Una volta conquistare Roma, per una forza di destra, era un trofeo. E Milano, se non era di destra o comunque liberale, era sinonimo di fallimento. Oggi non è così, anzi, è totalmente l'opposto. Milano e Roma sono sacrificabili - per Fratelli d'Italia, Salvini e Forza Italia - perché servirebbero solo a perdere consensi in virtù di una corsa alla vittoria nazionale. Anche perché Roma è un inferno (e che lo continui ad amministrare la Raggi fa comodo a tutti, anche al centrosinistra, che infatti ha candidato un semi sconosciuto ai media, Roberto Gualtieri). Milano invece è una roccaforte di Sala e provare a sconfiggerlo significherebbe un bagno di sangue per le casse dei partiti. Ergo, perdere le due città principali italiane in realtà costituisca politicamente un affare.
Il centrosinistra, già in parte incastrato a Milano con Sala (che comunque non è strettamente espressione di partito), a Roma come dicevamo “punta” su Gualtieri. Per quel che riguarda il centrodestra, dopo l’attesa non si sa quanto convinta di Albertini e Bertolaso, ora si leggono nomi come quello di Gasparri (abbastanza di primo piano ma non necessariamente per i motivi giusti in chiave elettorale) o come altri oggettivamente non di spicco se non del tutto sconosciuti ai più: pare proprio che tutti – e in particolare il centrodestra, non avendo un sindaco uscente da doversi sobbarcare – si stiano impegnando per provare a perdere.
Una situazione già preconizzata dalla grillina Paola Taverna, che alla vigilia delle amministrative del 2016 disse: “A Roma c’è un complotto per farci vincere”. Sembrava paradossale e un po’ ridicolo, ma in fondo fu così, e in cuor loro gli altri partiti sperano che Virginia Raggi faccia il bis, in modo tale che possa rimanere per altri cinque anni (o finché resisterà) come pratico punching ball per le bordate provenienti sia da destra che da sinistra, situazione perfettamente rappresentata da una recente puntata di “Di Martedì” in cui la povera Virginia, presente in studio (“Non posso dire che questi cinque anni siano stati tranquilli: insomma, sono cresciuta a pane e mazzate”), è stata bersagliata e massacrata da tutte le parti, persino al di là dei propri demeriti. Uno spettacolo un po’ triste ma elettoralmente utile alle varie cause (più o meno tutte tranne quella del rimasuglio di M5S che si riconosce in Raggi, ammesso che esista). Più o meno la stessa cosa sta accadendo a Milano: c’è molta poca voglia di mettersi in gioco e rischiare di vincere.
“Il sindaco di una città metropolitana – spiega un altro agnello politicamente sacrificale capitolino, Ignazio Marino, in un intervento ospitato sull’Espresso – ha responsabilità enormi, compreso un bilancio annuale in alcuni casi superiore a quello di una grande azienda. Il sindaco di Roma è responsabile di un bilancio cittadino superiore ai 5 miliardi di euro e, come maggiore azionista, di un fatturato di altri 3,2 miliardi di euro per Acea, la multiutility che distribuisce acqua ed elettricità. Quale amministratore delegato accetterebbe la responsabilità di gestire un’azienda con un bilancio annuo di quasi 10 miliardi, oltre sessantamila dipendenti, diversificata in aree strategiche che vanno dai trasporti sino ai rifiuti tossici di un ospedale, per un salario di 4.500 euro al mese e senza la possibilità di scegliersi una squadra di professionisti che possano assumersi le necessarie responsabilità in ciascuna delle aree di attività dell’azienda? E con il rischio di essere denunciato ogni giorno mentre svolge il proprio lavoro?” E ancora: “Per circa trent’anni ho eseguito trapianti di fegato […] e non sono mai dovuto entrare in un tribunale per una denuncia. Per ventotto mesi ho fatto il sindaco e, in relazione a questa carica, sono dovuto entrare nei palazzi della Giustizia come imputato decine di volte. […] Addirittura, perché decisi di allontanare le bancarelle degli ambulanti dinanzi al Colosseo, al tempio di Nerva o in piazza di Spagna è stato necessario difendermi sino in Cassazione come semplice cittadino”.
Oltre alle grane legali e di reputazione, oggi candidarsi a sindaco non è nemmeno più garanzia di una carriera politica nazionale: “Se dicevi di sì a Berlusconi o a D’Alema e accettavi una candidatura – il commento di Antonio Polito sul Corriere – poi potevi star certo che saresti stato ripagato. Oggi i leader vanno e vengono: è diventato un lavoro stagionale. E non ci sono più gli «honorum» perché la carriera di sindaco è diventata un calvario, non è nastri e inaugurazioni e soldi da spendere, come nella seconda repubblica. Nella terza solo processi per abuso d’atti di ufficio e debiti”.
Anche un giornalista vicino al centrodestra come Augusto Minzolini (editorialista del Giornale, ex direttore del Tg1 ed ex senatore) riconosce l’esistenza della questione del gioco al ribasso: “Siamo un Paese – dice Minzolini intervistato da Radio Radicale – che è vissuto sulla retorica dei sindaci, poi siamo passati alla retorica dei governatori e adesso però se andiamo a vedere troviamo una classe dirigente un po’ carente e un tipo di proposta che non è comprensibile. Se tu per anni dici che il problema di Roma è la Raggi, la descrivi come la fotografia dell’incompetenza e nel momento in cui vai a sfidarla non metti in campo qualcuno che dia un senso alle parole che hai detto, […] poi allora è tutto un parlare, è tutto una polemica, è tutto un grossolano antagonismo che però punta soltanto al piano elettorale ma che poi non ha un seguito sul piano delle proposte politiche e del governo”.
Per quel che riguarda la sgangherata situazione del centrodestra a Roma, per Minzolini “la via maestra sarebbe stata la candidatura della Meloni. Se tu ti proponi in futuro come possibile leader di quello schieramento sarebbe stata la cosa migliore, perché ti confronti su un problema grosso, sulla gestione di una grande crisi, e in ogni caso lì ti metti in discussione. Un po’ come quello che sta facendo e ha fatto con successo il sindaco di Madrid, del Ppe. […] Nel momento in cui vai a trovare altre personalità, rischi che piano piano declini. […] Visto che a Roma il partito trainante è Fratelli d’Italia, tanto più avrebbe dovuto accettare o comunque lanciare la sfida”.