I pescatori di Mazara del Vallo sono finiti al centro di un grande ricatto contro l'Europa che rischia di protrarsi ben oltre le festività natalizie. Da oltre tre mesi i loro familiari chiedono la liberazione dei loro mariti, padri e fratelli e se dalla Farnesina continuano a prendere ulteriore tempo, il vescovo ha ipotizzato l'intervento dei corpi speciali. I pescatori sono ingabbiati in una trattativa basata sulle richieste scellerate del generale Khalifa Haftar, il califfo della Cirenaica, ‘criminale di guerra’ secondo l’Onu, che da anni prova ad imporre la sua leadership nell’intero paese. In cambio della loro liberazione, chiede l’estradizione di quattro libici, in carcere con una condanna del Tribunale di Catania a 30 anni perchè responsabili della morte di 49 migranti. Dalla Libia sostengono che si tratta di 4 calciatori, come sostenuto dai loro avvocati nel corso dei processi (primo grado ed Appello) e ribadito in questi mesi nei ricorsi presentati alla Corte di Cassazione, che nei prossimi mesi emetterà la sentenza definitiva. È una opzione percorribile? "Non più", dice Nicola Cristaldi, ex sindaco di Mazara del Vallo che si è occupato di numerosi dissequestri. “Haftar dice che li ridà se noi restituiamo quattro scafisti, è inaccettabile”, ha detto in questi giorni il ministro degli esteri, Luigi Di Maio.
Erano salpati dal porto siciliano in una mattinata di fine agosto ed inghiottiti dalle milizie del generale Khalifa Haftar la sera del primo settembre. "La nostra vita si è fermata a quella data - dice Rosaria Giacalone, moglie di uno dei pescatori -, per noi dalla sera del sequestro non è cambiato assolutamente nulla: niente sapevamo e niente sappiamo". La vicenda sin dalle prime ore ha assunto un tono ben diverso da tutti quelli avvenuti nel Mediterraneo, dal secondo dopoguerra ad oggi. Un sequestro politico, che sembra quasi una ritorsione nei confronti dell'Italia, che da tempo nel caos libico ha scelto di sostenere il governo riconosciuto dall'Onu, che si oppone all'avanzata di Haftar. Tanto da trasformare i 18 pescatori (otto tunisini, sei italiani, due indonesiani e due senegalesi) negli ostaggi più appetibili.
La matrice politica
Il sequestro dei due pescherecci, Antartide e Medinea, è avvenuto all'indomani di un viaggio istituzionale del Ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, atterrato in Libia per suggellare l'accordo tra il premier libico, Fayez al Serraj, riconosciuto dall’Onu e il presidente della camera dei rappresentanti di Tobruk, Aguila Saleh, per tagliare fuori Haftar. Manovra condivisa dall'Unione Europea, che in quei giorni aveva spedito a Tripoli anche il capo della diplomazia di Bruxelles, Josep Borrell. Uno 'sgarbo diplomatico', nell'ottica delle milizie dell'Lna (Lybian national army) fedeli al generale della Cineraica e intervenuti la sera del primo settembre per bloccare i pescherecci siciliani a 38 miglia dalle coste di Bengasi. Tra i 18 pescatori, oltre agli equipaggi dei due motopesca, gli uomini di Haftar hanno prelevato anche il comandante del peschereccio 'Anna Madre' di Mazara del Vallo e il primo ufficiale del 'Natalino' di Pozzallo, che la sera dell'accerchiamento erano riusciti ad invertire la rotta.
