo nessuno. La macchina che mi impedisce il transito è una vecchia Punto un po’ mal messa, scruto l’orizzonte per scorgere il proprietario: un anziano signore con il bastone viene verso di me, ma questo ovviamente non significa che la vettura mezza rotta debba essere per forza sua. E nemmeno di quell’uomo dall’aria mediorientale con la tunica lunga; né di quella donna, perché non è che al volante siamo tutte un pericolo costante! Insomma, però di qualcuno deve pur essere questa diavolo di macchina. “Mi scusi signore, io sposto subito”: un uomo proveniente dall’area nipponica del globo mi mostra le chiavi e sposta la sua vettura. Ho mal di schiena, ma lo ringrazio comunque con un inchino per non urtare la sua sensibilità alzando volgarmente la mano così come sono abituata. Poi me ne vado.
Prima di arrivare in ufficio mi fermo a comprare la merenda: sto fuori, rispetto le distanze, incontro Mirna la colorita cantastorie del paese. “Sai che Nicola e Gianna adotteranno una bambina nata la dove si costruirono le piramidi?”, mi dice. Io mi aggrado che non abbia detto egiziana, perché si sa che oggi le provenienze non si possono più dire essendo tutti semplicemente parte dell’universo. Nel frattempo, il commesso indica il mio turno e mi chiede cosa desidero: “Vorrei un panino farcito con quella cosa che proviene da un animale che auspico sia stato allevato con tutti i buoni criteri, e comunque mangiandolo non voglio togliere niente a chi invece preferisce i broccoli per ripieno”. Il commesso tira un sospiro di sollievo: aveva paura che dicessi “prosciutto” urtando l’altrui sensibilità, ma non l’ho fatto. Esco, mi incammino di nuovo verso l’auto: mi accorgo, procedendo spedita, che dalla fretta la mascherina mi è caduta a metà mento. Un passante mi taglia con lo sguardo, poi prende in mano il telefono: spero tanto che non metta un post con scritto “che incivili! Ancora non capiscono che dobbiamo restare uniti e rispettare le regole!”. Apro lo sportello, poggio la borsa prima di salire dalla parte del guidatore. In quel mentre, un ragazzo allegro in bicicletta mi passa accanto canticchiando e mi dice “eiiii bella!”. Inorridisco per questo violento cat calling, mi appoggio al cofano e mi rammarico sull’ennesimo dramma della mia vita.
Cerco di non pensarci e raggiungo il posto di lavoro. Salendo le scale, noto che la collega davanti a me ha il fiatone. Probabilmente, le merendine che trangugia ad ogni pausa l’hanno resa un po' troppo fuori forma, provocandole stanchezza. Se potessi consigliarle una dieta e dell’attività fisica, ne gioverebbe: fortuna che scelgo di rimanermene zitta, non volendo essere accusata di body shaming. Si sa che grasso deve essere bello anche quando provoca danni. Lavoro di buona lena e arriva presto l’ora di pranzo. In sala mensa chiedo al mio collega: “Come va con l’essere umano con cui hai scelto di trascorrere la tua vita in questo momento?”. Non posso chiedergli come va con la moglie perché potrei offendere il fatto che magari ha un marito. Dedico dunque di finire il mio lunch box all’aperto e mi rivolgo al netturbino che passa li vicino: “Come procede oggi, con il tuo rispettabilissimo lavoro che vale esattamente quanto il mio?”. “Bene,” mi risponde lui, e nel frattempo mi leggo qualche notizia: un assassino ha ucciso dieci persone solo perché ha avuto un’infanzia difficile e viene ospitato su Canale5. “Menomale”, penso: “Poveraccio!”. Procedo con la lettura: un uomo di mezza età con barba lunga che comprava delle pere al fruttivendolo viene arrestato perché senza dubbio un terrorista. “Ben gli sta!”, commento ad alta voce.
A metà pomeriggio mi arriva un messaggio. “Non puoi capire con chi si è messo il mio amico che viene dalla città della valle dei templi!”. Esordisce Daria: “Si è fidanzato con quella ragazza dalla pelle pantone numero 19-1220: danno una festa di fidanzamento, vieni?”. Bello, ma non so se posso andarci. Andare a una festa di fidanzamento significa non rispettare i single, o coloro i quali scelgono le nozze con gli alberi. No, non me la sento. Sono le 18 e volo al supermercato: tra le corsie, un ragazzetto odora come uno che ha deciso di sua sponte di diventare un senzatetto, o che così si è trovato per motivi purtroppo non dovuti a una sua scelta e con ben poco sostegno da parte delle istituzioni. Poco distante, una donna scivola su un barattolo di tonno aperto e cade: un signore vorrebbe aiutarla, ma non può. Darle una mano vorrebbe dire aizzare la schiera di femministe che direbbe: “Ah! Dunque pensi che da sole non siamo capaci??”. Faccio una foto, apro Instagram e scrivo: “Se lucidassero meno i pavimenti certe cose non succederebbero!”. Faccio il post, mi indigno e vado a casa.
In Tv, come sempre, tutti dicono tutto e si accusano di niente: non riesco a farmi un’opinione né a decidere cosa pensare. Spengo e vado a letto, ma prima mi leggo un libro: si chiama “La gaia scienza”, di Nietzsche. No, non voglio dire gaio nel senso di gay: è solo un aggettivo. Va beh dai, ne prendo un altro. Si chiama, “Se questo è un uomo”. Ma allora le donne??? Va bene va bene, chiudo anche questo. Eccone uno che piace a tutti, si intitola “1984”, di George Orwell. Scorro le prime righe, poi mi blocco inorridita: perché non 1965? Cos’ho contro il 1986? Basta, non ne posso più, mi metto sotto le coperte. Mi tuffo nei ricordi e rimembro quando da piccola facevo le tende con le lenzuola e sognavo di essere un’indiana. Si esatto: mi mettevo una penna di uccello all’orecchio, due strisce rosse a lato delle guance, una torcia a squarciare il buio e io che “uauauauauauau” con il palmo a intermittenza davanti la bocca. Ecco, lo sapevo: mi son tradita. Tutto il giorno a stare attenta a comportarmi bene, e poi finisco per esser razzista proprio quando la giornata stava per finire e la stavo per concludere in bellezza. Son cattiva, questa è la verità. Chiudo gli occhi e spero di sognare. Mi chiedo se la vita è un sogno, poi però penso a chi dice che sono i sogni a far vivere meglio e mi rammarico. Sono stanca di questo mondo: piango, le lacrime scendono ma non lo dico. Lo scrivo: se c’è una cosa che si può fare, oggi, è dire quando si piange. Guai, invece, condividere quanto si è felici. Il lamento, questo sì che è politicamente corretto!