Non mi andava che il giorno finisse così, senza una parola sul compleanno di Enzo Ferrari. È vero, non c’è più da un bel po’ di tempo e se anche ci fosse stato ne avrebbe fatti 125. Che, per carità, sarebbero stati tantissimi, ma nei giornali di solito si celebrano le cifre tonde. Però Enzo Ferrari non può essere uno da mettere nei “di solito”, perché nella vita di quell’uomo capace di essere tutto e il contrario di tutto non c’è stato nulla di ordinario.
L’hanno dipinto in ogni modo, quasi sempre come un sognatore, ma è stato, probabilmente, l’incarnazione dell’ostinazione. Se qualcuno mi chiedesse di disegnare l’ostinazione, la matita traccerebbe il viso di Enzo Ferrari. Sognare, mi disse una volta una persona che del Drake era poco più giovane, non basta e non basta neanche crederci, quindi o impari ad abbassare il livello dei sogni o ti prepari ad annientarti. Per provarci e senza la certezza di riuscirci. Ho letto molto, tanto, di Enzo Ferrari, perché ha racchiuso in un personaggio tutte quelle cose che hanno accesso le mie emozioni: la velocità, i motori, D’Annunzio, ma anche la storia, quella di uomini come Francesco Baracca (l’aviere che aveva il Cavallino come simbolo) e di un’Italia fatta da coraggiosi e visionari capitani d’impresa che hanno chiesto poco e dato tanto. Quell’Italia che non s’è accontentata di medicare e veder guarite le ferite del dopoguerra, ma che ha voluto farci nascere sopra anche immensa bellezza. Il motto è sempre lo stesso: competere, meritare, trasformare. Che sono i tre genitori del verbo dal suono più ammaliante che possa esistere: VINCERE! Anche quando vieni da Maranello, in anni in cui da quelle parti si stava con la schiena piegata sui campi e pochi grilli per la testa. Figuriamoci le macchine da corsa.
Ecco perché di Enzo Ferrari ho bruciato ogni cosa, ogni scritto, ogni video, ogni intervista, ogni filmato e tutto quello che raccontasse qualcosa di più di un personaggio che, in realtà, non raccontava mai niente. Sfacciatamente nascosto, nella perfetta estetica della contraddizione che Ferrari interpretava, dietro un paio di occhiali scuri. Burberamente umano. Così legato alle radici, ma proiettato al futuro. Chiunque ha raccontato il Drake ha raccontato un uomo che sapeva essere un estremo e l’estremo contrario, senza alcun bilanciamento. E probabilmente anche senza alcuna armonia, soprattutto dopo che il destino lo ha schiaffeggiato con la violenza più inaudita: la morte di un figlio.
In una moltitudine di produzioni dedicate al Drake, però, ci sono due libri che, almeno per quanto mi riguarda, dovrebbero essere pietre miliari di un qualche programma didattico su impegno e traguardi, su ambizioni e concretezze o, più genericamente, sul fare impresa tentando sempre un’impresa. Che non è arricchirsi, ma essere primo! “Le mie gioie terribili. Storia della mia vita” – si intitola il primo libro. Lo ha scritto proprio Enzo Ferrari, tra dialetto e un Italiano che probabilmente suonava arcaico, o comunque impostato, anche nel 1960. Sì, perché è un libro del 1962, che poi è stato aggiornato nei decenni successivi, tracciando uno spaccato dell’uomo, dell’imprenditore, della storia di un marchio che è diventato identificativo del binomio “Italia e Bellezze”, ma anche della storia di un Paese e del suo declino. Non culturale e nemmeno di capacità di generare futuro, ma declino dell’ostinazione intesa come valore. Valore da difendere. Valore da recuperare.
L’altro libro, invece, è scritto da mano di donna. E si sente. Perché affronta la sostanza raccontando dettagli, attraverso aneddoti di chi con Ferrari ha vissuto, lavorato, sognato. Compreso il racconto di quella volta che Gabriele D’Annunzio, invitandolo a casa, gli donò una tartaruga: “L’animale più lento del mondo, all’uomo più veloce del mondo”. Piccole storie immense, a lato della storia di un uomo che la storia l’ha attraversata e scritta. Quel libro, firmato da Nunzia Manicardi, si intitola “Quel diabolico Ferrari” e racconta, attraverso piccole clip di letteratura, l’ostinazione di un sognatore che ha rifiutato il cerchiobottismo, che non si è piegato mai e non ha mai leccato le chiappe a nessuno, pur sapendo andare a braccetto, guadagnandosene la stima così da renderlo non pericoloso, con chiunque avrebbe potuto ostacolare l’unica cosa che gli interessasse davvero: competere, meritare, trasformare, con le sue macchine rosse. O, più sinteticamente, veder vincere la sua Ferrari.
Ho trovato uomini che indubbiamente amavano come me l'automobile. Ma forse non ne ho trovati altri con la mia ostinazione, animati da questa passione dominante nella vita che a me ha tolto il tempo e il gusto per quasi ogni altra cosa. Io non ho alcun diverso interesse dalla macchina da corsa. E.F.