La 'Guerra del pesce'
L'accusa principale contestata ai 18 pescatori è di aver pescato all'interno di una zona che la Libia ritiene di propria competenza, nonostante carte alla mano si tratti di acque internazionali. Al centro di tutto c'è la cosiddetta "Guerra del Pesce", una battaglia da decenni in corso nel Mediterraneo, per la pesca del pregiato gambero rosso, con decine di sequestri 'lampo'. Solitamente i paesi rivendicano la propria autonomia fino a 12 miglia dalle proprie coste, ma da alcuni anni i paesi del Nordafrica (Egitto, Libia e Tunisia) hanno esteso le proprie competenze, adottando unilateralmente la convenzione di Montego Bay del 1982, che prevede la possibilità di estendere fino a 200 miglia la propria autonomia all'interno della Zee (Zona economica esclusiva). Dal 2005, quando alla guida c'era ancora Muhammar Gheddafi, la Libia l'ha stabilita a 74 miglia, utilizzando i sequestri dei pescherecci come arma di ricatto verso l'Europa.
Lo 'scambio di prigionieri'
Condannati a 30 anni di carcere dalla giustizia italiana, ma conosciuti in Libia come giovani promesse del calcio. È questo il profilo dei 'quattro calciatori' per cui i militari del generale Haftar chiedono l'estradizione, in cambio della liberazione dei 18 pescatori trattenuti a bordo dei due pescherecci di Mazara del Vallo sequestrati lo scorso primo settembre. La richiesta di 'scambio di prigionieri' riguarda Joma Tarek Laamami, di 24 anni, Abdelkarim Alla F.Hamad di 23 anni, Mohannad Jarkess, di 25 anni, Abd Arahman Abd Al Monsiff di 23 anni, che la notte del Ferragosto 2015 avrebbero contribuito con “calci, bastonate e cinghiate” per bloccare i migranti nella stiva dell'imbarcazione. L'ipotesi per alcuni giorni restò 'embargata' nel negoziato, ma nel corso di questi mesi è stata più volte confermata dalle autorità libiche, tra cui l'ex vicepresidente del consiglio presidenziale di Tripoli, Ahmed Maitig. Nei giorni seguenti al sequestro, i familiari dei quattro calciatori hanno manifestato al porto di Bengasi, per bloccare la liberazione dei pescatori, subordinandola alla 'consegna' dei quattro detenuti in Italia. I giudici di Catania li hanno condannati per aver collaborato con gli scafisti che avevano organizzato il viaggio. Il loro ruolo sarebbe stato quello di impedire ai migranti che stavano nella stiva di risalire, bloccando i portelloni a cavalcioni. I quattro raccontarono ai giudici di aver pagato per quel viaggio, ricostruendo la loro versione, come Al Monsiff che disse di "giocare a calcio nella serie A, aveva deciso di andare in Germania per avere un futuro, impossibile in Libia a causa della guerra". Durante il dibattimento i legali dei quattro imputati sollevarono anche alcune anomalie nel loro riconoscimento, avvenuto attraverso delle interviste ai 313 sopravvissuti di quel viaggio, giunti a Catania a bordo della Siem Pilot il 17 agosto 2015. Adesso è pendente il ricorso per Cassazione, sorprese in arrivo?
Ma quale droga!
A dieci giorni di distanza dal sequestro, i 18 pescatori sono stati accusati anche di 'traffico di droga', con una foto eloquente pubblicata da Agi in cui si vedono i panetti di droga, stesi davanti ad uno dei pescherecci ormeggiati in banchina. I libici non sono nuovi ad accuse posticce, come il ‘traffico di opere d'arte' contestato alcuni anni fa a dei pescatori siciliani e smontato da una perizia del noto archeologo Sebastiano Tusa, morto lo scorso anno nell'incidente dell'Ethiopian Airlines. L’accusa di ‘traffico di droga’ invece è emersa nel corso di una telefonata clandestina, avvenuta a poche settimane dal sequestro, tra il comandante del Medinea Pietro Marrone e i familiari tutti radunati al porto di Mazara del Vallo. "Ci accusano che hanno trovato droga a bordo", si sente in una conversazione in modalità vivavoce, registrata a margine di una diretta televisiva. “È chiaro che vogliono alzare l'asticella", rispondeva l'armatore del peschereccio, Marco Marrone. L’accusa non è mai stata confermata dalla Farnesina, ma negli ultimi giorni si è appreso che l’armatore del peschereccio Antartide, Leonardo Gancitano, sta conducendo una trattativa parallela, per il rilascio del suo motopesca. Mediazioni avviate da un pescatore palermitano vicino alla Lega di Matteo Salvini, che vengono seguite da un avvocato milanese, Carola Matta, ed un collega libico.
Sono vivi
L'unico contatto ufficiale con i pescatori risale allo scorso 11 novembre, in occasione di una conversazione collettiva, dopo settimane in cui avevano implorato di poterli vedere o sentire. "La telefonata è servita a testimoniare che siamo vivi, per l'intera durata non hanno fatto altro che chiederci di fare tutto il possibile per liberarli, ma non hanno mai detto di stare bene", dice Cristina Amabilino, moglie di uno dei pescatori. Nessun colloquio invece è stato concesso ai pescatori tunisini, nonostante i familiari fossero presenti durante la telefonata. “Ci hanno detto di rivolgerci all’ambasciata tunisina”, hanno detto. In queste settimane poi il ministro Luigi Di Maio, parlando della vicenda, ne ha approfittato per 'sconsigliare' ai pescatori di operare a ridosso delle coste libiche. "Ma vi rendete conto come sta gestendo la vicenda il Governo? Noi siamo le vittime e dalle sue parole sembra che siamo dei criminali", continua. "Il problema vero è che la questione, che è veramente politica e tutta interna alla Libia, necessita dell'intervento deciso e convinto degli attori internazionali - ha detto il sindaco di Mazara del Vallo, Salvatore Quinci - oggi invece abbiamo la sensazione che tutto sia sulle spalle di queste madri, di questi fratelli, di questi figli". La speranza in città resta viva, ma la pazienza sembra del tutto esaurita. Ed'è singolare che perfino il vescovo Domenico Mogavero, rispondendo alle domande dell'Adnkronos, abbia detto "basta: è ora che chi di dovere intervenga, anche con corpi speciali".
Libia, lo scacchiere 'minato'
Una agonia esacerbata in questi giorni dalla liberazione lampo di una nave cargo turca, con 17 membri dell'equipaggio, sequestrata il 5 dicembre e rilasciata giovedì, dietro pagamento di un'ammenda. Da quella sera i familiari si riuniscono in presidio davanti casa dei genitori del ministro Alfonso Bonafede, originario di Mazara del Vallo. "Ci dicano chiaramente che l'Italia non conta nulla - dice ancora Cristina Amabilino - così la smettiamo di pagare queste maledette tasse". Negli ultimi giorni è trapelata l'ipotesi di un processo contro i pescatori, già fissato per la prossima settimana. "A noi però non ci hanno confermato nulla dalla Farnesina", aggiunge la donna. L’Italia negli ultimi anni è riuscita a liberare alcuni connazionali vittime di sventure all’estero, come il rilascio di Silvia Romano, la cooperante rapita in Kenya nel novembre 2018 e riconsegnata lo scorso 9 maggio. Un lungo sequestro, macchiato da alcune ombre rilanciate da un’inchiesta de Le Iene. In Libia, gli italiani possono contare su un'ambasciata Tripoli, nella zona controllata dal governo riconosciuto. Dal 2013 invece non è più presente a Bengasi, da quando l'auto blindata dell'allora console Guido De Sanctis venne crivellata di colpi. Per ottenere la liberazione, l'Italia si è rivolta anche ad altri Stati, come gli Emirati Arabi o la Turchia, senza alcun riscontro. Le trattative proseguono su più tavoli e anche gli 007 italiani stanno monitorando la vicenda, come si evince dal flusso di viaggi che emergono dai tracciati aerei sulla rotta Roma-Bengasi. Il Natale è ormai vicino, ma la ricorrenza non intenerisce le milizie del generale laico Haftar, che proverranno a slittare ogni decisione al 2021.
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